Modello Lombardia

Aziendalizzazione della sanità pubblica, prevenzione affossata, servizi territoriali svuotati. Tutto in favore dei privati convenzionati. Sono le premesse della Waterloo lombarda nella lotta al Covid-19. Una disfatta con precise responsabilità politiche, che non possono più essere eluse

È arrivato il momento di sfatare definitivamente un mito. Da molti anni la sanità lombarda viene raccontata come un’eccellenza dalla destra che tiene saldamente in mano le redini della regione. Questa è la narrazione istituzionale presentata ad ogni piè sospinto. Ma l’emergenza Covid-19 ha esibito una verità che confligge con questa descrizione. Ossia il totale fallimento del modello lombardo.
Innanzitutto, è bene partire con una premessa. Come ha ricordato l’Oms, c’è stata una «finestra di opportunità» tra la scoperta del virus in Cina e la sua diffusione nel resto del mondo. In quello spazio di tempo ci si sarebbe dovuti preparare al meglio per rispondere al contagio, senza farsi trovare impreparati. Un compito che avrebbero dovuto assolvere sia il Servizio sanitario nazionale che quelli regionali. Ma l’occasione è stata sprecata. Non si è fatto nulla e i tragici risultati sono ora sotto gli occhi di tutti. Per quanto riguarda la Lombardia, i dati non ammettono repliche. Al 1°maggio 2020 la regione da sola totalizza circa la metà degli oltre 28mila decessi registrati a livello nazionale secondo i dati, ampiamente sottostimati, forniti dalla Protezione civile e 89 dei 150 medici che hanno perso la vita in Italia vivevano proprio in Lombardia.

Se vogliamo compiere una sintesi, i principali motivi di questa Waterloo sono stati tre. Primo, il forte squilibrio a favore della sanità privata. All’interno di un sistema sanitario regionale misto, le strutture del privato convenzionato ricevono circa il 40% della spesa sanitaria corrente. Tali realtà sono del tutto disinteressate ad attività come la prevenzione. Meno persone sviluppano patologie, infatti, meno potenziali “clienti” si troveranno ad aver bisogno dei loro servizi. Per questo motivo la sanità privata è poco interessata a settori meno redditizi come i Pronto soccorsi e i dipartimenti d’emergenza, che necessitano di un ingente investimento in operatori ed attrezzature a fronte di un modesto margine di profitto, mentre concentra la sua offerta su cardiologia, alta chirurgia, reparti per malati cronici.

Secondo, la cosiddetta aziendalizzazione dello stesso Servizio sanitario pubblico. Esso ha, pian piano, fatto propri gli stessi valori e priorità delle strutture private. Una situazione ancora più tragica se si considera che spesso questa dinamica è maturata in seno ad una catena di comando basata sulla fedeltà di partito dei dirigenti sanitari. Così, la medicina preventiva è stata mortificata, la programmazione degli studi epidemiologici in gran parte dismessa, i servizi per la medicina del lavoro pressoché azzerati. Per capire poi quale fosse la considerazione sui medici di medicina generale della giunta lombarda, è sufficiente ricordare le parole pronunciate da Giancarlo Giorgetti al meeting di Comunione e liberazione lo scorso agosto: «Mancheranno 45mila medici di base nei prossimi cinque anni. Ma chi va più dal medico di base? Senza offesa per tutto questo mondo qui, quello del medico di cui ci si fidava anche, è finita anche quella roba lì». Per la destra quelle professionalità che, se adeguatamente sostenute e valorizzate, avrebbero potuto lavorare con efficacia per arginare l’epidemia, sono considerate da tempo un ostacolo alla privatizzazione. Infine, sono stati dimezzati…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 15 maggio

Vittorio Agnoletto

Medico, specializzato in medicina del lavoro, insegna “Globalizzazione e politiche della salute” all’Università degli Studi di Milano, membro della direzione di Medicina democratica, conduttore di “37e2” la trasmissione sulla salute di Radio Popolare. 

15/5/2020 https://left.it

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