Non siamo Expat: il capitale umano e la nuova emigrazione italiana

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Secondo le teorie del capitale umano, il mercato è l’unica istituzione in grado di giudicare il valore del talento, i principali criteri di valutazione sono due: l’importanza per il sistema economico-sociale nazionale e, per la legge della scarsità su cui si basa l’economia neoclassica, la diffusione delle competenze e delle capacità acquisite. Il capitale umano, dunque, non ha valore in sé ma lo acquisisce nella unicità, o comunque eccezionalità, dei propri attributi e in secondo luogo dalla possibilità di creare valore aggiunto per l’economia di un paese. Un paradigma che fa emergere lo stato come l’altro soggetto. Gli studiosi afferenti a questo approccio, infatti, sostengono che uno dei fattori decisivi per la crescita di un sistema economico sono le conoscenze applicate nelle varie fasi della produzione, dalla fabbricazione al marketing. I governi dei paesi più ricchi del mondo hanno adottato questa visione applicando due tipi di politiche: hanno favorito gli investimenti nell’università e nella ricerca pubblica e privata e in secondo luogo hanno attratto personale altamente qualificato dagli altri paesi.

Nel campo della sociologia delle migrazioni questo approccio ha avuto molto seguito, sebbene sia stato ampiamente criticato per il profilo di nazionalismo metodologico a cui si ispira. Le categorie di analisi principali dei sociologi sono state il brain drain e il brain gain ossia la valutazione dei guadagni e delle perdite di personale altamente qualificato da parte di uno stato. I critici, invece, hanno adottando un diverso modello denominato brain circulation: si notava che gli spostamenti non seguivano più una direttrice a senso unico ma spesso l’esperienza all’estero era utile per apprendere conoscenze da applicare nel paese di origine o altrove. Inoltre nella crisi del welfare e della spesa pubblica i maggiori soggetti interessati nella competizione per il capitale umano non erano più gli stati ma le aziende, in particolare le multinazionali impegnate nei settori strategici dell’innovazione e della ricerca.

Il dibattito pubblico italiano sulla fuga dei cervelli, racconta Roberto Ciccarelli in Capitale disumano. La vita in alternanza scuola lavoro (Manifestolibri, 2018), ha una sua peculiarità: da una parte vengono completamente tralasciati gli aspetti che riguardano la domanda, cioè la flebile richiesta di personale qualificato delle aziende nazionali, dall’altra il termine non è utilizzato per indicare un piccolo nucleo di persone impegnato in attività di ricerca ma è diventato un generico sostitutivo della parola migrante. Per tali ragioni sono pochi coloro che parlano di nuova migrazioni italiana ma ben più facilmente si possono trovare articoli sulla fuga dei cervelli. Un’interpretazione che al momento non ha riscontri empirici: il più recente rapporto dell’Istat quantifica nel 30% la quota di laureati emigrati nell’ultimo anno di rilevazione, dunque si tratta di una minoranza, seppur cospicua, della popolazione che lascia l’Italia. Tuttavia i dati dell’Istat non è molto attendibile, poiché sotto-stimano enormemente il numero dei trasferimenti, per cui risulta molto difficile misurare con certezza quanti ricercatori accademici e lavoratori qualificati si trasferiscono all’estero.

I peggiori effetti del dibattito italiano sulla fuga dei cervelli si producono nel campo delle politiche pubbliche e negli esiti di stratificazione razziale per mezzo del capitale umano. Gli ultimi governi per contrastare il fenomeno hanno attuato politiche di sgravi fiscali per coloro che rientrano in Italia e nel settore universitario hanno previsto il finanziamento eccezionale di cattedre per professori italiani all’estero. Di fatto una questione che riguarda un numero enorme di persone è stato trasformato in un problema di pochi super-docenti da far tornare in patria, tralasciando completamente questioni più generali che hanno a che fare con: la diffusa precarietà, l’assenza di misure di welfare universali, i tagli alla spesa pubblica, infine una struttura economica di piccole imprese posizionate sui segmenti bassi della produzione. Probabilmente, però, gli esiti peggiori si misurano nel campo della stratificazione razziale operata dai mezzi di informazioni e dai partiti di destra (ma non solo). Il capitale umano viene utilizzato strumentalmente per differenziare i migranti italiani da quelli stranieri. Si afferma una logica per cui i nostri sono formati e pronti per inserirsi nel tessuto economico e sociale di un altro paese, tanto che non vengono definiti nemmeno migranti ma si preferisce chiamarli expat o mobili. Gli altri sono spesso privi di istruzione, pericolosi delinquenti e nei migliori casi lavoratori che spingono i salari verso il basso. Il capitale umano nell’ambito del governo delle migrazioni diviene un elemento di stratificazione razziale, poiché giustifica sotto il profilo del merito e dell’istruzione le gerarchie che seguono la linea del colore.

Il grande rimosso della narrazione sulla fuga dei cervelli è la nuova mobilità del lavoro. La ripresa delle migrazioni italiane coincide sia con l’aumento delle migrazioni interne all’Europa sia con la crisi dei rifugiati e la successiva chiusura delle frontiere. Molte ricerche hanno mostrato come sia in rapida crescita il numero di persone che si muove tra uno stato e l’altro alla ricerca di lavoro, un fenomeno che riguarda il personale altamente qualificato ma anche lavoratori non formati. L’emergere dei sovranismi si iscrive anche nella logica di governo di questo tipo di movimenti, poiché il ritorno dei confini interni all’Unione Europea favorisce la differenziazione di status tra cittadini provenienti da diversi paesi. Inoltre l’affermarsi della mobilità del lavoro pone un’altra questione assente nel dibattito nazionale, se la carriera lavorativa si frantuma tra paesi diversi dell’Europa possono i diritti rimanere ancorati al livello nazionale?

Antonio Sanguinetti

11/2/2019 https://operavivamagazine.org

Intervento in occasione della presentazione del libro Il Capitale Disumano. La vita in alternanza scuola lavoro, di Roberto Ciccarelli, al Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Roma Tre.

 

 

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