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    Blog, Cronache Sociali — Agosto 30, 2015 11:08 am

    Ci è capitato, ancora, di conoscere le storie di chi utilizzava la droga non soltanto per stordirsi dopo, ma anche per “resistere” durante il lavoro. Per non cedere ai turni massacranti, ai ritmi frenetici, alla fatica, al sonno. In questo agosto, dopo alcuni fatti di cronaca, televisioni e giornali non hanno fatto che parlare di droga. Siamo convinti che tanta attenzione non sia data dal fatto che ci troviamo nel pieno di un’emergenza ma che, semplicemente, come spesso accade in estate, in assenza di notizie i nostri media tendano ad ingigantire i fatti pur di sbattere un mostro qualsiasi in prima pagina. Così fenomeni che sono endemici vengono fatti apparire come improvvise emergenze. Consapevoli di questo, vogliamo comunque approfittare dell’occasione per socializzare alcune brevi riflessioni che abbiamo sviluppato nel tempo, a prescindere dai media, prima che la questione smetta nuovamente di esistere nel dibattito pubblico.

    Oltre il Cocoricò: un ragionamento su droga e società.

    Pubblicato da franco.cilenti

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    Prima di tutto, chiariamoci su un punto: le droghe sono sempre esistite e l’uomo le ha sempre utilizzate.  Non le hanno inventate “i giovani d’oggi” o la clientela di qualche locale trendy. Droghe diverse a seconda della posizione geografica e delle culture, alcune utilizzate quotidianamente, altre legate a rituali. È stato così per millenni e pur essendo cambiate nel tempo le sostanze e le circostanze dell’utilizzo, l’assunzione di droga ha mantenuto pressoché inalterata la sua funzione sociale.

    E’ l’avvento del capitalismo a cambiare completamente le carte in tavola. La droga inizia ad esser considerata una merce come tutte le altre, una potenziale fonte di profitto per i padroni. Una merce “particolare” visto che spesso crea dipendenza, ma proprio per questo più redditizia, perchè riesce a garantire una domanda sempre alta e in crescita! Questo vale soprattutto  quando è soggetta a limitazioni o proibizioni, per cui il  fortunato venditore crea, ben presto, veri e propri monopoli. In un linguaggio un pochino più tecnico, si direbbe che chi vende finisce col costituire dei cartelli che impongono di fatto il prezzo al mercato.  

    Ci spieghiamo meglio. Chiunque si aggiri per le piazze di spaccio della propria città troverà prezzi sostanzialmente identici dappertutto. Questo perché chi gestisce il traffico si accorda sui prezzi da applicare che sono sempre fissati al fine di ottenere il massimo profitto. Molti conflitti criminali, non lo scopriamo certamente noi, iniziano proprio quando qualcuno decide “autonomamente” di abbassare i prezzi e rompere il cartello. Ecco perché prima abbiamo parlato di una merce particolarmente redditizia:  in primo luogo per la capacità di assicurare condizioni di mercato ideali garantendo grossi guadagni; e poi perché la droga si è dimostrata essere un formidabile strumento di controllo sociale, pervasivo, efficace ed estremamente più silenzioso di altri.

     Padroni e i padroncini di ogni dove se ne accorsero subito, fin dagli albori. I primi quartieri operai della storia iniziarono ad essere letteralmente inondati di alcol. Gli operai, sfiniti dal  lavoro in fabbrica, spendevano buona parte di quel poco che guadagnavano in alcolici, stordendosi per resistere a condizioni di lavoro durissime. Solo così diventava accettabile la nuova condizione di salariati inoffensivi e docili. La borghesia si assicurò in questo modo, contemporaneamente, ricchezza e schiavi mansueti, totalmente incapaci di ribellarsi.

    Oggi, a distanza di due secoli, è facile ritrovare lo stesso utilizzo dell’alcol come deterrente per prevenire  qualsiasi forma di resistenza da parte dei lavoratori. Prendiamo alcuni piccoli esempi che abbiamo incontrato nel percorso di inchiesta sul mondo del lavoro che ormai portiamo avanti da anni.

    Qualche tempo fa, un operaio friulano ci raccontava che ancora oggi nelle zone del nord-est, quello che fino a qualche anno era portato come modello produttivo vincente, è uso comune da parte del padrone della fabbrichetta offrire da bere a fine giornata. Una sorta di benefit non contrattualizzato.  Dopo 10 ore al tornio, prima di tornare a casa, il magnanimo padrone porta gli operai a bere al bar dove gli offre tutto l’alcol che vogliono, mica un bicchierino! Le serate, ci spiegava, finiscono con gli operai, ormai sbronzi, che se ne tornano a casa con la forza che basta solo a sprofondare nel sonno.  Il giorno dopo si ricomincia, uguale, e quello dopo ancora. Chi ci ha raccontato questi episodi ci ha confessato di sentirsi, dopo qualche anno di quella routine, completamente annullato come essere umano, entrato in un circolo vizioso che ti rende simile a un macchinario completamente in balia del padrone.

    Ci è capitato, ancora, di conoscere le storie di chi utilizzava la droga non soltanto per stordirsi dopo, ma anche per “resistere” durante il lavoro. Per non cedere ai turni massacranti, ai ritmi frenetici, alla fatica, al sonno. Tra gli autisti e gli autotrasportatori, per esempio, l’utilizzo delle anfetamine e della cocaina è estremamente diffuso, nonostante comporti notevoli rischi per i dipendenti stessi e per gli altri utenti della strada. I padroni sono a conoscenza di queste pratiche ma naturalmente si guardano bene dal contrastarle. Lo stesso vale per il campo della ristorazione, dove in tanti ci hanno descritto la cocaina come una costante, tanto che può capitare che il pusher sia lo stesso datore di lavoro che così si arricchisce due volte sulla pelle dei suoi dipendenti!

    Va detto anche che l’impiego di alcol e droga come “anestetico” sociale non si è mai limitato al singolo individuo. La Storia ha dimostrato come sia stato un’arma estremamente utilizzata – ed efficiente – per annientare i movimenti di protesta progressisti che godevano di grande consenso popolare in tanti luoghi della società.

    Prendiamo gli Stati Uniti, nel ventennio tra gli anni ’60 e ’70. Lì le forze repressive – l’Fbi in primis – in accordo con le organizzazioni malavitose, decisero di sommergere di eroina a basso costo i ghetti neri pur di arrestare l’avanzata impetuosa dei movimenti afro-americani. Un’operazione di cui ancora ci si “vanta”  ai piani alti della Politica e della Difesa negli USA,  perché permise di annichilire un’intera generazione di giovani segregati da razzismo e sfruttamento, spegnendo in loro ogni prospettiva rivoluzionaria. Contemporaneamente, con i proventi del traffico di droga, si finanziò la controrivoluzione in America Latina, aiutando materialmente le forze anticastriste in particolare. Quando si dice “due piccioni con una fava”!

    Qualcosa di molto simile è successo anche in Italia nel decennio successivo. Basta parlare con qualche compagno che ha vissuto gli anni ’70 e ’80 per rendersi conto del ruolo che l’eroina ha avuto nel generare il famigerato “reflusso” dei movimenti di quegli anni. Tanti militanti, tanti giovani finirono in quella trappola, spesso senza uscita, tanto che la lotta all’eroina è diventata un punto fermo  dei movimenti italiani fino alla prima metà degli anni ’90.

    Quella sì, nel nostro paese, fu una vera e propria emergenza:  la microcriminalità esplose, così come le carceri, neppure i figli dei ricchi ne furono immuni. L’opinione pubblica premeva perché lo Stato facesse qualcosa, e così lo Stato con notevole ritardo fu costretto a fronteggiare il problema. Lo fece male, malissimo, negando una qualsiasi riflessione sulle cause sociali che avevano portato a quel boom, e puntando tutto sulla penalizzazione, sulla reclusione carceraria. Nessuno parlò del fatto che i consumatori si concentrassero nelle fasce più povere della popolazione, nelle zone più depresse, dove la disoccupazione era più alta.

    Ma se non si incide sulle cause è impossibile risolvere un problema, così l’emergenza è durata a lungo, l’eroina ha continuato a mietere vittime. Col pretesto di combatterla, i governanti hanno ulteriormente militarizzato la società, riuscendo addirittura a fiutare l’occasione per un nuovo business, rappresentato dalle “comunità” in cui venivano spediti i tossicodipendenti. Molte erano vere e proprie imprese – lo dimostrano i fatturati da capo giro, oltre agli innumerevoli finanziamenti pubblici e privati! Fatte salve rare e positive eccezioni, nelle comunità la “cura” per il tossicodipendente consisteva essenzialmente nell’isolamento, nella costrizione – anche nell’OPG che abbiamo occupato noi! –, nella colpevolizzazione, nel lavoro (quasi sempre gratuito) e talvolta nella violenza fisica.

    Cosa ha stroncato, allora, l’“epidemia”? La crescita e la consapevolezza di una generazione che aveva ben  impressa negli occhi l’immagine di quell’esercito di zombie che si aggirava  nelle metropoli e nelle provincie. E’ stato il loro terrore, negli anni ’90, ad affievolire quel fardello collettivo, senza riuscirlo a  vincere davvero.E infatti cambiavano le sostanze, le mode, ma il problema si ripresentava, sempre uguale, sempre peggio, perché nessuno aveva osato affrontarlo alla radice. Iniziava a girare la cocaina anche fuori dai circuiti d’élite, e soprattutto si fecero largo le droghe sintetiche.

    Fu una sorta di rivoluzione.  Le nuove sostanze sembravano l’ultimo ritrovato della tecnica, costavano poco e “rendevano”  notevolmente. Non davano dipendenza fisica, erano apparentemente prive di seri effetti collaterali ed in più – cosa fondamentale – erano  facili da occultare e semplici da assumere.  Insomma, le droghe sintetiche misero tutti d’accordo: i consumatori, i gestori dei locali e l’esercito dei moralisti per i quali il problema se non si vede (le droghe sintetiche non necessitano di fasi di “preparazione”, a differenza dell’eroina e della marijuana) non c’è e basta.

    Occhio non vede, cuore benpensante non duole.Degli effetti che produce una loro assunzione abituale nel lungo periodo, però, si sa poco e niente. Innanzitutto perché esistono da poco e poi perché vi è da ancora meno tempo un utilizzo di massa in grado di produrre studi clinici attendibili. A differenza della marijuana, di cui si conosce praticamente quasi tutto perché utilizzata da millenni, le droghe di nuova generazione rappresentano per noi un buco nero.

    Nonostante questo, l’esperienza degli ultimi anni qualcosa ci dice già. Gli effetti collaterali ci sono eccome, e qualche volta sono pure estremamente gravi. L’abbiamo visto con i nostri occhi sulla pelle di qualche amico o conoscente: le droghe sintetiche non ti riducono a essere fisicamente un rottame, non ti lasciano facilmente identificare come il “tossico” come accadeva per l’eroina, non ti mandano dritto dritto in comunità. Magari oggi ti fanno un TSO, finisci in un centro di igiene mentale dove ti riempiono di psicofarmaci.Nonostante la “faccia pulita”, anche le droghe sintetiche hanno svolto pienamente il loro dovere  e hanno contribuito a spegnere sul nascere la conflittualità di una generazione convinta di essere sfuggita all’incubo tossicodipendenza, sicura di avercela fatta solo perché non si bucava.

    Poi sono arrivati veloci gli anni 2000, quelli della consacrazione della cocaina come droga di massa. La polverina bianca -che costituiva uno status symbol negli anni ’80 – ora è alla portata di tutti, anche dei più poveri.Se dovessimo stilare una classifica delle peggiori sostanze, di quelle che più odiamo, indubbiamente questa sarebbe al primo posto. Perché èla droga-simbolo del capitalismo. Non ti fa meditare, non ti mette in contatto con le parti più profonde del tuo inconscio né facilita la socialità, semplicemente ti fa diventare aggressivo, ti fa sentire potente, inarrestabile, superiore agli altri ed estremamente competitivo. Ti trasforma, finchè dura, nel prototipo del perfetto padrone, del maschio vincente.

    Gli effetti della cocaina sulla nostra vita sociale sono disastrosi, chi ha occhi per vedere sa di cosa parliamo. E’ evidente sul lavoro, in strada, nei locali. Una massa di individui che passa costantemente da uno stato di euforia e di superomismo a un altro caratterizzato da ansia e depressione. Prima pericolosa e poi mansueta e docile ma essenzialmente, in entrambe le condizioni,  prigioniera del proprio individualismo, tagliata fuori da qualsiasi dinamica di carattere sociale. Esattamente la fotografia di come i padroni ci vorrebbero:  singoli incapaci di vedersi come insieme e impegnati a competere tra di loro.

    La consacrazione presso il grande pubblico, anche se non lo dice più nessuno, è avvenuta nel 2006 per decreto del governo Berlusconi. La legge Fini-Giovanardi  aveva sostanzialmente equiparato le droghe leggere a quelle pesanti. A parità di rischio, per i narcotrafficanti diventava molto più conveniente smerciare cocaina, eroina e droghe sintetiche, meno ingombranti da trasportare, più facili da occultare e con margini di profitto superiori rispetto alla marijuana o all’hashish. A quel punto i prezzi sono diventati ancora più “popolari”, la vendita fatta anche a piccole dosi, cosicché la fascia d’età dei consumatori si è allargata, e anche gli adolescenti hanno potuto provare l’ebrezza della droga più ambita.

    La Fini-Giovanardi ha semplicemente aumentato il consumo delle sostanze “pesanti” –  che infatti è in costante crescita -, ha garantito maggiori profitti ai narcotrafficanti e “lavoro” per coloro che (come la famiglia dello stesso Giovanardi, sarà un caso?) sono impegnati nel business delle comunità a pieno regime. Non ha fatto lo stesso trattamento di “favore” ai consumatori, pesantemente criminalizzati con forti sanzioni, spesso accusati di essere spacciatori, né tantomeno verso la più bassa manovalanza del narcotraffico. La Fini-Giovanardi ha fatto nuovamente esplodere le carceri, avendo fissato tra i 2 e i 6 anni la pena per chi spaccia droghe leggere (ciò significava non rendere applicabili misure alternative e quindi spalancare le porte del carcere). Oggi il 40% dei detenuti è in galera per reati legati alle sostanze stupefacenti. Insomma, stiamo parlando di una legge che non tocca i profitti né nel campo “commerciale” né in quello della disintossicazione, una legge utile solo per pochi.

    Il colmo si è raggiunto nel 2014 quando una sentenza della Consulta ha dichiarato il provvedimento incostituzionale, visto che – in barba a qualsiasi principio che sia un minimo democratico – era stata inserita comeemendamento al decreto relativo alle Olimpiadi invernali di Torino 2006, pur di approvarla velocemente e senza intoppi! Un vero e proprio macello sotto tutti i punti di vista! Allora si è tornati alla vecchia legge per passare poi al decreto Lorenzin, che ha lasciato di fatto inalterato il carattere liberticida e ottuso che ha caratterizzato sempre la normativa in materia…

    Tutto questo giro, questa parentesi sulla nostra storia recente, per dire cosa? Abbiamo visto come le droghe spesso abbiano rappresentato una risorsa per chi ci comanda (e molto meno, magari, per la nostra psiche), perché tutto ciò che ci circonda, i rapporti in cui siamo immersi, le relazioni che intessiamo con sempre più difficoltà, le condizioni materiali in cui viviamo, si riproducano sempre uguali, esattamente come noi li vediamo oggi.

    Allora ci chiediamo – e scusateci se diremo qualcosa che a molti può sembrare banale – se e come è possibile pensare, finchè il capitalismo è in piedi, a un utilizzo realmente, profondamente, consapevole delle sostanze, illegali o legali che siano.Se è vero che il capitalismo si nutre di merci, e ci sfrutta fino al midollo per produrle, allora l’interesse di quella minoranza che oggi ci schiaccia sarà sempre quello di diffondere l’uso massivo di questa merce, fregandosene degli effetti che produce sulla salute, sfruttandone la particolare dote di “vaccino” che prevenga e combatta qualsiasi opzione di cambiamento sociale.

    Questo ovviamente non significa che nell’attesa della fine del capitalismo continueremo a sentirci impotenti e raccogliere le vite distrutte di nostri conoscenti, amici, parenti, colleghi di lavoro. Da subito dobbiamo combattere e impegnarci per tutelare la nostra salute e liberarci dal controllo repressivo che ci attanaglia

    Ecco perché pensiamo che questa questione debba essere messa al centro dell’agenda politica, non solamente quando qualche ragazzino muore tragicamente dopo una serata in discoteca. Non ci possiamo permettere il lusso di avere un atteggiamento ideologico, ma dobbiamo impiegare tutte le nostre energie e idee per individuare soluzioni immediatamente praticabili:

    – lottare per la liberalizzazione delle droghe leggere e la loro completa depenalizzazione, lottare perché la produzione e il loro commercio non diventi occasione di profitto per qualcuno;

     – promuovere serie politiche di riduzione del danno, cioè dare la possibilità ai consumatori di sapere cosa effettivamente stanno assumendo (attraverso analisi gratuite delle sostanze acquistate), consigli da parte di personale medico sulle quantità da assumere,personale sanitario pronto ad intervenire nei luoghi dove è più massiccio il consumo;

    – dare la possibilità di accedere a servizi sanitari gratuiti che monitorino gli effetti delle sostanze sul proprio corpo, garantire un supporto psicologico oltre che percorsi di disintossicazione non incentrati sulla costrizione, sulla colpevolizzazione né  tanto meno sulla violenza.

    Senza mai stancarci di denunciare che tutte le droghe, anche quelle legali, sono un’ulteriore chance per i padroni  di tenerci buoni, di controllarci.E poi dobbiamo dire sempre la verità:l’utilizzo e l’abuso di droghe, alcol in primis, è legato alle condizioni di vita ed in particolare a quelle di lavoro. Lo dimostra l’esperienza diretta di ognuno di noi: più aumenta lo sfruttamento, l’oppressione e la povertà, tanto più aumenta l’utilizzo di droghe. Noi invece lottiamo per una vita libera, ricca, indipendente, fatta di legami, incontri, sperimentazioni, sviluppo collettivo delle abilità e delle potenzialità che abbiamo come individui sociali…

    da http://jesopazzo.org/index.php/blog/135-ragionamento-su-droga-e-societa

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    Autore: franco.cilenti
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