Perché il 2023 rischia di essere un anno molto pesante per la sanità pubblica

© Enric Moreu – Unsplash

Oltre al mancato adeguamento all’inflazione, con una spesa complessiva che sale da 124 a 126 miliardi di euro, a fronte di un aumento dei prezzi ben superiore al 10% e con bollette energetiche stellari, e ai mancati rimborsi alle Regioni per il Covid-19, si profila per la sanità pubblica il tema del cosiddetto “pay back”.

Si tratta cioè dell’applicazione di una norma introdotta nel 2015 ma rimasta inattuata fino al 15 settembre 2022, quando è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale. La vicenda di tale norma, relativa alle spese per dispositivi sanitari, è particolarmente istruttiva. L’articolo 17 del decreto legge 98 del 2011 e l’articolo 15, comma 13, del decreto legge 95 del 2012 hanno introdotto un tetto di spesa a livello nazionale per quanto riguarda la sanità pubblica; nella fase dell’austerity avviata dal Governo Monti si è deciso infatti che fosse definito un budget puntuale destinato a operare un taglio orizzontale alle spese sanitarie in nome del riordino dei conti. Successivamente, nel 2015, con il decreto legge 78, è stata introdotta la definizione di tetti regionali e, appunto, il meccanismo del “pay back”, oltre che per la spesa farmaceutica, anche per dispostivi ospedalieri, a carico delle aziende fornitrici in caso di superamento del tetto di spesa regionale. La percentuale dello sforamento posta in carico alle aziende fornitrici è stata indicata nel 40% per l’anno 2015, nel 45% per il 2016 e nel 50% dal 2017.

Per effetto della già citata pubblicazione in Gazzetta, le aziende fornitrici delle strutture sanitarie pubbliche dovranno quindi versare dai 2,1 ai 3,7 miliardi di euro; una cifra che è iscritta nei bilanci delle Regioni e che le imprese hanno già dichiarato di non essere in grado di pagare, se non rischiando il fallimento e dunque sospendendo forniture essenziali. La norma, come accennato, era stata concepita per ridurre gli sforamenti di spesa da parte delle Regioni chiamando in causa le stesse aziende fornitrici; un’idea in realtà bizzarra perché destinata a produrre effetti nefasti consentendo, di fatto, di definire programmazioni approssimative e soprattutto di non dotare la sanità pubblica di una vera capacità di spesa coerente con un modello che si dichiara universalistico.

In estrema sintesi, i tagli di Monti si erano dimostrati ben poco sostenibili e quindi si erano posti tetti regionali, con la certezza di non rispettarli e pertanto con l’esigenza di dover ricorrere all’escamotage del “pay back”. Questo strumento è rimasto tuttavia inevaso a lungo per evitare scontri con le grandi case farmaceutiche e con le imprese produttrici ma la pubblicazione in Gazzetta, avvenuta nel settembre dell’anno appena trascorso, ha reso quell’onere vincolante per l’intera somma.

La legge di Bilancio appena approvata non contiene alcuna norma a riguardo, neppure in termini di rateizzazioni tanto care all’esecutivo di Giorgia Meloni e, di conseguenza, si rischia il disastro vero. Vale solo la pena ricordare che la Regione Toscana dovrebbe ricevere dalle imprese ben 618 milioni di euro. Una cifra enorme che minaccia la tenuta complessiva del sistema di prestazioni pubbliche. Norme pensate e scritte male e una politica sanitaria non concepita come una vera priorità stanno creando una situazione insostenibile, che pare orientata a favorire solo la privatizzazione. Continuano ad avere troppo spazio artifici ben poco efficaci come il “pay back” o come i molteplici maquillage dei bilanci regionali di cui stanno facendo drammaticamente le spese la qualità e l’estensione del servizio pubblico.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

5/1/2023 https://altreconomia.it

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