Perchè i giovani non protestano?

giovani2

Sono un puzzle complicato, i giovani italiani dei nostri giorni. Sono cambiati rapidamente e appaiono, oggi, diversi dal ritratto che siamo soliti fare della giovinezza. Eppure, nella loro trasformazione si coglie il riflesso del mutamento della società, insieme ai segni premonitori dei cambiamenti che verranno.
Formano una “generazione precaria” contraddistinta dalla condivisione di uno svantaggio, in termini socio-economici, rispetto alle generazioni precedenti: basti pensare ai livelli di disoccupazione giovanile, al gap crescente tra i redditi dei giovani e quelli degli adulti, alle condizioni contrattuali e conseguenti tutele con cui si relazionano all’esperienza lavorativa, alle prestazioni del Welfare relative all’autonomia abitativa, alla costruzione di nuovi nuclei familiari, fino alle pensioni1. Per non parlare del fenomeno dei NEET, in drammatica ascesa2.
Una generazione precaria che, però, non si mobilita a difesa dei propri diritti. Che, anzi, guarda con scetticismo verso quei soggetti politici e sindacali che vorrebbero percorrere quella strada. Eppure, lo sappiamo da diverse ricerche, c’è ampia consapevolezza, tra i giovani così come tra gli adulti, delle difficoltà dei giovani. Tanto da sfociare in prospettive marcatamente pessimiste riguardo al futuro, anche in comparazione con altri paesi3. Perché, dunque, i giovani non protestano? Perché non nasce una nuova identità collettiva intorno alle rivendicazioni giovanili, qualcosa insomma di simile ad un movimento sociale?
Ma c’è dell’altro. Assistiamo, in questa fase, ad un processo di ridefinizione profonda del nostro sistema politico, sotto il profilo del disegno istituzionale così come delle prassi decisionali e comunicative adottate dai principali esponenti politici. Un processo rivolto verso la semplificazione dei processi decisionali e l’affermazione di un rapporto diretto, “disintermediato”, tra leader e popolo4. Che, tuttavia, non comunicano certo sullo stesso piano: il loro rapporto evoca piuttosto, nelle rispettive possibilità di interazione, quello che si viene a creare tra attore e “pubblico”5. Un processo di cambiamento dove l’esercizio della critica, il dibattito tra le parti sociali, le stesse procedure rappresentative che, nel richiedere tempo, concedono anche il tempo del mutuo controllo e della ricerca del compromesso, rischiano di essere delegittimate e ricondotte a meri intralci all’efficacia di governo, alla capacità di dare risposte e di farlo in fretta. Strano, hanno appuntato alcuni, che le voci critiche rispetto a quanto sta avvenendo appartengano quasi esclusivamente ad osservatori adulti o anziani. E i giovani?
C’è, suggeriamo, una coerenza tra queste due grandi questioni. Per capirla, è necessario interrogarsi seriamente su chi sono i giovani italiani, perché i ventenni di oggi sono diversi rispetto a chi era giovane anche solo 10, 15 anni fa: e differente, peculiare, è il loro modo di relazionarsi alla politica.
Il confine corre (convenzionalmente) intorno ai 30-32 anni. Perché chi è più giovane di quella soglia ha vissuto un’infanzia e un’adolescenza in un periodo caratterizzato da un clima sociale significativamente diverso rispetto a quello che ha accompagnato le fasi formative dei giovani-adulti, ovvero di coloro che hanno oggi età compresa, all’incirca, tra i 32 e i 42 anni.
L’adolescenza dei giovani adulti – la “generazione perduta” della celebre definizione di Mario Monti – si è dipanata tra la fine degli anni ’80 e l’inizio del decennio successivo, con il materialismo e la spinta a consumare e divertirsi propri di quel periodo, con l’illusione di un benessere alla portata di (quasi) tutti e di una crescita economica che appariva quasi come un’acquisizione destinata ad auto-perpetuarsi.
I ventenni di oggi, invece, sono cresciuti guardando cosa stava accadendo a questi loro “fratelli maggiori”: hanno avuto modo di constatare le difficoltà con cui si scontravano, arrivando “impreparati” a sbattere contro il muro di una realtà socio-economica così diversa dai loro sogni e progetti adolescenziali; li hanno visti barcamenarsi tra lavoretti che ritardavano l’inizio di un lavoro “vero” finendo per dilazionare tutti quei passi che sanciscono l’ingresso nella vita adulta. L’adolescenza dei ventenni di oggi è trascorsa in un’atmosfera dominata dalle sensazioni del “rischio” e dell’insicurezza, nonché dalla convinzione che la loro generazione non otterrà posizioni sociali ed economiche migliori rispetto alle precedenti, anzi. Anche i trentenni di oggi ne sono convinti, ma loro lo hanno scoperto dopo, da (quasi) adulti: la loro giovinezza è stata (anche) il tempo dei sogni e delle illusioni. Cosa ben diversa dal crescere in un clima di allarmismo e pragmatismo, con messaggi educativi, pure impartiti in buona fede, spesso volti alla necessità di “mettersi in salvo” in un futuro che si prevede pieno di insidie6. Se i giovani adulti sono “delusi”, i ventenni, volendo evitare la delusione, partono già “disillusi”. Si sentono costretti a ridimensionare la portata di sogni e ambizioni puntando su obiettivi materiali, di stampo privato, che percepiscono alla loro portata. E, probabilmente, ancora non si è aperta una seria riflessione sulle conseguenze, su più fronti, di una generazione che, crescendo in un clima di allarme, tende a considerare tutto ciò che è grande e gratuito – i sogni, la passione, l’interesse verso esperienze di crescita – come un “lusso che non ci si può permettere” [Benasayag e Schmit 2004, 40].
Il sogno e il desiderio sono i grandi mancanti, nel ritratto dei giovani di oggi. E come, in ambito privato, i sogni vengono sostituiti da obiettivi concreti e materiali, in modo simile prende piede una visione della politica vista come gestione tecnica dello status quo, dove non c’è spazio per gli ideali – che, in fondo, sono un po’ la trasposizione in ambito pubblico dei sogni – né, quindi, per la possibilità del cambiamento. Non si tratta di raccontare, ancora una volta, la fine delle ideologie: i giovani hanno fatto un passo più in là. Perché il loro rifiuto non si rivolge solo verso le ideologie tradizionali, bensì investe la possibilità stessa di immaginare – sognare, appunto – un futuro dai contorni differenti rispetto al presente. Come ha risposto, sintetizzando in maniera emblematica un atteggiamento comune tra i giovani, un’intervistata interrogata circa la possibilità che la politica cerchi soluzioni al problema della precarietà lavorativa dei giovani, “basta che c’è lavoro. Meglio fare il precario che avere poche speranze di trovare lavoro.” Anche di fronte a una realtà non soddisfacente, si rinuncia in anticipo a prendere in considerazione, o anche solo a immaginare (sognare), la possibilità di un intervento incisivo, in grado di cambiare la situazione. È l’idea stessa del cambiamento che sembra essersi eclissata, nel loro orizzonte. Ma della politica, quando la si spogli dell’ambizione di farsi portatrice di progetti di cambiamento dotati di una qualche rilevanza, rimane una versione minima,tecnica, spoliticizzata. Una politica ridotta a funzione amministrativa rivolta, al più, a rispondere alle “emergenze” immediate. In quest’ottica, gli unici criteri degni di attenzione diventano l’efficacia e la competenza tecnica. Perché, se la politica non può produrre cambiamenti rilevanti, perdono di peso le differenze tra culture politiche, visioni ideali, narrazioni della realtà. Bisogna partire da qui, dunque, per capire perché, nel trade off tra governabilità e rappresentanza, i giovani privilegino nettamente la prima, propendendo per una ridefinizione degli assetti istituzionali volta ad una netta semplificazione, a fare sì che chi governa possa decidere, e in fretta: il che diventa più importante di cosa, e come, si decide. Tanto che, tra i giovani, si registra il livello più alto di consenso verso l’ipotesi di governi tecnici, senza i politici (Fig. 1). Ai loro occhi, anziché apparire come una soluzione di ripiego, l’accordo tra gli esponenti più “competenti” delle diverse parti viene auspicato a monte, in quanto, in fondo, pienamente coerente con la loro idea di politica.

Fig. 1 – In questo momento di crisi, per l’Italia è meglio avere un governo di tecnici o esperti, senza i politici.
Valori percentuali di chi si dichiara molto o abbastanza d’accordo, in base alle coorti di età

Microsoft Word - 1- giovani che chiedono poco.docx

Fonte: Demos&Pi, Osservatorio di Pavia e Fondazione Unipolis, Osservatorio Europeo sulla sicurezza, 2012, n. 2009

Certo, le ragioni per cui i giovani italiani non protestano rispetto allo svantaggio che li accomuna, o quelle per cui assistono in silenzio al mutamento profondo del nostro assetto istituzionale sono complesse e richiedono una trattazione attenta e analitica. Per capirle conviene guardare da vicino i giovani, prestare attenzione alla loro visione del mondo e del futuro, ai loro valori, sogni e priorità. Perché tutto questo si riflette sulla sfera politica. Solo in questo modo diventa possibile riconoscere l’esistenza di un comune modo di avvicinarsi alla politica, fatto di domande, orientamenti e aspettative, dotato di una coerenza di fondo. Individuare il filo rosso che collega le loro domande di semplificazione del sistema politico, il loro rifiuto di ideologie e ideali, l’accento sulla competenza tecnica e sull’onestà, e vedere come tutto questo si traduca nella domanda di una politica “tecnica”, costitutivamente frammentaria, tradotta e ridotta, nella migliore delle ipotesi, a gestione efficace dello status quo.

(1.continua)

Riferimenti bibliografici
Ambrosi, E. e A. Rosina (2009) Non è un Paese per giovani, Roma, Marsilio.
Benasayag, M. e Schmit, G. (2004) L’epoca delle passioni tristi, Milano, Feltrinelli.
Boeri T., Galasso V. (2007) Contro i giovani. Come l’Italia sta tradendo le nuove generazioni, Milano, Mondatori.
Forni, L. (2013) Il peggioramento della condizione economica dei giovani in Italia, su “il Mulino”, vol. 2, pp. 237-245.
Lello, E. (2015) La triste gioventù. Ritratto politico di una generazione, Rimini, Maggioli.
Livi Bacci, M. (2008) Avanti giovani, alla riscossa, Bologna, Il Mulino.
Livi Bacci, M. e De Santis, G. (2007) Le prerogative perdute dei giovani, “Il Mulino”, n. 3, 472-481.
Manin, B. (1997) The Principles of Representative Government, Cambridge University Press, Cambridge-New York, trad. it. (2010), Principi del governo rappresentativo, Bologna, il Mulino.
Revelli, M. (2015) Dentro e contro. Quando il populismo è di governo, Roma-Bari, Laterza.
Rosina, A. (2015) Neet. Giovani che non studiano e non lavorano, Vita e Pensiero.
Rosolia, A. e Torrini, R. (2007) The generation gap: Relative earnings of young and old workers in Italy, Banca d’Italia.

1  Sullo svantaggio dei giovani si possono vedere, tra gli altri, i lavori di Livi Bacci e De Santis [2007], Livi Bacci [2008], Ambrosi e Rosina [2009] e Boeri e Galasso [2007]. Sul gap salariale tra giovani e adulti, cfr. Rosolia e Torrini [2007] e Forni [2013].

2  Si veda Rosina [2015].

3  Da tempo in Italia almeno sei persone su dieci ritengono che i giovani dovranno accontentarsi, in futuro, di condizioni sociali ed economiche peggiori di quelle delle generazioni precedenti, ma nel 2012 questa percentuale è salita all’85%: dieci punti percentuali in più rispetto a Francia e Regno Unito e circa venti rispetto a Spagna e Germania (Quinta edizione dell’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, a cura di Demos & Pi., Fondazione Unipolis e Osservatorio di Pavia, marzo 2012).

4  Cfr. le tesi sostenute da Revelli [2015].

5  La trasformazione dei cittadini-elettori in pubblico è, come è noto, al centro della definizione di democrazia del pubblico coniata da Bernard Manin [1997].

6  Benasayag e Schmit [2004] sottolineano come, nella formazione dei giovani, pesino le conseguenze di un’educazione che, anziché fare leva sul desiderio, si basa sulla minaccia del peggio (cioè delle minacce che avrebbe in serbo il futuro).

Elisa Lello

12/12/2015 www.sbilanciamoci.info

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