NELLE FAVOLE CI SONO SEMPRE TROPPI DRAGHI

In questi giorni, si è fatto un gran parlare della lettera aperta di Mario Draghi, ex-presidente della BCE, pubblicata dal Financial Times il 25 marzo.

Una presa di posizione forte, autorevole, per molti versi spiazzante.
Un’analisi solo superficialmente di respiro europeo ma che in realtà lascia l’Europa ai margini e, soprattutto, non ha significative possibilità di incidere a quel livello.
Un intervento che, invece, è sembrato a molti un mettere i piedi, pesantemente, nelle vicende politiche italiane. Una sorta di manifesto programmatico attraverso il quale accreditarsi come futuro premier di un governo di rinascita nazionale.

Per questo, al di là delle dichiarazioni di rito tutte orientate al plauso, le reazioni della politica sono state in realtà piuttosto variegate. Più convinte (se non entusiaste) da parte delle forze del centro-destra e di quella fetta del centro-sinistra che hanno già individuato Draghi come possibile successore di Conte; più prudenti (e talvolta imbarazzate) quelle del fronte governativo (sarebbe con ogni probabilità successo il contrario se i primi fossero stati al potere ed i secondi all’opposizione…).
Lodi e qualche perplessità convivono anche nella stampa economica, al solito bollettino del pensiero unico padronale. Spesso le sintesi che vengono fatte delle parole di Draghi tendono ad evidenziarne soprattutto i temi “più compatibili” (quanto meno nell’attuale momento di emergenza); persino le traduzioni dall’inglese talvolta differiscono in maniera non innocente.

Al di là di tali miserie, è comunque sempre stupefacente leggere i giudizi di tanti commentatori politici ed economici mainstream (in particolare di quel malconcio campo liberal-democratico nelle sue varianti di centrosinistra e centrodestra) pronti oggi ad arruolarsi dietro Draghi, associandosi senza batter ciglio ad alcune sue affermazioni che capovolgono i dogma che hanno sempre ripetuto come un mantra.

I problemi peraltro non mancano nemmeno tra coloro i quali (a sinistra ma non solo) si vogliono smarcare con forza dall’ex presidente della BCE.

Per molti, il tema principale sembra essere quello delle contraddizioni.
Quelle tra il Draghi “di oggi” e quello che partecipò (in qualità di Direttore Generale del Ministero del Tesoro) alla ormai mitica riunione sul Britannia del ’92 che decise la stagione delle privatizzazioni (e delle svendite…) nel nostro paese; oppure quello che ha diretto la Banca d’Italia nel secondo periodo delle grandi fusioni bancarie e le cui “considerazioni finali” dettavano l’agenda del pensiero neoliberista.
La sua ricchissima biografia consente poi etichettature varie: da “servo dello stato italiano” (borghese, si sarebbe aggiunto in tempi sospetti) ad apologeta dell’Euro del quale ha diretto con autorevolezza il santuario. Sino a quella, opposta, di astuto affossatore dell’Europa stessa su mandato americano (del resto è stato ai vertici di Goldman Sachs per tre anni e quindi…).

Personalmente, preferisco ritenerlo semplicemente un intelligente e preparato avversario di classe che capisce bene (oggi come nel 2012) quello che è impossibile negare e quello che bisogna fare per provare a salvare la baracca.
Non vedo particolari contraddizioni, quindi, tra il Draghi del “whatever it takes” e quello attuale. Certo bisogna capire che una cosa è parlare (ed agire) dal vertice dell’Eurosistema ed un’altra farlo da “disoccupato” eccellente alla ricerca di un nuovo prestigioso giro di pista.
E, comunque, se proprio devo scegliere, preferisco il primo.

Da Presidente della BCE, infatti, compie una forzatura vera (considerando i limiti ed i meccanismi sui quali si basa la costituzione materiale dell’unione europea e dell’eurozona) che va quanto meno nella direzione giusta (e dico questo pur conoscendo bene i percorsi guidati ed i beneficiari in prima istanza del “quantitative easing”).
Con le dichiarazioni dell’altro giorno ci fa una bella lezioncina, tocca i tasti giusti nel panico del post coronavirus e, come dicevo, si autocandida al ruolo di nuovo Monti (o forse persino altro, visto che il presidenzialismo è decisamente più nelle sue corde).

In un caso e nell’altro, comunque, il campo ideale in cui si muove e gli interessi materiali che si propone di difendere sono sempre gli stessi e non sono certo i “nostri”.

Indubbiamente, alcuni passaggi del suo intervento colpiscono davvero per come ribaltano anni di luoghi comuni liberisti ed il contesto della straordinarietà degli eventi non elimina il fatto che certi meccanismi economici vengano disvelati per come sono sempre stati.

Tuttavia, non ci sono né autocritiche, né riconoscimenti. E invece c’è, naturalmente, una forte attenzione ad incrinare il meno possibile di quell’impianto ideologico che si spera di poter riutilizzare. Per dirne una tra le tante: viene chiaramente ribadita la centralità del sistema bancario ma questo non vuol dire che se ci fossero forti attori pubblici nel settore sarebbe tutto un po’ più semplice?
Si parla più che altro di interventi straordinari e coordinati degli stati ma non si mette in alcun modo in discussione la costruzione europea. Come si finanzia il debito? Con quale dei meccanismi esistenti? Con quali di nuovi? In soldoni (espressione quanto mai calzante): Mes, coronabond o moneta (nazionale) fresca di stampa? E quale sistema fiscale è più adatto alla fase di ricostruzione “postbellica”: patrimoniale o flat tax?
Insomma, chi pagherà il conto?
Rifondazione Comunista sintetizza il concetto: “Draghi dice come spendere i soldi senza dire dove prenderli”. Gli economisti della sinistra di classe cominciano a puntualizzare i diversi effetti sui diversi gruppi sociali non solo dei differenti meccanismi di finanziamento del debito ma anche del modo con il quale verranno affrontati gli effetti che la crisi inevitabilmente avrà sulla struttura dell’offerta, sui costi di produzione e di distribuzione, sulla riorganizzazione dei mercati.

Calma, un passo alla volta, mi sa che Draghi avrà presto qualcosa da aggiungere….


Claudio Bettarello

Rifondazione Comunista Torino

Torino, 30 marzo 2020

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