Per l’Europa, o contro L’Europa? Un’astuta falsa questione

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L’Unione europea si trova nella crisi più profonda dalla sua nascita, per varie ragioni. La Brexit rappresenta il primo passo indietro dell’integrazione europea. La disuguaglianza in Europa è in aumento, tra ricchi e poveri, nonché tra regioni e paesi. La prosperità, che un tempo l’Unione europea aveva promesso come base stessa della propria esistenza, è accessibile a un numero sempre minore di persone. Invece che fattore di integrazione, l’Unione europea è oggi soprattutto un motore di divisione.

Tuttavia, nonostante queste profonde spaccature, per molti l'”impegno verso l’Europa” è parte integrante della propria identità politica. Questo legame affettivo si basa non solo sull’equazione non detta del continente con il mercato unico dell’UE, ma soprattutto sull’immagine ampiamente rafforzata dell’UE come progetto di pace, frutto degli insegnamenti di due guerre mondiali e spazio simbolico di mobilità, libertà e cooperazione politica. Chi potrebbe mai opporvisi?

Le critiche all’Unione europea vengono affrontate in modo più aggressivo da coloro che perpetuano la xenofobia e l’esclusione e che idealizzano lo Stato nazionale. Anche se moltissimi riconoscono che le attuali politiche neo-liberiste stesse sono responsabili dell’ascesa della destra, è ancora ampiamente supposto che l’unico modo per opporsi ai nazionalisti sia quello di difendere “più Europa”.

Questa giustificata preoccupazione per l’ulteriore ascesa dell’estrema destra rende impensabile per molte persone interrogare l’UE su un livello fondamentale. La gente affronta la questione come se non si potesse immaginare nessun’altra forma di cooperazione tra Stati. Ma l’UE ha davvero il potenziale per diventare l'”Europa sociale e democratica” che ci è stata presentata come ideale politico per decenni? E’ stata concepita per mantenere tale promessa? È davvero il quadro politico giusto per avvicinarci alla nostra visione di una buona vita per tutti e di un sistema economico democratico, ecologicamente sostenibile, socialmente ugualitario e con pari opportunità di genere?

Le risposte possibili includono uno sguardo critico su molte delle immagini preziose e fondamentalmente positive di ciò che costituisce il ruolo centrale dell’Unione europea.

L’attuale dibattito nell’UE è dominato dalla polarizzazione tra forze “europeiste” e “anti-europee”, eppure questa onnipresente rappresentazione della situazione è una manovra intelligente per distogliere l’attenzione dalle questioni sociali e dalla distribuzione disuguale della ricchezza.

Ne beneficiano sia gli estremisti di destra che le forze neo-liberiste. Mentre gli estremisti di destra scatenano conflitti tra persone di diversa provenienza, i neo-liberisti evitano ad ogni costo la questione sociale. Allo stesso tempo, conservatori e liberali sfruttano questa polarizzazione per equiparare le critiche dei movimenti sociali scettici dell’Unione europea a quelle degli estremisti di destra, di fatto diffammandoli e  delegittimandoli.

La realtà è che l’Unione europea e gli Stati nazionali non sono due poli opposti, ma piuttosto blocchi fusi insieme. Il modo in cui creiamo e distribuiamo la nostra ricchezza viene negoziato a entrambi i livelli. La questione cruciale non è quindi dove vengono prese le decisioni, ma a favore di chi sono prese e gli interessi sottostanti.

Uno degli obiettivi dovrebbe essere invece quello di rompere la falsa dicotomia tra forze “pro e anti-europee” e di aprire nuove prospettive.

I movimenti di cittadini/e e sociali, tra questi anche Attac, hanno sempre sostenuto l’integrazione europea in linea di principio, affermando l’esistenza di uno spazio politico europeo su cui giocare un ruolo che nel chiuso del proprio paese sarebbe ininfluente. Dai grandi  primi forum sociali europei alle grandi mobilitazioni contro trattati commerciali, contro le direttive liberalizzatrici dei servizi pubblici, al rifiuto del progetto di “costituzione europea” nel 2005. Tuttavia, gli eventi politici degli ultimi anni hanno reso povera di risultati l’arena politica europea dei movimenti.

Da un lato, gli appelli dei movimenti sociali europei per il riorientamento economico e la democratizzazione dell’UE sono rimasti inascoltati. Dall’altro, nella primavera del 2015, la grande speranza che i movimenti sociali e di sinistra in Grecia, forti di tutta la solidarietà messa in campo negli altri paesi, fossero in grado di avviare un cambiamento di rotta per l’intera Europa. Alla fine, purtroppo, il governo greco ha fallito nel tentativo di rompere con l’austerità neoliberista. L’enorme potere con cui le istituzioni e i governi dell’Unione europea si sono opposti alla prospettiva di un’alternativa economica e politica ha sorpreso molti. Inoltre, la pressione esercitata dai sostenitori del CETA sulla regione recalcitrante della Vallonia nell’autunno 2016, indicava chiaramente che le élites europee stavano cercando di mantenere a tutti i costi la traiettoria neo-liberista dell’UE.

Se non bastasse il DNA liberista, oggi l’Unione Europea si è spostata massicciamente a destra. C’è una forte spinta all’integrazione militare, e l’Unione si sta armando contro i rifugiati, pianificando campi di detenzione europei e schiacciando gli ultimi residui di solidarietà. Alcune parti delle precedenti strategie dei movimenti- formulare proposte politiche alternative e lottare per un’Unione europea diversa – ci pongono in una posizione difensiva, allontanandoci dall’obiettivo.

Man mano che la politica diventa sempre più di destra, è più o meno possibile descrivere un’Unione europea diversa come un’alternativa credibile?

Agli occhi dei movimenti, e sicuramente di Attac, non c’è dubbio che la cooperazione e la solidarietà internazionale siano indispensabili per trasformare le nostre economie e società in modo tale che una “buona vita” sia possibile per tutti. Al centro dell’UE, tuttavia, c’è spazio solo per il credo di una maggiore concorrenza, sia tra gli Stati membri dell’UE che a livello globale. Pensiamo alla recente pronuncia della Corte di Giustizia europea contro il regime di esenzione dall’imposta sugli immobili di cui la Chiesa cattolica ha beneficiato in Italia per tanti anni: potrebbe sembrare una vittoria del principio della laicità dello Stato, invece alla base c’è solo un caso di concorrenza sleale della Chiesa nei confronti delle ordinarie attività imprenditoriali.

La politica di deregolamentazione, liberalizzazione e privatizzazione che è stata definita nei trattati UE e che è stata perseguita per decenni, viene ora posta al centro anche dei trattati internazionali vincolanti con i paesi terzi, con esempi attuali, tra cui gli accordi commerciali TTIP e CETA. Questa politica è in contrasto con gli interessi della stragrande maggioranza dei cittadini europei.Tuttavia alla luce dell’attuale requisito dell’unanimità in seno al Consiglio dell’UE e del predominio delle forze neo-liberiste, la progressiva riforma dei trattati UE e la speranza di una politica economica alternativa, allo stato attuale, sono illusorie e occorre recuperare molta strada per affermare una egemonia di pensiero in linea con queste speranze.

Allo stesso tempo però, un “ritorno allo Stato nazionale” o un’uscita dall’UE o dall’euro non è una soluzione. Da un punto di vista puramente economico, l’uscita dall’UE comporterebbe opportunità molto diverse e rischi talvolta considerevoli a seconda dello Stato membro dell’UE in questione, ma nella maggior parte dei paesi, a causa dell’attuale equilibrio di potere, un’uscita rafforzerebbe ulteriormente le forze di estrema destra.

La Brexit ha dimostrato come i movimenti sociali possono essere abbattuti quando le forze nazionaliste e neo-liberiste bloccano la questione solo sulle sirene dell’uscita dall’UE.Ma se l’Unione europea non può essere salvata alle nostre condizioni, e se un’uscita non è una soluzione, che cosa si deve fare?

Occorre un dibattito aperto e di ampio respiro che ci aiuti a riprendere una posizione offensiva per far progredire la nostra visione di società centrata su una vita dignitosa per tutti, abbattendo le disuguaglianze sociali, evitando soluzioni immediate. Ci dobbiamo concentrare invece sulle prospettive strategiche e su come possiamo rafforzare l’azione dei movimenti. Il salto di qualità da compiere è passare da un’azione che è di livello europeo solo quando l’interlocutore è rappresentato dalle istituzioni comunitarie (principalmente la Commissione, dove agiscono le lobby “buone” di ONG, sindacati, associazioni) a forme di mobilitazione sociale continentali e permanenti, che mettano al centro gli obiettivi di ribaltamento dell’esistente, prima di tutto la riscrittura del Trattato fondamentale dell’Unione europea, modificato da Maastricht in avanti, ma anche, tra i tanti, una Banca Centrale Europea a difesa della riconversione ecologica dell’economia, della protezione sociale e dei servizi pubblici, della regolamentazione dei flussi di capitale, della politica fiscale progressiva, del disarmo dei mercati finanziari.

Roberto Spini

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 37 di Novembre – Dicembre 2018. “Europa: la deriva di un Continente?

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