Nuovo sfruttamento e tanti soldi per le aziende nel tormentone dell’Industria 4.0

Partecipanti alla manifestazione della Fiom, questo pomeriggio 16 ottobre 2010 in piazza San Giovanni a Roma. E' il rosso a dominare piazza San
Giovanni in Laterano a Roma dove stanno manifestando gli operai della Fiom. Tante le bandiere della sigla sindacale dei metalmeccanici, Cgil e Rifondazione comunista. Le uniche diverse sono quelle di colore bianco dell'Italia dei valori. La rete studentesca sta mostrando uno striscione con su scritto ''Gelmini dimettiti ricostruiamoci il futuro'' mentre alcune tute blu espongono cartelli con slogan: ''l'indifferenza uccide'', ''gli operai producono per tutti, rispettateli'', ''uniti contro il capitale''. Non mancano critiche al segretario della Cgil; su un cartello si legge ''Epifani con Cisl e Uil lascia stare. C'e' bisogno di lottare''. 
ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Da mesi sentiamo parlare di Industria 4.0, le fonti sono Governative o Confindustriali e, seppure tardivamente, anche nel variegato mondo sindacale e politico se ne inizia a parlare con approcci non sempre convincenti sospesi tra il dogmatismo che riproduce qualche passaggio di Marx e le ennesime proposte finalizzate a compiacere la mai sopita speranza di Governo di certa sinistra (la tecnologia avanza e noi vorremmo mettere in agenda la pur giusta riduzione dell’orario di lavoro)

Intanto, l’avvento di questa ennesima rivoluzione industriale ha già una idea delle conseguenze sociali, tanto è vero che danno per scontata la perdita di 5 milioni di posti (la fonte è il World Economic Forum),

Dal sito ministeriale (clicca qui per il collegamento) leggiamo : il Piano nazionale Industria 4.0 è l’occasione per tutte le aziende che vogliono cogliere le opportunità legate alla quarta rivoluzione industriale. Il Piano prevede tre principali linee guida:
operare in una logica di neutralità tecnologica, intervenire con azioni orizzontali e non verticali o settoriali agire su fattori abilitanti.

Sono trascorsi decenni da quando, con il governo di centrosinistra degli anni sessanta, furono avviati investimenti importanti in ambito tecnologico e produttivo. La logica di allora era quella di interventi statali e di investimenti in aziende pubbliche, ridurre l’orario di lavoro, un acceso protagonismo dello stato nell’indirizzo dell’economia, insomma scenari antitetici a quelli odierni.

L’applicazione della nuova tecnologia dovrebbe avere un particolare impatto negativo nella logistica, nelle tante aziende collegate alla casa madre tra appalti e subappalti, tagli occupazionali in fabbrica e tagli nei magazzini.

Possiamo fermare la ennesima rivoluzione industriale, ammesso e non concesso che tale sia, in nome della salvaguardia dei posti di lavoro che andranno inesorabilmente perduti? Da dove nasce Industria 4.0?

Partiamo da altre preliminari considerazioni consci che la bibliografia oggi disponibile è ancora carente e non ci permette di costruire una analisi complessiva.

Da anni si regalano soldi alle imprese private, la stessa università diventa sovente l’ambito dove si fa ricerca con i soldi dei cittadini cedendo poi ai soggetti privati e alle fondazioni il compito di trarre profitti da questi percorsi. Non esiste indirizzo e controllo da parte dello Stato, anzi nell’Europa di Maastricht si agisce per obiettivi opposti piegando lo Stato alle logiche del profitto di impresa.

Da qui, dal ruolo dello Stato, bisogna partire se vogliamo invertire la tendenza. Il capitalismo italiano è ormai strutturato per lo piu’ sull’abbattimento del costo del lavoro e sulle delocalizzazioni, esistono in paesi come Romania, Serbia e Albania distretti industriali del made in Italy, molti altri, soprattutto nel settore tessile, si trovano nel sud est asiatico. Il concreto rischio che corriamo è spendere soldi dei cittadini per innovare imprese che poi delocalizzano altrove la produzione optando magari i paesi cosiddetti paradisi fiscali dove stabilire la sede stessa delle imprese e cosi’ sottrarsi al fisco.

Nel cap. XIII de Il Capitale, Marx ribadisce che l’introduzione del macchinismo è servita esclusivamente ad aumentare il plusvalore del capitale (e non tanto -come voleva l’economia politica borghese- ad alleviare le fatiche degli operai). Non bisogna prendere Marx come la Bibbia o citarne alcuni passaggi per giustificare scelte politiche fallimentari come fatto dalla classe politica e dagli intellettuali di sinistra che hanno sostenuto i governi con il Pd che hanno distrutto gran parte delle tutele e dei diritti conquistati in decenni di lotta .Marx ha spiegato il motivo culturale del passaggio dalla manifattura alla grande industria, cioè delle cause di fondo che portarono prima alla rivoluzione tecnico-scientifica seguita poi dalla rivoluzione industriale vera e propria.

La manifattura esprimeva certamente un rapporto mutato tra uomo e uomo, ma l’industrializzazione esprime anche un rapporto profondamente mutato tra uomo e natura. La grande industria supero’ i limiti naturali che in qualche modo ostacolavano lo sviluppo su grande scala della produzione manifatturiera. Il capitale trionfo’ non solo sul lavoro ma anche sull’ambiente.

Pensare che la tecnologia sia neutra è sicuramente un grave errore, anzi un pregiudizio ideologico per favorire i nuovi processi di modernizzazione industriale dentro i quali ritroviamo il lavoro gratuito e tutte le forme di sfruttamento intensivo.

Sui banchi di scuola e sui libri di testo nelle superiori si trasmette un pensiero unico e massificato nel quale il capitalismo e la sua cultura restano il solo orizzonte possibile dentro cui muoversi, le scelte del capitalismo, al pari di quelle degli stati colonialisri prima e imperialisti poi, non sono mai analizzate con il beneficio del dubbio.

L’innovazione poi prevede anche un fiume di finanziamenti pubblici alla impresa privata sul quale essere quanto mai guardinghi è necessario alla luce della tendenza speculatrice connessa alla delocalizzazione industriale. A chi andranno questi soldi, a quale scopo, quanta occupazione creeranno? Uno Stato incapace di dare indirizzi e sviluppare controlli è lo Stato debole assoggettato alla impresa di cui i fautori del neoliberalismo hanno parlato per anni

La tecnologia innovativa puo’ all’occorrenza diventare un fattore di controllo, basti ricordare che il gps è utilizzato anche per controllare la forza lavoro e organizzare turni e produzione eliminando i tempi morti che poi sono quei tempi che consentono al lavoratore di recuperare energie psicofisiche.

L’automazione delle linee industriali è andata di pari passo con la costruzione di un nuovo sistema di relazioni sindacali e industriali improntato alla espulsione dei soggetti sindacali piu’ conflittuali e procede con il testo unico sulla rappresentanza sindacale del gennaio 2014 (che vorrebbero estendere al privato) e con la negazione del diritto di sciopero.

Per queste ragioni ,pensiamo che una riflessione su Industria 4.0 non possa eludere le questioni materiali in cui si manifesta il conflitto e il controllo sociale, la espropriazione di quote crescenti di plusvalore, l’annullamento di ogni distinzione tra tempi di vita e di lavoro, la cancellazione di tanti posti di lavoro nei settori dove il conflitto contro il capitale è ancora forte (pensiamo a quache fabbrica, ai trasporti e alla logistica). Iniziamo a parlarne e a studiare, non abbiamo molto tempo prima di essere sommersi dalle logiche e dai profitti del capitaleDa mesi sentiamo parlare di Industria 4.0, le fonti sono Governative o Confindustriali e, seppure tardivamente, anche nel variegato mondo sindacale e politico se ne inizia a parlare con approcci non sempre convincenti sospesi tra il dogmatismo che riproduce qualche passaggio di Marx e le ennesime proposte finalizzate a compiacere la mai sopita speranza di Governo di certa sinistra (la tecnologia avanza e noi vorremmo mettere in agenda la pur giusta riduzione dell’orario di lavoro)

Intanto, l’avvento di questa ennesima rivoluzione industriale ha già una idea delle conseguenze sociali, tanto è vero che danno per scontata la perdita di 5 milioni di posti (la fonte è il World Economic Forum),

Dal sito ministeriale (http://www.sviluppoeconomico.gov.it/index.php/it/industria40) leggiamo : il Piano nazionale Industria 4.0 è l’occasione per tutte le aziende che vogliono cogliere le opportunità legate alla quarta rivoluzione industriale. Il Piano prevede tre principali linee guida: operare in una logica di neutralità tecnologica intervenire con azioni orizzontali e non verticali o settoriali agire su fattori abilitanti

Sono trascorsi decenni da quando, con il governo di centrosinistra degli anni sessanta, furono avviati investimenti importanti in ambito tecnologico e produttivo. La logica di allora era quella di interventi statali e di investimenti in aziende pubbliche, ridurre l’orario di lavoro, un acceso protagonismo dello stato nell’indirizzo dell’economia, insomma scenari antitetici a quelli odierni.

L’applicazione della nuova tecnologia dovrebbe avere un particolare impatto negativo nella logistica, nelle tante aziende collegate alla casa madre tra appalti e subappalti, tagli occupazionali in fabbrica e tagli nei magazzini.

Possiamo fermare la ennesima rivoluzione industriale, ammesso e non concesso che tale sia, in nome della salvaguardia dei posti di lavoro che andranno inesorabilmente perduti? Da dove nasce Industria 4.0?

Partiamo da altre preliminari considerazioni consci che la bibliografia oggi disponibile è ancora carente e non ci permette di costruire una analisi complessiva.

Da anni si regalano soldi alle imprese private, la stessa università diventa sovente l’ambito dove si fa ricerca con i soldi dei cittadini cedendo poi ai soggetti privati e alle fondazioni il compito di trarre profitti da questi percorsi. Non esiste indirizzo e controllo da parte dello Stato, anzi nell’Europa di Maastricht si agisce per obiettivi opposti piegando lo Stato alle logiche del profitto di impresa.

Da qui, dal ruolo dello Stato, bisogna partire se vogliamo invertire la tendenza. Il capitalismo italiano è ormai strutturato per lo piu’ sull’abbattimento del costo del lavoro e sulle delocalizzazioni, esistono in paesi come Romania, Serbia e Albania distretti industriali del made in Italy, molti altri, soprattutto nel settore tessile, si trovano nel sud est asiatico. Il concreto rischio che corriamo è spendere soldi dei cittadini per innovare imprese che poi delocalizzano altrove la produzione optando magari i paesi cosiddetti paradisi fiscali dove stabilire la sede stessa delle imprese e cosi’ sottrarsi al fisco.
Nel cap. XIII de Il Capitale, Marx ribadisce che l’introduzione del macchinismo è servita esclusivamente ad aumentare il plusvalore del capitale (e non tanto -come voleva l’economia politica borghese- ad alleviare le fatiche degli operai). Non bisogna prendere Marx come la Bibbia o citarne alcuni passaggi per giustificare scelte politiche fallimentari come fatto dalla classe politica e dagli intellettuali di sinistra che hanno sostenuto i governi con il Pd che hanno distrutto gran parte delle tutele e dei diritti conquistati in decenni di lotta .Marx ha spiegato il motivo culturale del passaggio dalla manifattura alla grande industria, cioè delle cause di fondo che portarono prima alla rivoluzione tecnico-scientifica seguita poi dalla rivoluzione industriale vera e propria.

La manifattura esprimeva certamente un rapporto mutato tra uomo e uomo, ma l’industrializzazione esprime anche un rapporto profondamente mutato tra uomo e natura. La grande industria supero’ i limiti naturali che in qualche modo ostacolavano lo sviluppo su grande scala della produzione manifatturiera. Il capitale trionfo’ non solo sul lavoro ma anche sull’ambiente.

Pensare che la tecnologia sia neutra è sicuramente un grave errore, anzi un pregiudizio ideologico per favorire i nuovi processi di modernizzazione industriale dentro i quali ritroviamo il lavoro gratuito e tutte le forme di sfruttamento intensivo.

Sui banchi di scuola e sui libri di testo nelle superiori si trasmette un pensiero unico e massificato nel quale il capitalismo e la sua cultura restano il solo orizzonte possibile dentro cui muoversi, le scelte del capitalismo, al pari di quelle degli stati colonialisri prima e imperialisti poi, non sono mai analizzate con il beneficio del dubbio.

L’innovazione poi prevede anche un fiume di finanziamenti pubblici alla impresa privata sul quale essere quanto mai guardinghi è necessario alla luce della tendenza speculatrice connessa alla delocalizzazione industriale. A chi andranno questi soldi, a quale scopo, quanta occupazione creeranno? Uno Stato incapace di dare indirizzi e sviluppare controlli è lo Stato debole assoggettato alla impresa di cui i fautori del neoliberalismo hanno parlato per anni

La tecnologia innovativa puo’ all’occorrenza diventare un fattore di controllo, basti ricordare che il gps è utilizzato anche per controllare la forza lavoro e organizzare turni e produzione eliminando i tempi morti che poi sono quei tempi che consentono al lavoratore di recuperare energie psicofisiche.

L’automazione delle linee industriali è andata di pari passo con la costruzione di un nuovo sistema di relazioni sindacali e industriali improntato alla espulsione dei soggetti sindacali piu’ conflittuali e procede con il testo unico sulla rappresentanza sindacale del gennaio 2014 (che vorrebbero estendere al privato) e con la negazione del diritto di sciopero.

Per queste ragioni ,pensiamo che una riflessione su Industria 4.0 non possa eludere le questioni materiali in cui si manifesta il conflitto e il controllo sociale, la espropriazione di quote crescenti di plusvalore, l’annullamento di ogni distinzione tra tempi di vita e di lavoro, la cancellazione di tanti posti di lavoro nei settori dove il conflitto contro il capitale è ancora forte (pensiamo a quache fabbrica, ai trasporti e alla logistica). Iniziamo a parlarne e a studiare, non abbiamo molto tempo prima di essere sommersi dalle logiche e dai profitti del capitaleDa mesi sentiamo parlare di Industria 4.0, le fonti sono Governative o Confindustriali e, seppure tardivamente, anche nel variegato mondo sindacale e politico se ne inizia a parlare con approcci non sempre convincenti sospesi tra il dogmatismo che riproduce qualche passaggio di Marx e le ennesime proposte finalizzate a compiacere la mai sopita speranza di Governo di certa sinistra (la tecnologia avanza e noi vorremmo mettere in agenda la pur giusta riduzione dell’orario di lavoro)

Intanto, l’avvento di questa ennesima rivoluzione industriale ha già una idea delle conseguenze sociali, tanto è vero che danno per scontata la perdita di 5 milioni di posti (la fonte è il World Economic Forum),

Dal sito ministeriale (http://www.sviluppoeconomico.gov.it/index.php/it/industria40) leggiamo : il Piano nazionale Industria 4.0 è l’occasione per tutte le aziende che vogliono cogliere le opportunità legate alla quarta rivoluzione industriale. Il Piano prevede tre principali linee guida:
operare in una logica di neutralità tecnologica
intervenire con azioni orizzontali e non verticali o settoriali
agire su fattori abilitanti

Sono trascorsi decenni da quando, con il governo di centrosinistra degli anni sessanta, furono avviati investimenti importanti in ambito tecnologico e produttivo. La logica di allora era quella di interventi statali e di investimenti in aziende pubbliche, ridurre l’orario di lavoro, un acceso protagonismo dello stato nell’indirizzo dell’economia, insomma scenari antitetici a quelli odierni.

L’applicazione della nuova tecnologia dovrebbe avere un particolare impatto negativo nella logistica, nelle tante aziende collegate alla casa madre tra appalti e subappalti, tagli occupazionali in fabbrica e tagli nei magazzini.

Possiamo fermare la ennesima rivoluzione industriale, ammesso e non concesso che tale sia, in nome della salvaguardia dei posti di lavoro che andranno inesorabilmente perduti? Da dove nasce Industria 4.0?

Partiamo da altre preliminari considerazioni consci che la bibliografia oggi disponibile è ancora carente e non ci permette di costruire una analisi complessiva.

Da anni si regalano soldi alle imprese private, la stessa università diventa sovente l’ambito dove si fa ricerca con i soldi dei cittadini cedendo poi ai soggetti privati e alle fondazioni il compito di trarre profitti da questi percorsi. Non esiste indirizzo e controllo da parte dello Stato, anzi nell’Europa di Maastricht si agisce per obiettivi opposti piegando lo Stato alle logiche del profitto di impresa.

Da qui, dal ruolo dello Stato, bisogna partire se vogliamo invertire la tendenza. Il capitalismo italiano è ormai strutturato per lo piu’ sull’abbattimento del costo del lavoro e sulle delocalizzazioni, esistono in paesi come Romania, Serbia e Albania distretti industriali del made in Italy, molti altri, soprattutto nel settore tessile, si trovano nel sud est asiatico. Il concreto rischio che corriamo è spendere soldi dei cittadini per innovare imprese che poi delocalizzano altrove la produzione optando magari i paesi cosiddetti paradisi fiscali dove stabilire la sede stessa delle imprese e cosi’ sottrarsi al fisco.
Nel cap. XIII de Il Capitale, Marx ribadisce che l’introduzione del macchinismo è servita esclusivamente ad aumentare il plusvalore del capitale (e non tanto -come voleva l’economia politica borghese- ad alleviare le fatiche degli operai). Non bisogna prendere Marx come la Bibbia o citarne alcuni passaggi per giustificare scelte politiche fallimentari come fatto dalla classe politica e dagli intellettuali di sinistra che hanno sostenuto i governi con il Pd che hanno distrutto gran parte delle tutele e dei diritti conquistati in decenni di lotta .Marx ha spiegato il motivo culturale del passaggio dalla manifattura alla grande industria, cioè delle cause di fondo che portarono prima alla rivoluzione tecnico-scientifica seguita poi dalla rivoluzione industriale vera e propria.

La manifattura esprimeva certamente un rapporto mutato tra uomo e uomo, ma l’industrializzazione esprime anche un rapporto profondamente mutato tra uomo e natura. La grande industria supero’ i limiti naturali che in qualche modo ostacolavano lo sviluppo su grande scala della produzione manifatturiera. Il capitale trionfo’ non solo sul lavoro ma anche sull’ambiente.

Pensare che la tecnologia sia neutra è sicuramente un grave errore, anzi un pregiudizio ideologico per favorire i nuovi processi di modernizzazione industriale dentro i quali ritroviamo il lavoro gratuito e tutte le forme di sfruttamento intensivo.

Sui banchi di scuola e sui libri di testo nelle superiori si trasmette un pensiero unico e massificato nel quale il capitalismo e la sua cultura restano il solo orizzonte possibile dentro cui muoversi, le scelte del capitalismo, al pari di quelle degli stati colonialisri prima e imperialisti poi, non sono mai analizzate con il beneficio del dubbio.

L’innovazione poi prevede anche un fiume di finanziamenti pubblici alla impresa privata sul quale essere quanto mai guardinghi è necessario alla luce della tendenza speculatrice connessa alla delocalizzazione industriale. A chi andranno questi soldi, a quale scopo, quanta occupazione creeranno? Uno Stato incapace di dare indirizzi e sviluppare controlli è lo Stato debole assoggettato alla impresa di cui i fautori del neoliberalismo hanno parlato per anni

La tecnologia innovativa puo’ all’occorrenza diventare un fattore di controllo, basti ricordare che il gps è utilizzato anche per controllare la forza lavoro e organizzare turni e produzione eliminando i tempi morti che poi sono quei tempi che consentono al lavoratore di recuperare energie psicofisiche.

L’automazione delle linee industriali è andata di pari passo con la costruzione di un nuovo sistema di relazioni sindacali e industriali improntato alla espulsione dei soggetti sindacali piu’ conflittuali e procede con il testo unico sulla rappresentanza sindacale del gennaio 2014 (che vorrebbero estendere al privato) e con la negazione del diritto di sciopero.

Per queste ragioni ,pensiamo che una riflessione su Industria 4.0 non possa eludere le questioni materiali in cui si manifesta il conflitto e il controllo sociale, la espropriazione di quote crescenti di plusvalore, l’annullamento di ogni distinzione tra tempi di vita e di lavoro, la cancellazione di tanti posti di lavoro nei settori dove il conflitto contro il capitale è ancora forte (pensiamo a quache fabbrica, ai trasporti e alla logistica). Iniziamo a parlarne e a studiare, non abbiamo molto tempo prima di essere sommersi dalle logiche e dai profitti del capitale.

Federico Giusti

2/7/2017 www.controlacrisi.org

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