Morire con grazia

Sì come una giornata bene spesa dà lieto dormire,
così una vita bene usata dà lieto morire

Leonardo da Vinci,
Codice Trivulziano 2162

 

“Grazie”… una parola dai significati molteplici. Pronunciamola innanzitutto per esprimere la nostra gratitudine a Sandro Spinsanti, che nel suo ultimo libro[1] ha voluto e saputo sistematizzare un tema così complesso qual è il morire cercando di sottrarre l’ultima fase del cammino della vita al dominio esclusivo ed autoreferenziale della Medicina o del Diritto per consegnarla in braccio alla Cultura. E quale strumento, se non il mito, poteva soccorrere l’Autore in questa impresa? Con un’originale e audace intuizione la scelta non è caduta sulle scontate figure delle Parche, che avrebbero limitato la riflessione ad una prospettiva fatalistica della vita e della morte, dove la persona nulla può contro il Destino.

A Spinsanti, invece, preme parlare delle scelte che siamo chiamati a fare riguardo alla nostra salute e alla nostra vita, tanto più meritevoli di attenzione quanto più si fanno fragili e incerte con il progredire degli anni, delle malattie, delle disabilità. È in questo tempo che le “Grazie” del mito ci possono aiutare nel dare senso alla nostra esistenza. Facendo riferimento a ciò che le tre divinità simboleggiano, il libro ci guida alla scoperta di come sia possibile realizzare, proprio alla fine della vita, un percorso improntato al felice equilibrio, alla serenità, alla pienezza. Grazie alla ricca cultura dell’Autore il viaggio è costellato da continui riferimenti letterari ma anche cinematografici, presentati al momento opportuno con straordinaria appropriatezza, come se fossero stati scritti proprio per sostenere e spiegare il filo del discorso che in quel momento si sta dipanando. E non si tratta soltanto di classici come Leopardi, Tolstoj o Yourcenar, ma anche di tanti nomi cosiddetti “minori”, o di autori che non ti aspetteresti di trovare in un libro del genere, come Stephen King o Michele Serra.

Scorrendo le pagine si viene continuamente invitati a spostare l’attenzione dal momento della morte al processo del morire. Dunque non tanto, o non solo, quel preciso attimo che segna la fine della vita, quanto quel tempo, più o meno lungo, che ci avvicina alla fine della vita stessa. Quel tempo che, ci ricorda l’Autore, non è solo il krónos, il tempo quantitativo che scorre, ma può e deve essere anche kairós, ovvero il tempo giusto, il tempo opportuno per le scelte. Quel tempo adatto a prendere coscienza del limite, della finitezza, che deve vedere ogni persona protagonista del come vuole spendere quel krónos che le rimane. In tal senso si esprimono sia il Codice Deontologico dei medici – « il medico… registra il decorso clinico assistenziale nel suo contestuale manifestarsi o nell’eventuale pianificazione anticipata delle cure nel caso di paziente con malattia progressiva, garantendo la tracciabilità della sua relazione » (art. 26) – che autorevoli pronunciamenti quali quello della Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva: “Grandi insufficienze d’organo “end stage”: cure intensive o cure palliative? Documento condiviso per una pianificazione delle scelte di cura[2].

La chiave di lettura del tempo ci consente di cogliere il contrasto tra un modello di Sanità prevalentemente centrato sulle malattie acute ed i crescenti bisogni di chi invece è affetto da più patologie croniche. Sapevamo già dal Codice Deontologico medico che “il tempo della comunicazione è tempo di cura” (art. 20), oggi questa affermazione ha assunto la forza di un dispositivo di legge (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, art. 1, comma 8, approvata il 14 dicembre 2017). Questa legge propone un ragionevole punto d’incontro tra posizioni che solo pochi anni fa erano radicalmente inconciliabili. Stiamo finalmente entrando nel territorio ispirato a un “diritto gentile”, tutt’altra visione rispetto a quella violenta, crudele, spietata che venne auspicata da una parte della politica italiana nei tempi prossimi ed immediatamente successivi alla fine dell’esistenza di Eluana Englaro. Dunque, il tanto kronosche abbiamo a disposizione nel decorso delle malattie croniche ci deve consentire di cogliere quelkairós che, esso solo, può permettere l’instaurarsi di una relazione, di una comunicazione vera e profonda. In quest’ottica, Spinsanti acutamente sottolinea l’importanza del concetto di pianicazione condivisa delle cure – cui la recente legge dedica un intero articolo, il 5 –  che va ricondotta alla sua dimensione clinica e relazionale tra il paziente ed i curanti, piuttosto che stare a disquisire sulla dimensione formale, notarile dell’espressione di volontà, variamente definita come testamento biologico, direttive, disposizioni o dichiarazioni anticipate.

L’enfasi mediatica sulla cosiddetta “eutanasia” ci sta facendo dimenticare delle moltitudini di “dis-tanasie”, di “caco-tanasie” (G. Berlinguer). In proposito, la recente indagine dell’Agenzia Regionale della Sanità (ARS) della Toscana sulla qualità dell’assistenza nelle cure di fine vita[3] ha mostrato come la situazione resti ancora “Ospedale-centrica”. Nell’ultimo mese di vita più di un terzo dei pazienti ha effettuato almeno un accesso al Pronto soccorso e la grande maggioranza (il 75%) ha effettuato almeno un ricovero in reparti per acuti. Il decesso è avvenuto in Ospedale nel 45% dei casi, solo l’8% dei soggetti ha fatto ricorso all’Hospice nell’ultimo mese di vita e di questi ben il 50% lo ha fatto solo nell’ultima settimana di vita. Si capisce dunque quanto ci sia ancora da fare, in tema di pratiche quotidiane, proprio ora che con la legge appena approvata abbiamo anche i riferimenti normativi sulla base dei quali possiamo e dobbiamo lavorare per il cambiamento.

Deve aumentare l’attenzione alle cure palliative, il cui ambito non può più essere limitato temporalmente agli ultimi giorni di vita e nosologicamente ai malati oncologici, ma deve essere allargato sia ad una fase temporale più precoce in affiancamento – simultaneous care – alle cure specialistiche orientate al trattamento della malattia, sia a tutte le patologie degenerative non neoplastiche – cardiologiche, pneumologiche, neurologiche, ecc… – caratterizzate da una progressiva evoluzione sfavorevole e da una prognosi spesso peggiore di quella di molti tumori. Di tutto questo è acuto osservatore Atul Gawande nei suoi libri[4,5], cui Spinsanti fa ampio riferimento, quando denuncia che buona parte della medicina è schiava della logica del “fare sempre di più… È vero che il nostro compito è “lottare sempre”. Ma lottare non significa necessariamente fare di più. Significa fare la cosa giusta per il paziente”. Ecco come è possibile morire tra le braccia di Eufrosine, in quel felice equilibrio fra trattamenti curativi classici e cure palliative, tra il fare troppo, fino all’accanimento terapeutico, e il fare troppo poco, fino all’abbandono, magari giustificato da esigenze di bilancio.

Le situazioni in cui si trovano i malati affetti da cronicità non possono più essere considerate come dominate dal caso, esse sono invece, e sempre più, governate dalla scelta. Ed a chi spetta il diritto di decidere tra le diverse opzioni in una società plurale, caratterizzata cioè da una molteplicità di tradizioni e di sensibilità culturali, morali e confessionali non convergenti? La risposta a questa domanda è di cruciale importanza, per evitare che ai riduzionismi sia di tipo biomedico-tecnologico che economico-aziendalistico si affianchi un’altra deriva, altrettanto pericolosa: quella di un’espropriazione etica della volontà/capacità di decidere da parte di ogni singolo ammalato sulle questioni che riguardano la propria salute, delegando a norme stabilite da altri ciò che si può o non si può fare in tema di Cura. Ed ancora Spinsanti ci invita a guardare il mondo greco, sottolinenando che la grammatica delle lingue moderne ha mantenuto il singolare ed il plurale, ma ha perso il numero duale del greco antico e del sanscrito: l’alternativa alla disgiunzione tra “io decido” oppure “tu decidi” è (sarebbe) “noi due decidiamo”! Non faremo infatti molta strada se continueremo a contrapporre al paternalismo medico di un tempo una malintesa autonomia dei pazienti.

Se non è più accettabile la posizione del medico quale padrone assoluto del potere di decidere sulla salute del paziente, fatta salva la clausola della “scienza e coscienza”, è altrettanto irricevibile una posizione squilibrata che riconosce al paziente solo diritti e nessuna responsabilità: l’autonomia non è un dato a-priori, è un traguardo cui tendere, un valore da promuovere non contro ma insieme a coloro che esercitano le professioni di cura. Solo intesa così l’autonomia di una persona giunta alla fine della vita può coniugarsi sia con la serenità evocata dalla figura di Agliaia – quella “serenità connessa con la possibilità di tenere sotto controllo il processo del morire”- che con quella consapevolezza di essere “sazi di giorni” nell’abbraccio di Talia, grazie alla quale “la morte può essere anche il compimento di un percorso che ci conduce alla pienezza della nostra umanità”.

In conclusione, grazie a questo libro la Cura si riveste di Cultura, non certo per fini cosmetici, di abbellimento di facciata, ma per il significato più profondo che il termine cultura porta con sé, dacolere, cioè coltivare, prendersi cura. È quello che Sandro Spinsanti ci vuole trasmettere quando ci ricorda che “Morire in braccio alle Grazie appare quindi, sotto una denominazione estetica, come un compito spirituale e un impegno etico”. L’epilogo del libro è di grande impatto retorico ed emotivo: Spinsanti da una parte si riferisce all’estinzione di massa, citando il libro di Elizabeth Kolbert “La sesta estinzione” che analizza con lucidità il concreto rischio cui l’umanità è esposta e contro la quale “possiamo fare poco”, ma dall’altra ci ricorda che possiamo invece fare molto “per rendere umana quella individuale…goccia a goccia, siamo tutti protagonisti di un’estinzione individuale“. E qui l’Autore fa appello proprio a ciò che contraddistingue Homo sapiens dalle altre specie, a “ciò che ne ha fatto la fortuna evolutiva: la capacità di collaborare … Si muore da soli, ma non senza la nostra partecipazione consapevole, il contributo di chi stabilisce legami di cura, la professionalità dei sanitari, un’organizzazione di strutture sanitarie e sociali efficienti. Senza dimenticare norme legislative pertinenti”. È una sintesi perfetta della complessità deile prospettive che devono tutte entrare in gioco alla fine della vita, “l’alternativa è morire da Homo insipiens”.

Alfredo Zuppiroli

cardiologo e bioeticista

12/2/2018 www.saluteinternazionale.info

Bibliografia

  1. Spinsanti S. Morire in braccio alle Grazie. Il Pensiero Scientico Editore, Roma, 2017
  2. Ars Toscana. Collana Documenti ARS, 2017.  La qualità dell’assistenza nelle cure di fine vita (2017)
  3. Gawande A. Con cura. Diario di un medico deciso a fare meglio. Torino: Einaudi, 2007.
  4. Gawande A. Come scegliere la propria vita fino in fondo. Torino: Einaudi, 2016.

 

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *