Perché dico no al “Reddito di cittadinanza” del M5S

EMIGRANTI-LIBRO

In una delle sue più note canzoni[1], Giorgio Gaber ricorreva a una serie di luoghi comuni per dimostrare quanto, a suo parere, fossero da valutare ormai minime le differenze tra “destra” e “sinistra”. Così che: fare il bagno nella vasca era da considerare di destra, mentre il fare la doccia era di sinistra. Stessa differenza tra coloro che preferivano il culatello alla mortadella.

La conseguenza era che, in sostanza, le difformità – tra coloro che si definivano di una parte, piuttosto che dell’altra – si dovessero considerare ormai quasi del tutto inesistenti.

Sono trascorsi altri anni e sono sempre più numerosi coloro i quali cercano d’indurci a ragionare con quella stessa logica: secondo la quale sarebbe opportuno limitarci a disquisire se, ad esempio, la “minestrina”, rispetto al “minestrone”, è ancora di destra piuttosto che di sinistra; o viceversa.

Personalmente, rifiuto tale tipo di semplificazione e continuo a essere convinto che avesse pienamente ragione Norberto Bobbio[2] quando sosteneva: “Gli uomini sono eguali, gli uomini sono disegualidipende unicamente da ciò che si osserva” e riteneva che la “destra” e la “sinistra” andassero distinte in base all’atteggiamento nei confronti del concetto di eguaglianza.

In questo senso, egli collocava a sinistra colui[3] che parte dalla convinzione che: “La maggior parte delle diseguaglianze che lo indignano, e vorrebbe far sparire, sono di carattere sociale e, in quanto tali, eliminabili” e a destra, invece, “Coloro[4] che ritengono le diseguaglianze naturali e, in quanto tali, ineliminabili”.

Oggi, però, sono in tanti, a ritenere ormai superata la distinzione tra destra e sinistra e, con essa, la discriminante politica; tanto che, a parlarne, si corre il rischio di apparire un tardo nostalgico del secolo “breve[5]”.

Personalmente, resto invece convinto che nessuno possa sottrarsi a un giudizio di merito rispetto alla propria collocazione politica e, soprattutto, al proprio operato.

In altra occasione, ho già detto che, evidentemente, non la pensava così Emmanuel Macron quando, nel corso della campagna elettorale, per le presidenziali di Francia, dopo aver adottato il più classico: “Ni droite ni gauche”, si era – al massimo – limitato a sostenere che:” Il vero discrimine è tra conservatori e progressisti”; tutto, quindi, pur di evitare di essere politicamente “collocato” a destra, piuttosto che a sinistra.

In questo senso, nel tentativo di ben inquadrare il carattere politico delle motivazioni che hanno indotto i vertici del M5S a farsi portatori della richiesta del c. d. “Reddito di cittadinanza”, ritengo di dover confermare tutti i dubbi e le perplessità che hanno sempre caratterizzato le mie valutazioni rispetto alla reale “natura” delle posizioni politiche (di volta in volta) assunte dai vertici del Movimento.

Se penso, ad esempio, alle altalenanti prese di posizione assunte da Di Maio e company sul ruolo del Sindacato e delle loro (tante) ambiguità presenti nella discussione relativa ai migranti extraeuropei, riesce difficile emettere un giudizio sereno; che non corra il rischio di essere smentito dai fatti.

Va, comunque, detto che la loro ipotesi di lavoro, tesa alla ricerca di uno strumento capace di consentire di porre rimedio a una iniqua diseguaglianza sociale – anche di là da quei vincoli di spesa e di bilancio che ne rendono difficile, se non impossibile, la completa realizzazione e di dubbia “collocazione politica” – va accolta con interesse e adeguatamente approfondita.

Però, prima di avventurarci tre gli aspetti positivi, le insidie, i dubbi, le perplessità e le eventuali contro-indicazioni, insite in una misura del genere, è opportuno chiarirsi un po’ le idee e cercare di meglio delineare il quadro entro il quale operare.

Al riguardo, è doveroso iniziare con qualche precisazione di massima.

È da tempo, ormai, che si sente – indifferentemente – parlare di “Salario di cittadinanza” (in particolare, dal Movimento Cinque Stelle), “Reddito di inclusione” (Massimo D’Alema), “Reddito di base” (Roberto Ciccarelli), “Reddito minimo garantito” (Consiglio Europeo), “Reddito di sussistenza”, “Reddito minimo universale”, “Reddito di dignità” (Berlusconi) e “Reddito di inclusione” (introdotto dal governo Gentiloni).

Ebbene: a mio parere, il provvedimento legislativo – cui credo intendano fare riferimento coloro i quali, con maggiore frequenza, si cimentano su tale questione – dovrebbe essere rappresentato, da tutt’altra cosa rispetto a qualsiasi tipo di salario o reddito. A partire già dalla sua denominazione: quindi, né reddito, né salario.

Personalmente concordo pienamente con la definizione offerta da Wikipedia, secondo la quale si tratta di prevedere: “Un’erogazione monetaria[6], a intervallo di tempo regolare, distribuita a tutte le persone dotate di cittadinanza e residenza, cumulabile con un altro eventuale reddito, indipendentemente dallo svolgimento di un’attività lavorativa, dal sesso, dalla religione e dalla posizione sociale e corrisposto vita natural durante” Un provvedimento, quindi, di carattere universale e non sottoposto ad alcuna condizione.

Un’ipotesi di lavoro che, per grosse linee, ha un illustre precedente in una versione riconducibile a Thomas Paine[7]; per porre fine al problema della povertà dilagante nella Francia del XVIII secolo. Essa prevedeva, in sintesi, di costituire – grazie a una tassa sulla proprietà fondiaria – un Fondo da ripartire tra tutti i cittadini attraverso una somma abbastanza consistente da corrispondere al compimento della maggiore età e un pagamento annuo dai 50 anni in poi.

D’altra parte, anche in tempi a noi molto più vicini, ci si era posto lo stesso problema.

Non a caso, la “Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali” dell’ONU, del 1966, ancora oggi vigente e ratificata in quasi tutto il mondo, stabilisce, all’ art. 11, il diritto alla “libertà dalla fame” e a un tenore di vita per sé e per la propria famiglia “che includa un’alimentazione, alloggio e vestiario adeguati”.

Più o meno la stessa cosa è prevista dalla “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”.

Noi, purtroppo, dobbiamo prendere atto, per l’ennesima volta, di essere ancora, insieme alla solita Grecia, uno dei pochi paesi europei a non prevedere alcuno strumento economico di questo tipo.

Fa, perciò, ancora più rabbia, sentire tanti nostri politici e loro consiglieri ricorrere sempre – quando si apprestano a legiferare contro gli interessi dei cittadini e dei lavoratori – all’ormai insopportabile ritornello: “Ce lo chiede l’Europa”!

Lo intonarono insistentemente quando, ad esempio, operarono la (contro)riforma del sistema pensionistico e quando, più recentemente, fu il turno dell’art. 18 dello Statuto.   Avessero adottato una sola volta – come vigente in Olanda, Germania o Francia – uno tra i tanti strumenti di sostegno (reale) al (magro) reddito dei lavoratori e pensionati italiani, semplicemente perché “Così previsto in Europa”!

Tornando alle proposte di cui si discute, a onore del vero, è opportuno rilevare che anche qualche noto esponente dell’universo liberale[8] si era già cimentato in una proposta di “Reddito di base” quale strumento per “Uno stato minimo di tutela dell’ordine sociale, che verrebbe messo in crisi dalla presenza di ampie fasce di popolazione al di sotto della soglia di sopravvivenza”.

Una diversa proposta fu quella di un’imposta negativa[9]; attraverso la quale coloro i quali si sarebbero trovati sotto il livello minimo di reddito stabilito dalla legge, avrebbero beneficiato di una tassazione negativa, cioè ricevuto dallo Stato un contributo utile ad equiparare il loro reddito al minimo previsto.

Una terza ipotesi fu rappresentata dal c. d. “Dividendo sociale[10]”; secondo il quale ai cittadini in stato di bisogno sarebbe stato corrisposto un beneficio pubblico, uguale per tutti, indipendentemente dal contributo lavorativo di ciascuno.

Si tratta, dunque, di un tema che, se nel passato ha rappresentato motivo di confronto, per lo più teorico, e contenuto la discussione tra i soliti “addetti ai lavori”, oggi è di grande attualità e rischia di diventare, addirittura, una condizione “sine qua non” per la costituzione di un nuovo governo.

Elemento non secondario è il fatto che, negli ultimi quarant’anni, il numero dei Paesi poveri del mondo è raddoppiato e l’Italia è diventata, dopo la Grecia, il secondo Paese più povero dell’UE.

In questo senso, i “numeri” italiani sono da brividi. Sono, infatti, oltre 14 milioni i soggetti che, nel nostro Paese, vivono in condizioni di povertà relativa[11] e assoluta[12].

Da qui, l’esigenza – politicamente condivisibile – d’intervenire in un contesto sociale che, dopo le contro-riforme operate nel corso degli ultimi anni, dai governi Berlusconi, Monti e Renzi – che hanno completamente stravolto il sistema previdenziale ed il mercato del lavoro, avviando la “destrutturazione” del sistema sanitario nazionale, della scuola e, complessivamente, del welfare universale di Stato – si presenta diseguale, confuso e frammentato.

Quindi, come in parte già anticipato, attraverso la definizione fornita da Wikipedia, il Reddito di cittadinanza, nella sua accezione più comune, dovrebbe presentare, in particolare, due caratteristiche fondamentali: l’universalità incondizionata.

In questo senso, esso verrebbe riconosciuto a tutti i soggetti (e non alle famiglie, ad esempio) residenti nel territorio dello Stato, in misura fissa, a scadenza regolare, a prescindere dall’eventuale reddito del beneficiario, indipendentemente dalla disponibilità o meno a cercare un lavoro e senza obbligo di partecipazione ad alcun programma di inserimento o reinserimento sociale o lavorativo.

In una forma estrema, potrebbe rappresentare, in teoria, un trasferimento monetario “unico e omnicomprensivo”, nel senso che ne farebbero parte tutte le diverse “voci” del classico welfare; dall’assistenza sanitaria alle forme previdenziali!

A solo titolo di curiosità, è il caso di riportare che in Alaska esiste, da circa trent’anni, una particolare – e, forse, irripetibile, a parte qualche sperimentazione in atto in Kenya, Olanda e Finlandia – forma di Reddito di cittadinanza. Infatti, nel paese dei ghiacciai lo Stato trasferisce le entrate delle concessioni per lo sfruttamento dei pozzi petroliferi in un Fondo vincolato. Parte dei capitali versati vengono investiti nei mercati finanziari e una quota dei guadagni viene ripartita, annualmente, tra tutti i cittadini residenti da almeno due anni. Interessante rilevare che, negli ultimi venti anni, l’importo medio annuo del trasferimento monetario si è collocato tra i 900 e i 2000 dollari pro/capite.

Relativamente a questo tema, richiederebbe troppo spazio e tempo illustrare, nei particolari, la situazione vigente nei paesi dell’UE. Basti sapere che una forma di Reddito di cittadinanza – più o meno simile a quella precedentemente illustrata, universale ma non sempre incondizionato – è attualmente vigente ovunque; escluse, naturalmente, Grecia e Italia. Di La Francia, che è stata l’ultima in Europa a introdurre una forma di sussidio che, nei fatti, è un reddito di cittadinanza, lo ha fatto circa venti anni fa!

Taluni considerano che l’introduzione, anche nel nostro paese, del reddito di cittadinanza consentirebbe, di là degli aspetti positivi di carattere sociale – si pensi a una ragazza madre disoccupata, un portatore di handicap impossibilitato a svolgere una qualsiasi attività lavorativa, un anziano con una pensione minima, i circa tre milioni (tra subordinati e autonomi) di “working poor” (lavoratori poveri) e i milioni di soggetti che dichiarano il loro stato di povertà – di raggiungere una serie di altri obiettivi.

Nell’ordine: 1) una maggiore coesione sociale, grazie all’universalità dello strumento; 2) una consistente semplificazione amministrativa, nel senso che non ci sarebbe più bisogno di stabilire alcun limite di “povertà” o elemento di “bisogno”, né alcun criterio da seguire per assegnarlo o, eventualmente, revocarlo. Di conseguenza, non si correrebbe il rischio di riconoscerlo a soggetti non aventi titolo a percepirlo o non assegnarlo a persone in stato di necessità; 3) un mercato del lavoro in cui la flessibilità e la precarietà finirebbero con il non rappresentare più quella spada di Damocle che oggi pende sul capo di milioni di lavoratori.

Naturalmente, a valle delle riflessioni teoriche e simulazioni matematiche, ci sono anche aspetti negativi da prendere in considerazione.

Il primo punto è relativo alla c. d. “sostenibilità del sistema”. È stato, infatti, calcolato che un eventuale reddito di cittadinanza che accorpi, in Italia, tutti gli altri trasferimenti che vanno sotto il nome di welfare universale (anche i trattamenti pensionistici), innalzerebbe la pressione fiscale oltre il 50 per cento del valore del Pil (prodotto interno lordo).

Il secondo ha un carattere etico/morale, nel senso che, concederne a tutti l’accesso incondizionato – anche a coloro che non hanno alcuna intenzione di cercare un lavoro stabile – produrrebbe, inevitabilmente, un disincentivo ed un depauperamento del capitale umano.

Il terzo aspetto negativo è dettato dalla dubbia efficacia sulla povertà, nel senso che il reddito di cittadinanza potrebbe, rispetto a interventi di tipo selettivo, risultare meno efficace e costare tanto di più.

A ben vedere, però, la proposta del M5S presenta alcune particolarità che la rendono una cosa diversa dal reddito di cittadinanza fino ad ora discusso.

Infatti, nel merito, la proposta dei pentastellati prevede il possesso di tre requisiti per avere titolo al beneficio di legge: a) la maggiore età; b) essere disoccupato o inoccupato; c) godere di un reddito (lavoro o pensione) inferiore alla soglia di povertà attualmente vigente in Italia (780 euro).

Inoltre, i soggetti interessati, esclusi quelli già in età pensionabile, devono fornire immediata disponibilità al lavoro, intraprendere un percorso di accompagnamento all’inserimento lavorativo e svolgere con continuità azioni di ricerca di un lavoro. Sono anche previste alcune cause di “decadenza” dal beneficio: il mancato rispetto degli impegni assunti, sostenere più di tre colloqui di lavoro con la palese intenzione di ottenere un esito negativo, rifiutare tre proposte di lavoro ritenute “congrue” oppure recedere senza giusta causa da un contratto di lavoro per ben due volte nel corso dell’anno solare.

Si tratta, in definitiva, di un’ipotesi che – oggettivamente – presenta più il carattere del workfare che del classico welfare.

Non è quindi casuale che l’ipotesi del M5S viene giudicata, da alcuni, espressione di una politica neoliberista, attraverso la quale il povero, il disoccupato e il precario devono, necessariamente, dimostrare il massimo della disponibilità a un lavoro in cambio di un sussidio temporaneo e tutt’altro che universale.

Roberto Ciccarelli[13], in un libro di recentissima pubblicazione, afferma che l’idea del reddito di cittadinanza, cosi come strutturato nella proposta dei 5S, rappresenta, in sostanza “Un capolavoro: partorire un dispositivo liberista, lavorista, facendolo passare per un intervento sociale di welfare”. E continua: “Esso promette formalmente una libertà e coinciderà, quando e se sarà applicato, con il suo opposto: l’auto-sfruttamento di masse impegnate a strappare il sussidio in cambio della disponibilità a un lavoro qualsiasi”.

Personalmente, se fosse in mio potere adottare una soluzione a uno stato di cose che, oggettivamente, nel nostro paese, presenta una situazione ricca di disuguaglianze e inique differenze – di reddito, di “status” e di condizioni sociali – non avrei dubbio alcuno circa l’esigenza di prevedere un “Contributo sociale universale ed incondizionato”.

Questo, però, sono sicuro che resterebbe “Un sogno ad occhi aperti”!

Un’alternativa possibile, compatibilmente con le attuali disponibilità finanziarie, potrebbe, invece, essere rappresentata dall’istituzione di un “Contributo sociale temporaneo”.

Identificando, con esso, una partecipazione monetaria dello Stato, a favore dei     cittadini italiani e dei residenti da almeno due anni, con età superiore ai 18 anni e in “stato di bisogno”.

Lo stato di bisogno sarebbe rappresentato dalla mancanza di un reddito individuale da lavoro/pensione (dipendente o autonomo) – o dalla sua insufficienza – rispetto a un importo pari a 1.000 euro mensili.

L’ammontare complessivo del contributo andrebbe calibrato e maggiorato rispetto alla composizione e al numero dei componenti il nucleo familiare.

Nel caso di soggetti disoccupati o in cerca di occupazione andrebbero previste azioni premianti per coloro che dimostrassero di essere effettivamente alla ricerca di un lavoro o, viceversa, graduale riduzione (nel tempo) dell’ammontare del beneficio, per coloro che dimostrassero di non avere alcun interesse nella ricerca di un lavoro “congruo” (attinente al titolo di studio, più o meno corrispondente all’eventuale precedente lavoro e alle competenze possedute o a quelle acquisite in precedenti esperienze lavorative, che disti non oltre 50 chilometri dal luogo di residenza e sia raggiungibile,                                                                                                                                                                                        con mezzi pubblici, entro 60 minuti.

Si tratterebbe, in sostanza, di un primo, timido, passo per tentare di adeguarci, almeno una volta in positivo, alle norme vigenti- ormai da diversi anni – negli altri paese dell’UE.

Ci sarebbe, però, un enorme ostacolo da rimuovere:

In un’Italia:

  • di “furbetti” e “furbastri”, che non hanno altra aspirazione se non quella di diventare “furbi” ed emulare le gesta di un “delinquente naturale[14]”,
  • nella quale la classe politica più nota è rappresentata – per la gran parte – da ex comprimari ed ex “porta/borse”; capaci di farci rimpiangere i protagonisti della c.d. “Prima Repubblica”,
  • nella quale le novità politiche nascono e si esauriscono tra Di Maio “il giovane presuntuoso” e Salvini “il barbaro”,
  • con una classe dirigente e un ceto imprenditoriale sui quali è opportuno stendere un velo ed osservare un pietoso silenzio,
  • in cui nessuno, dall’estrema sinistra a quella di destra, ha mai tentato di contrastare e arginare, in modo concreto, un vergognoso cancro della nostra economia; un’evasione fiscale, tra i 250 ed i 270 miliardi di euro, che rappresenta un nostro (non invidiabile) primato europeo,
  • in cui, all’enorme evasione fiscale si aggiunge quella contributiva; con centinaia di migliaia – se non milioni – di lavoratori “grigi” e “a nero”,

è da folli pensare di poter realizzare qualsivoglia politica sociale, tesa a ridurre gli squilibri e sanare le disuguaglianze, senza fare prima i conti con questo diffuso malcostume.

In questo senso, sono troppe le esperienze negative che hanno caratterizzato anche i più interessanti tentativi di intervento pubblico per un “sostegno” sociale.

Penso, ad esempio, ai famigerati “Lavori di pubblica utilità” e ai “Lavori socialmente utili”.

Due esperienze, talora allucinanti, di intervento pubblico – finalizzato a concedere un contributo economico a disoccupati, inoccupati e fruitori di cassa integrazione o indennità di mobilità – finito con il rappresentare l’occasione, per diverse decine di migliaia di falsi aventi diritto, di accedere a “Società miste” (pubblico/privato) che hanno prodotto danni rilevantissimi in centinaia di Comuni italiani.

Il punto è che, in un paese civile, il pagare le tasse ed avere riscontro del loro impiego, in termini di utilità sociale, anche se non è proprio una cosa “bellissima[15]”, rende il contribuente consapevole di partecipare – per quanto di sua competenza – al finanziamento del welfare universale al quale, prima o poi, tutti ricorreranno.

In Italia, purtroppo, questo elementare concetto di educazione civica non è condiviso.

Anzi, dimostrare di aver frodato il Fisco, anche per centinaia di milioni di euro, piuttosto che rappresentare – per qualsiasi cittadino e, ancora di più, per un politico – una “macchia” indelebile di inaffidabilità, finisce per essere considerata una cosa della quale vantarsi.

D’altra parte, la storia testimonia che il nostro è anche il paese dei “condoni”, dei “ravvedimenti”, degli “abbuoni” e dei “colpi di spugna”. E’, in sostanza, il “brodo di coltura” nel quale hanno sempre prosperato elusioni ed evasioni di tutti i tipi!

Pretendere, quindi, in un simile contesto, di dare corso a un “Contributo sociale temporaneo”, di carattere non universale ma selettivo, che, di conseguenza, necessiterebbe di essere adeguatamente e costantemente monitorato e verificato – onde evitare distorsioni e, soprattutto, fraudolenti riconoscimento dello “stato di bisogno” – sarebbe velleitario ed illusorio; destinato a un altro clamoroso fallimento che, forse, è opportuno risparmiarsi, unitamente all’esigenza di non dimenticare che una soluzione si renderà, prima o poi, indispensabile.

 

[1] “Destra-Sinistra”; pubblicata, nel novembre del ’94, nell’ Album: “E pensare che c’era il pensiero”.

[2] “Destra e sinistra”; Ragioni e significati di una distinzione politica.

[3] “Egualitario”, secondo la definizione di Bobbio

[4] “Inegualitario”

[5] “Il secolo breve, 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi”. E’ un saggio dello storico britannico Eric Hobsbawm che così definì il  ‘900, perché denso di avvenimenti e coerente nel carattere; dalla prima guerra mondiale alla caduta dell’Unione Sovietica.

[6] È la definizione che da Wikipedia del c.d. “Reddito di base”

[7] “La Giustizia Agraria”, libello pubblicato nel 1795

[8] “Legge, legislazione e libertà”, di Friedrich von Hayek, premio Nobel per l’economia nel 1974

[9] Concetto di politica fiscale sviluppato da due economisti britannici: Milton Friedman e Juliet Rhys-Williams. L’obiettivo, in sostanza, sarebbe quello di ridurre al minimo indispensabile l’assistenza sociale

[10] Economista britannico, vincitore del premio Nobel per l’economia nel 1997

[11]  Calcolata attraverso il consumo medio pro-capite o il reddito medio per abitante

[12] Incapacità di acquisire beni e servizi per raggiungere uno standard di vita minimo accettabile

[13] “Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale” (ed. Derive Approdi)

[14] Così definirono Silvio Berlusconi i giudici del Tribunale di Milano nelle motivazioni della condanna per la vicenda della compravendita dei diritti tv Mediaset. Dal quotidiano “Libero” del 28 ottobre 2012

[15] Tommaso Padoa-Schioppa, ex Ministro dell’Economia: “Le tasse sono una cosa bellissima, un modo civilissimo di contribuire tutti insieme ai beni indispensabili”

Renato Fioretti

Esperto Diritti del Lavoro. Collaboratore redazionale del periodico cartaceo Lavoro e salute

2/5/2018

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