Mondiali Qatar 2022

Un numero impressionante, svelato a febbraio 2021 da un’inchiesta del Guardian, che ha riportato l’attenzione dell’opinione pubblica su una questione fortemente dibattuta fin dal primo momento del suo annuncio: perché il Mondiale di calcio 2022 è stato assegnato al Qatar?

Per analizzare questa controversa questione, partiamo da altre due domande altrettanto rilevanti: perché il Qatar ha voluto ospitare il Mondiale? E ancora, come il Qatar è arrivato ad essere il miglior candidato per ospitare questo evento di dimensioni globali? Descriveremo poi il sistema della kafala, che a detta di molti osservatori sta alla base dell’alto numero di vittime e infortuni sul lavoro in Qatar, e le (non) reazioni della comunità internazionale.

Il Qatar: società, politica ed economia

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Foto di Yasser Dorgham da Pixabay

Penisola desertica del Golfo Persico, poco meno esteso del Trentino-Alto Adige, il Qatar è uno dei sei membri del potente Gulf Cooperation Council (GCC), una sorta di Unione europea del Golfo, composta anche da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrein, Oman. Indipendente dal 1971, il Qatar è una monarchia assoluta in cui la famiglia al-Thani si tramanda la carica di Emiro (monarca e Capo di Stato) di padre in figlio, o attraverso incruenti colpi di stato.

La ricchezza del paese si basa principalmente sull’esportazione di petrolio e gas naturale. Scoperto nel 1939 e commercializzato a partire dal 1949, il petrolio ha sconvolto la società locale. Un tempo sonnacchiosa landa desertica, popolata da tribù beduine, il Qatar ha aumentato la sua popolazione di oltre 100 volte tra il 1950 e il 2019, passando dai 25 mila agli attuali 2 milioni e 800 mila abitanti. In parallelo, anche la sua ricchezza è cresciuta, rendendolo negli ultimi anni uno tra gli stati con il Pil pro capite più alto al mondo.

La piramide della popolazione del Qatar è tipica dei paesi esportatori di petrolio ed è definita “irregolare” dai demografi, in quanto possiede un innaturale rigonfiamento nella colonna sinistra, cioè quella degli uomini in età da lavoro (20-45 anni). Il Qatar è infatti il secondo paese al mondo per percentuale di uomini sul totale della popolazione (72%), dopo gli Emirati Arabi Uniti.

L’eccedenza di uomini è dovuta all’immigrazione per lavoro e la maggior parte dei lavoratori migranti sono impiegati nella costruzione di avveniristiche infrastrutture di cui il paese si è dotato negli ultimi tre decenni e nei settori estrattivi di petrolio e, dal 1990, di gas naturale. Infatti, il Migration Policy Institute stima che i non-qatarioti compongano l’88% della popolazione residente.

Il Qatar rientra tra i rentier state, ovvero quegli stati la cui rendita è fortemente dipendente dall’esportazione di combustibili fossili. La popolazione dei rentier state generalmente non è tassata: acqua, elettricità e molti servizi sono forniti gratuitamente dallo stato, il quale è di solito anche il primo datore di lavoro. Ma il famoso principio no taxation without representation è stravolto da questi governi, che l’hanno riadattato a no taxation no representation.

In base a questo patto sociale, i cittadini perdono quindi il diritto ad essere rappresentati a livello politico e sindacale. La possibilità di usufruire di un’abbondante manodopera non rappresentata e a basso costo è stato uno dei fattori che ha permesso al Qatar uno sviluppo economico così rapido e impetuoso.

Il peso del Qatar nelle relazioni internazionali

Il peso politico di questo giovane stato è aumentato in maniera esponenziale, di pari passo con l’ascesa economica del Gulf Cooperation Council. Arricchitosi come quasi tutto il mondo arabo grazie alle due crisi energetiche degli anni settanta, il Qatar patì il crollo del prezzo del petrolio del 1985, entrando in un periodo di stagnazione.

Il governo qatariota decise allora di puntare sul gas naturale: la scoperta di diversi giacimenti tra gli anni novanta e duemila lo portarono ad essere il terzo detentore di GNL (gas naturale liquefatto) al mondo, dopo Russia e Iran. In breve tempo il Qatar è diventato un partner fondamentale per la fornitura energetica di paesi come Spagna e Giappone prima, India e Corea del Sud poi.

Anticipando un trend oggi molto presente nei paesi del Golfo, nello stesso periodo il Qatar ha iniziato a diversificare la propria economia, creando un fondo sovrano da 170 miliardi di dollari che ha usato per fare impressionanti investimenti in tutto il mondo.

A partire dal 2005, la neonata Qatar Investment Authority (QIA) ha acquistato quote di banche di investimento (Credit Suisse, Barclays), società calcistiche (Paris Saint Germain), case automobilistiche (Porsche, Volkswagen), ma anche intere parti di città, come il grattacielo più alto dell’Europa occidentale, il the Shard a Londra, e il quartiere Porta Nuova di Milano, compreso il Bosco Verticale, la Torre Unicredit e tutti gli spazi verdi.

Mondiali Qatar 2022: l’uso dello sport come soft power

Se i piccoli stati hanno raramente un posto di rilievo nelle relazioni diplomatiche, secondo il ricercatore dell’Arab Center for Research & Policy Bernd Kaussler il Qatar riesce a imporre la propria presenza a livello internazionale attraverso l’uso del cosiddetto soft power.

Questa espressione, coniata dal politologo statunitense Joseph Nye alla fine della Guerra Fredda, teorizza la possibilità di diventare attori chiave sulla scena internazionale anche senza l’ausilio di un grande e ben armato esercito, senza cioè l’hard power, che ha contraddistinto tutto il resto del Secolo breve.

Nel caso del Qatar, il desiderio di legittimazione internazionale della sua potenza economica e politica si è sostanziato nell’utilizzo dello sport come soft power, in particolare tramite l’organizzazione di eventi sportivi in territorio qatariota e la sponsorizzazione di grandi club calcistici (Barcellona, Roma, Boca Juniors) della Qatar Airways. Questo uso dello sport, come scrive Niranjan Jose alimenta “la narrativa secondo cui il Qatar è un attore chiave a livello globale”.

Dal 1993 il Qatar accoglie un importante torneo maschile di tennis e dal 2001 anche quello femminile. Dal 1998 ospita il Qatar Masters di golf, dal 2004 la MotoGP e, nello stesso anno, è entrato nei IAAF Super Grand Prix di atletica leggera.

Oltre a questi appuntamenti sportivi annuali, il Qatar ha ottenuto la possibilità di ospitare numerosi altri eventi, tra i quali il Mondiale FIFA Under 20 (1995), i Giochi Asiatici (2006), la Coppa del Mondo di Pallamano (2015), il Cycling World Championship (2016) e i Campionati del mondo di atletica leggera (2019).

Ma il vero fiore all’occhiello per l’Emiro Tamim al-Thani è stata la vittoria del bando per ospitare i Mondiali di Calcio del 2022, un evento di rilevanza globale, al pari delle Olimpiadi e delle Esposizioni Universali (EXPO), capace di catalizzare l’attenzione di quasi tutto il pianeta.

A che prezzo tuttavia il Qatar si è fatto carico dell’organizzazione del Mondiale?

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Foto: International Labour Organization

I costi umani dei mondiali Qatar 2022

Già nel 2014 l’ITUC (International Trade Union Confederation) stilò un report (pdf) in cui denunciava il maltrattamento dei lavoratori migranti impiegati nella costruzione delle infrastrutture per i mondiali Qatar 2022, per quanto riguarda diverse questioni, tra cui salario, libertà di movimento, confisca del passaporto. Il dato che di certo colpiva di più era legato agli infortuni e alle morti sul lavoro.

Al 2013, il report stimava che circa 20 lavoratori migranti indiani morissero ogni mese, con un picco di 27 in agosto, il mese più caldo, in cui mediamente si registrano temperature di 40.7 gradi durante il giorno.

Come anticipato, il Guardian ha pubblicato i dati aggiornati al febbraio 2021 dei lavoratori migranti morti durante i lavori necessari per l’organizzazione del Mondiale 2022. Si tratta di circa 6.751 persone, così suddivise per nazionalità:

  1. Indiani – 2.711
  2. Nepalesi – 1.641
  3. Bengalesi – 1.018
  4. Pakistani – 824
  5. Cingalesi – 557

Per dare un’idea dell’eccezionalità di ciò che sta accadendo in Qatar, il già citato report dell’ITUC ha comparato le morti legate ai mondiali Qatar 2022 con quelle di altri mega-eventi sportivi a partire dalle Olimpiadi di Sydney nel 2000: il numero massimo di morti si era raggiunto con le Olimpiadi invernali di Sochi 2014, quando morirono 60 persone. Negli altri eventi, le morti sono state tra le 0 (Olimpiadi di Londra 2012) e le 40 (Olimpiadi di Atene 2004).

Come mai muoiono così tanti lavoratori? La risposta, secondo il report dell’ITUC è una sola: le condizioni lavorative.

Che si tratti di incidenti sul lavoro, infarti provocati dall’eccessivo stress o dalla prolungata esposizione alle altissime temperature, o ancora di malattie provocate dalle squallide condizioni degli alloggi, ciò che rende legali tali condizioni lavorative è quella peculiare modalità di assunzione e trattamento dei lavoratori migranti nei paesi del Golfo, conosciuta come kafala.

Mondiali Qatar 2022: che cos’è la kafala

La kafala, presente nei paesi del Golfo, in Libano e in Giordania, nasce come istituto giuridico del mondo musulmano simile all’affido, per il quale un garante – detto kafyl – si fa carico di un minore dichiarato abbandonato, fino al raggiungimento della maggiore età.

Per estensione, nel linguaggio corrente la kafala è anche quel particolare rapporto di sponsorship che lega un lavoratore migrante al suo datore di lavoro. Per usare le parole dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), “la kafala è una delega da parte dello stato nei confronti di un datore di lavoro della responsabilità di vigilare sull’immigrazione e sullo status occupazionale del lavoratore migrante”.

In altre parole, uno sponsor privato – il kafyl – si fa carico dell’arrivo e dell’impiego nel mondo del lavoro di un migrante. Sempre citando lo studio dell’OIL del 2017 (pdf), questo rapporto tra lavoratore migrante e kafyl “è intrinsecamente problematico, in quanto crea uno squilibrio” di poteri legati alla gestione non solo del rapporto lavorativo ma anche della libertà individuale.

L’OIL individua cinque azioni che, in Qatar e in Arabia Saudita, il lavoratore migrante non può compiere senza il consenso del kafyl: l’entrata nel paese di destinazione, il rinnovo del permesso di soggiorno, la cessazione del rapporto lavorativo, il trasferimento ad altro datore di lavoro e l’uscita dal paese di destinazione.

Se solo l’obbligo del consenso del kafyl per l’entrata nel paese di destinazione è comune agli otto stati dove esiste la kafala, il lavoratore migrante è soggetto a tutte e cinque le limitazioni indicate dall’OIL solamente in Qatar e in Arabia Saudita, che si aggiudicano quindi il primato della maggior dipendenza del lavoratore migrante dal proprio kafyl.

In particolare, l’ultima limitazione della libertà, quella dell’obbligo di consenso del kafyl per l’uscita dal paese di destinazione, toglie completamente il libero arbitrio al lavoratore migrante il quale, senza il consenso del suo sponsor, non può neanche tornare a casa propria. Purtroppo, l’impossibilità di rimpatrio è spesso impedita anche dai paesi che non la prevedono per legge: è infatti prassi diffusa negli otto stati che adottano la kafala il sequestro – illegale – del passaporto del lavoratore migrante da parte del kafyl.

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Foto: International Labour Organization

A partire dal 2020 si è iniziato a parlare di una riforma della kafala in Qatar. Al-Jazeera, principale agenzia di informazioni del mondo arabo, fondata nel 1996 in Qatar dal padre dell’attuale Emiro, Hamad al-Thani ha scritto il 20 marzo 2021: “le recenti riforme del diritto del lavoro qatariote hanno trasformato il mercato del lavoro nazionale”. Nell’articolo sono elencate le riforme che il paese ha adottato recentemente. Si tratta dello stipendio minimo garantito per legge (marzo 2021), la possibilità di cambiare lavoro senza il consenso del datore di lavoro (agosto 2020) e, infine, sul fronte della salute e della sicurezza, l’introduzione di misure nuove e maggiormente restrittive, che elevano lo standard di vita dei lavoratori.

Tuttavia, a guardare oltre la narrativa dominante sponsorizzata dal governo del Qatar ci pensano le ONG Amnesty International e Human Rights Watch, e l’advocacy organisation Migrants-Rights.org basata nel Golfo, che da anni ha una campagna aperta di riforma della kafala. Queste organizzazioni sollevano dubbi sulla concreta applicabilità delle riforme, sottolineando come nella prassi sia sempre difficile ottenere il nulla osta al trasferimento verso un altro datore di lavoro.

Mondiali Qatar 2022: la campagna di boicottaggio

Di fronte a una simile situazione, le reazioni internazionali sono state per anni quasi inesistenti. Qualcosa sta forse cambiando in seguito alla pubblicazione dei dati sui lavoratori migranti morti in Qatar. Il 26 febbraio 2021, in una nota in inglese sul sito ufficiale, la società calcistica norvegese Tromso ha dichiarato:

Il fatto che la corruzione, la moderna schiavitù (la kafala, ndr) e l’alto numero di morti siano alla base della cosa più importante che abbiamo, la Coppa del Mondo, non è assolutamente accettabile […] dunque non possiamo più stare in silenzio a guardare persone morire nel nome del calcio […]. La società Tromso chiederà alla Federazione nazionale norvegese di boicottare la Coppa del Mondo 2022. Crediamo che, se la Norvegia dovesse qualificarsi, dovremmo rifiutare di andare a giocare in Qatar.

Con queste parole la società ha di fatto dato il via alla campagna #BoycottQatar2022. La federazione norvegese ha però votato contro il NorwayOut, cioè la non partecipazione al Mondiale in caso di qualificazione, anche se si è detta a favore delle maglie che la nazionale ha indossato nel riscaldamento prepartita di Gibilterra – Norvegia del 24 marzo 2021, che recavano la scritta “Respect – on and off the pitch” (Rispetto – dentro e fuori dal campo) e che alludevano alla condizione dei lavoratori migranti in Qatar.

Anche i calciatori di Germania e Paesi Bassi hanno indossato nel riscaldamento prepartita delle maglie che recavano le scritte “Human Rights” e “Football supports the change”. Tuttavia, nessuna delle due federazioni ha dato adito alla possibilità di chiamarsi fuori dai mondiali Qatar 2022.

La posizione della Federazione calcistica francese (FFF), campione del mondo in carica, è precisa: “La Francia sarà presente ai Mondiali, se si qualificherà” ha detto Noël le Graët, presidente della FFF. La Federazione calcistica del Belgio, prima nel ranking mondiale FIFA, si è espressa riguardo la possibilità di sfruttare l’attenzione mediatica suscitata dalla competizione per cercare di “aprire la porta ad altre riforme”. Dunque giocare, e giocare per il bene stesso degli operai, che verrebbero altrimenti “licenziati e rispediti nel paese d’origine”. Non è chiaro da dove la federazione belga abbia tratto questa conclusione, tuttavia può sembrare positivo il semplice fatto di aver riconosciuto l’entità del problema legato alla kafala in Qatar.

Abituati al rumore delle continue notizie sui più vari mezzi di comunicazione, ciò che passa spesso inosservato sono i silenzi, ovvero le mancate reazioni. Ebbene, al momento manca la reazione degli Stati Uniti, partner militari del Qatar, storicamente sensibili alla questione dei diritti umani negli altri stati. Forse tacciono anche approfittando del fatto che non prenderanno parte alla Coppa del Mondo poiché precocemente eliminati durante qualificazioni? E ancora, cosa ne pensa la Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC)? Mentre la RAI ha annunciato di avere acquisito i diritti di trasmissione del Mondiale, sul fronte del rispetto dei diritti umani in Qatar per ora tutto tace.

Mondiali Qatar 2022: too big to fail?

Come ha fatto notare Nick McGeehan, direttore dell’ente di ricerca sui diritti umani FairSquare Projects, “una significante porzione di lavoratori migranti morti in Qatar a partire dal 2011 erano in questo paese solo perché il Qatar ha ottenuto il diritto di ospitare la Coppa del Mondo”. Se dunque si accettasse questa consequenzialità, di fatto si colpevolizzerebbe tutto l’apparato decisionale dell’assegnazione del Mondiale 2022, nonché tutti coloro che, pur avendone le possibilità, si sono astenuti dall’agire.

Qual è il ruolo delle grandi istituzioni internazionali (dalle varie agenzie delle Nazioni Unite alla FIFA) nel non arrestare questo stillicidio di morti sul lavoro? Hanno davvero così poco potere contrattuale rispetto al piccolo ma ricco Qatar, o la vita degli operai del subcontinente indiano non vale il prezzo della cancellazione dell’evento sportivo più seguito al mondo?

E infine, cosa possiamo fare “noi”, la società civile calcistica, ovvero i tifosi? Questi ultimi a quanto pare detengono un grande ascendente sulle scelte dei propri club, visto quello che è successo nella questione Super League. Avrebbero forse lo stesso impatto anche con le federazioni nazionali, nel domandare il rispetto reale dei diritti dei lavoratori o addirittura il boicottaggio dell’evento? Oppure semplicemente Qatar 2022 è too big to fail, troppo grande per fallire?

Se dall’alto tutto tace, dipende da noi costringere chi di dovere a esprimersi, come hanno mostrato i movimenti per il clima e il Black Lives Matter. Il movimento #BoycottQatar2022 saprà imporre la propria attenzione e costringere governi e organismi internazionali, sportivi e non, ad affrontare la questione delle morti sul lavoro e del rispetto dei diritti umani in Qatar?

Mondiali Qatar 2022: Per approfondire

Emiliani, M. (2012). Medio Oriente: Una storia dal 1918 al 1991, Bari-Roma: Edizioni Laterza

Hanieh, A. (2018) Money, Markets, and Monarchies: The Gulf Cooperation Council and the Political Economy of the Contemporary Middle East, Cambridge University Press

Kaussler, B. (2015), Tracing Qatar’s Foreign Policy Trajectory and its Impact on Regional Security, Arab Center for Research & Policy Studies, Research paper

Nye, J.S. (1990), Soft power, Foreign Policy, Autumn, 1990, No. 80, Twentieth Anniversary (Autumn, 1990), pp. 153-171

Filippo Marinoni

Geografo

14/5/2021 https://www.lenius.it

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