Narrazione violenta

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Le giornate celebrative spesso sono vuote occasioni per ricordare cose che dovrebbero essere ben presenti sempre, tutti i giorni. Però possono anche essere momenti in cui ci si ferma a riflettere , e si richiama l’attenzione della pubblica opinione. In corrispondenza della giornata contro la violenza sulle donne si sono svolte manifestazioni, nonostante le restrizioni imposte dalla pandemia, con partecipazione appassionata. La cronaca, d’altra parte, ha fornito, anche a ridosso di questo momento, molti spunti di riflessione e dibattito sulla condizione femminile nel nostro paese. La parità di genere è continuamente disattesa nel campo lavorativo, in cui le donne sono meno occupate, in settori ristretti, a livelli sempre medio bassi, con basse retribuzioni e maggiore precariato. Il diritto all’aborto non è sempre garantito, la protezione dalle violenze domestiche insufficiente.

La nostra società è paurosamente caratterizzata dalla violenza di genere , che si esprime in molteplici forme, gradi e contesti. Violenza fisica, sessuale, verbale, psicologica, legislativa, che va dall’uccisione, alle percosse, ai maltrattamenti, alle molestie, alle discriminazioni, agli stereotipi. In coppia, in famiglia, per strada, nei locali, nei luoghi di lavoro, nelle strutture sanitarie, all’università, nello sport, sui mezzi pubblici, sulla stampa, in televisione, sui media, sui social.
Tenere un registro degli episodi è quasi impossibile. Le dinamiche sono sempre le stesse, cambiano i particolari, la minore o maggiore efferatezza e crudeltà.

I fatti di sangue emergono da un tessuto fitto di quotidianità, di “piccoli incidenti” spesso interpretati benevolmente, o derubricati a manifestazioni di apprezzamento, ironia, interesse delle quali ci sarebbe quasi da ringraziare. Fa parte della visione predatoria diffusa tra i maschi, di un universo femminile mercificato all’interno del quale si scelgono le destinatarie delle attenzioni, presupponendo che queste debbano come minimo sentirsi onorate, gratificate, anche nel caso non siano interessate al corteggiamento. Sono utili, anche se non determinanti i presunti “ segnali” emessi dalle donne, rappresentati dal modo di vestire o da comportamenti, interpretati come promesse o autorizzazioni.

Naturalmente tutto avviene nella mente del predatore, che non contempla la possibilità che le donne abbiano tutt’altre motivazioni e spesso reagisce malamente al chiarimento dell’equivoco. I confini quindi sono molto indefiniti, il corteggiamento facilmente scivola nella molestia, nella persecuzione, nel ricatto, quando avviene in contesti lavorativi ad esempio; la “gelosia-segno di amore” finisce nel controllo e nella possessività. Si tratta di questioni ormai note e dibattute, sulle quali si è scritto molto.

Pochi i segnali di cambiamento, di progresso rispetto ad epoche passate, anzi, le magnifiche sorti e progressive della nostra bella società hanno forse reso più insidiosa la violenza verso le donne. Le particolari caratteristiche della comunicazione multimediale, la facilità di diffusione di foto e video, le possibilità offerte dai social, determinano un aumento dei rischi, amplificano e diffondono la distorsione culturale da cui originano le varie forme di prevaricazione.

È disarmante constatare che, nelle varie epoche storiche sono cambiati i modi , i fenomeni, ma la sostanza, il nucleo della relazione uomo-donna continua a essere quello del dominio, del possesso; esistono interpretazioni sociologiche, psicanalitiche, antropologiche diverse, ma non hanno condotto a soluzioni, o almeno finora non si è riusciti a realizzarle, almeno nel nostro paese. Per l’importanza che il linguaggio riveste nella costruzione del pensiero, la rappresentazione che si dà dei fenomeni, il modo in cui si parla di violenza, di ruoli, di “ maschi e femmine”, le immagini e le parole che si usano alimentano questo disastro culturale che si nutre di se stesso.

È questo il danno sociale che si aggiunge alle sofferenze personali delle vittime, che soffoca le donne stesse nella percezione alterata del problema, inducendo sempre al riconoscimento di una responsabilità femminile: l’abbigliamento, le abitudini, le frequentazioni.
La narrazione dei fatti di violenza è parte del problema. Se non si pretende rigore e rispetto, se non si analizzano gli eventi, sottolineandone la gravità non potremo determinare cambiamenti nella mentalità, non si potranno instaurare nuove regole di relazione.
Solo per stare ai fatti delle ultime settimane, oltre alle donne uccise, di cui davvero si è costretti ad aggiornare il conteggio ogni due- tre giorni, si è letto di una ragazza violentata per ore, durante una festa vip, e del processo per un caso di revenge porn.
Quest’ultimo, in realtà pare non sia neppure un caso di ritorsione di un ex partner che non accetta la fine della storia, e che ricorre a un modo meno sanguinario ma non meno violento e pericoloso, rispetto all’omicidio, di vendicarsi.

Nella vicenda, che coinvolge una maestra, la relazione era ancora in corso. Evidentemente la decisione di condividere contenuti intimi, forse per esibire la conquista, rivela l’assoluta mancanza di rispetto; probabilmente il grand’uomo, ritenendosi proprietario di un “prodotto” , ha fatto prevalere sul diritto alla riservatezza della sua compagna, la generosità verso gli amici del calcetto.

Non stupisce, ma indigna, il racconto che si fa di questi gravissimi episodi sulla stampa e sui social : si giustificano i carnefici, si colpevolizzano le vittime. È molto sconfortante ad esempio, che, nel caso del video hard diffuso dall’ex fidanzato, alla violenza maschile della diffusione di un materiale intimo e personale si sia aggiunta quella di altre donne che non hanno esitato a schierarsi dalla parte dell’uomo, mettendo in discussione il diritto della donna a scegliere come gestire in privato la sua sessualità ed esercitando pressioni e minacce fino a farle perdere il lavoro. La ragazza drogata e violentata per ore da un gaglioffo imprenditore noto organizzatore di festini viene riconosciuta colpevole di aver partecipato alla festa, di voler far parte di un certo ambiente e di doversi quindi assumere una specie di rischio d’impresa. È aberrante ascoltare un personaggio come Feltri sproloquiare sull’accaduto, è aberrante che gli sia riconosciuta facoltà di parlare in questo modo in pubblico. Nemmeno di fronte ad autori di gravi reati si riesce a non scivolare nella difesa del modello di violenza maschile.

Urge una profonda riflessione da parte di uomini e donne, su quello che si veicola con messaggi giudizi, trasmissioni televisive che continuano a presupporre un ideale femminile ambiguo, contraddittorio e primitivo. La corporeità, la sessualità femminile sono utilizzabili da tutti, per tutto, dalla pubblicità dell’automobile, al palinsesto televisivo, tranne che dalla proprietaria del corpo stesso. Quando la donna vuole scegliere, che si tratti di abbigliamento, di partner, di sesso, di maternità, è sottoposta a pressioni, condizioni, giudizi, conseguenze. Si discute quindi sull’adeguatezza, la prudenza, l’effetto che avrà sugli uomini, l’impatto sulla società, e mille altre cose.
Ma conta pure la contraddittorietà delle istanze: essere attraenti e desiderabili è quasi un dovere, al quale ci richiamano ammiccanti spot pubblicitari e tutorial sui tacchi alti. Ma anche la compostezza, il pudore, la riservatezza lo sono, soprattutto per certe professioni o quando si verificano atti di violenza, in cui paradossalmente essere sexi e desiderabili diventa una colpa, una responsabilità.

A partire dagli anni ’90, è iniziato un profondo scadimento dell’offerta culturale, soprattutto di massa, attraverso trasmissioni televisive di grandi ascolti sempre più becere e inconsistenti. A qualunque ora, sia sulle reti pubbliche che private si consolidano gli stereotipi, si propongono sempre gli stessi disvalori: i danni neuronali inferti dalle opere degli autori e delle conduttrici, dalla D’Urso alla De Filippi, dall’intrattenimento mattiniero alla cronaca perversa del pomeriggio, dall’uso costante di corpi femminili artificiali esibiti in qualunque contesto, sono difficilmente quantificabili, e interessano ben più di una generazione.

Come è scandaloso il linguaggio discriminatorio, insultante, di certa stampa e sui social, divenuto abituale .Questo modo di pensare appartiene sia agli uomini che alle donne, ha inquinato il paese intero.
Decidere di cambiarlo deve essere responsabilità e impegno comune,con determinazione ed energia, con tutti i mezzi necessari: produzione di prodotti culturali, analisi del linguaggio, innovazione legislativa che tuteli diritti e punisca gli abusi, e con la condanna netta di ogni forma di aggressione alle donne. E naturalmente, il cambiamento deve cominciare dagli adulti uomini e donne, che hanno anche il compito educativo dei figli; compito che viene affidato alle madri, che tra le altre responsabilità, vengono pure riconosciute colpevoli di aver allevato figli maschilisti.

Si tratta di una rivoluzione che, naturalmente, non può essere un pranzo di gala e nemmeno una passeggiata rilassante. Però , se vogliamo davvero distinguerci tra le specie animali, dovremmo pur cominciare…

Loretta Deluca

Insegnante Torino. Collaboratrice redazionale di Lavoro e Salute

Pubblicato nel nuemro di dicembre del mensile

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