Perché il crack di Svb ci riguarda

Dopo la crisi del 2008 e la promessa di vincoli più stringenti alle speculazioni, una banca fallisce e rischia di generare un effetto valanga. È il simbolo della fragilità dei colossi digitali e dei loro rapporti con la finanza volatile

Quello della Silicon Valley Bank è il più grande fallimento di una banca dai tempi della crisi dei sub prime del 2008, quando la caduta di Lehmann Brothers segnò l’inizio di oltre un decennio di austerità. Al momento i governi rassicurano che non c’è da preoccuparsi e che la lezione del 2008 ha consentito di scongiurare le conseguenze nefaste di 15 anni fa. Ma c’è davvero da fidarsi?

Cosa è la Silicon Valley Bank?

Date le peculiarità del mondo finanziario californiano, può essere utile sapere un po’ di più sulla storia della Silicon Valley Bank, banca commerciale specializzata nel credito per le aziende hi-tech, sussidiaria del più grande e omonimo gruppo finanziario. Come per molte delle aziende californiane, anche la nascita della Silicon Valley Bank è avvolta nei miti tipici dell’ideologia californiana. La leggenda narra che negli anni Ottanta, durante una partita di poker, due ex manager della Bank of America (Bill Biggerstaff e Robert Medearis) ebbero l’intuizione di fondare una banca che potesse supportare il nascente mondo delle start up hi-tech che, in quel momento, trovava spesso chiusi i portoni dei vecchi e polverosi fondi finanziari americani. A sottolineare questo legame la scelta di nominare al vertice dell’organizzazione una figura, come quella di Roger Smith, primo presidente e Ceo della Silicon Valley Bank, che non proveniva dal mondo della finanza bensì da quello dell’hi-tech.

Tuttavia, i primi risultati non sono esaltanti. Agli albori degli anni Novanta la banca si presenta con i suoi introiti in perdita e Smith si vede costretto a varare un piano che preveda la diversificazione dei propri investimenti, il che voleva però dire perdere la propria vocazione originaria di banca specializzata per il mondo dell’hi-tech. Anche questa scelta, però, non porta i risultati attesi, con la banca che affronta cambi di vertice e perdite finanziarie per tutta la prima metà degli anni Novanta. A salvare il progetto è l’esplosione dell’economia digitale e la bolla del dot.com, che riverserà ingenti quantità di capitale nelle casse della Silicon Valley Bank. È a seguito di questa crescita di liquidità che si convince, nel 2002, a costituirsi come banca commerciale, aprendosi così anche ai depositi dei correntisti in tutto il paese. Così, nonostante l’esplosione delle bolle dot.com nei primi anni del 2000 e la crisi finanziaria del 2008, che pure ha visto la Silicon Valley Bank rientrare tra i beneficiari degli aiuti governativi, il suo legame con il mondo scalpitante dell’hi-tech gli consente non solo di evitare il peggio, ma di continuare a crescere. Fino a qualche giorno fa, infatti, la Silicon Valley Bank, con un valore complessivo stimato in circa 200 miliardi di dollari, era la 16esima banca più grande degli Stati uniti e la prima nello stato Californiano per numero di depositi, arrivando a finanziare quasi il 65% delle start-up presenti negli Usa.

Per quale motivo è fallita la Silicon Valley Bank?

Per comprendere le ragioni del fallimento della Silicon Valley Bank è necessario tornare con la mente ai giorni più drammatici della pandemia. Mentre il mondo affrontava le conseguenze del Covid-19, le imprese hi-tech hanno fatto registrare una crescita record dei propri introiti. La pandemia ha infatti rappresentato un vero e proprio business per molte delle aziende del digitale, con le piattaforme che sono rapidamente divenute onnipresenti nella nostra vita. Per lavorare, mangiare, consumare, comunicare con i nostri cari, persino per garantire il diritto allo studio siamo dovuti a ricorrere nei giorni del lockdown a molti dei servizi messi a disposizione dalle aziende californiane, incrementando a dismisura i loro guadagni. Questa crescita, tanto significativa quanto inaspettata dei profitti delle aziende hi-tech, ha quindi ingrossato a dismisura le casse della Silicon Valley Bank che si sono trovate a dover affrontare il difficile compito di gestire l’improvviso aumento di liquidità. Forse a causa del loro background legato all’hi-tech piuttosto che alla finanza, la scelta è stata quella di investire larga parte dei depositi in bond governativi, i quali, a causa dell’impatto della pandemia sulle dinamiche finanziarie, consentivano profitti a lungo termine più alti persino dei fondi a più alto rischio. In realtà, senza saperlo, la Silicon Valley Bank aveva già innescato un meccanismo dal quale era impossibile tornare indietro.

A rovinare la tranquillità dei piani della Silicon Valley Bank è la scelta della Federal Reserve americana – poi seguita anche dalle altre banche governative in tutto il mondo – di combattere la crescente inflazione innalzando i tassi di interesse che, negli Stati uniti, passano da quasi zero a oltre 4,5%. Secondo una ben nota regola finanziaria, l’innalzamento dei tassi di interesse corrisponde però a una svalutazione dei bond governativi. La scelta della Federal Reserve ha quindi determinato un crollo del portafoglio della Silicon Valley Bank che si trova così a dover contare le perdite dei propri investimenti. A questo punto decide di affrontare la situazione con un piano di emergenza che si rivelerà invece fatale. L’8 Marzo viene annunciata una crescita di capitale di 1,75 milioni di dollari, necessaria a far fronte alle perdite subite e a raggiungere la liquidità necessaria a garantire i creditori della banca. Il piano non incontra però la rinnovata fiducia dei creditori come atteso, ma al contrario in poco tempo si diffonde la notizia che la banca fosse short in capital, ossia priva della possibilità di coprire i depositi. La diffusione della notizia ha così finito per determinare una corsa allo sportello per ritirare i propri risparmi dalla banca: in meno di 48 ore i clienti della Silicon Valley Bank hanno ritirato 42 milioni di dollari dai loro depositi, lasciando alla Silicon Valley Bank un saldo negativo di oltre 950 milioni di dollari. A questo punto non resta altra scelta che dichiarare il fallimento.

I leader del mondo provano a rassicurare i mercati

Bisognava attendere l’indomani del fallimento della Silicon Valley Bank per tornare ad ascoltare messaggi univoci da parte dei leader mondiali. Joe Biden, Benjamin Nethanyahu, Narendra Modri, Rishi Sunak, Fumio Kishida, per citarne solo alcuni, hanno tutti sentito il bisogno di rassicurare i mercati dicendo che i rischi di una reazione a catena come quella a cui abbiamo assistito nel 2008 sono stati scongiurati grazie a normative più restrittive introdotte in questi anni. Altri analisti finanziari come Fariborsz Moshirian, professore a Sidney e direttore dell’istituto di finanzia globale, sottolineano le differenze tra la crisi del 2008 con oggetto i subprime e quanto avvenuto per la Silicon Valley Bank con i rendimenti dei bond governativi. In altri casi, invece, è stato puntato il dito nei confronti del management della Silicon Valley Bank, spiegando il fallimento come una mancanza di preparazione finanziaria e non come un bug di sistema. In ogni caso, il rischio che il sistema bancario subisca un crollo come quello che abbiamo conosciuto 15 anni fa sembra scongiurato. Ciò nonostante la scelta del governo americano è stata di non intervenire a salvataggio della banca, ma di limitanrsi alla sola garanzia dei depositi dei correntisti, così da lasciare intonse le tasche dei contribuenti. Per quanto sia da attendersi qualche ricaduta sul mondo dell’hi-tech, anche il rischio di una mancanza di accesso al credito per le start up del settore appare poco realistico al momento. Semmai, i problemi su quel fronte sono altri, come dimostrano le forti politiche di riduzione del personale avviate da Elon Musk e lo scarso successo ottenuto da progetti come il Metaversolanciato recentemente da Zuckerberg.

Eppure, anche nel 2008 nessuno vide arrivare la crisi. Anche in quel caso da parte dei leader mondiali, così come dagli analisti finanziari, furono diffusi messaggi rassicuranti nei confronti della capacità del sistema finanziario di contenere le conseguenze del crack di Lehmann Brothers. Certo, in questi 15 anni sono state effettivamente approvate normative più vincolanti nei confronti delle garanzie finanziarie offerte dalle banche, ma viene da chiedersi se sono sufficienti. Secondo quanto fatto notare da Branko Marcetic su Jacobin la risposta è semplice: no. Anzi, un ruolo non

marginale nella crisi del Silicon Valley Bank viene giocato anche dalla recente deregulation approvata da Donald Trump che ha rimosso molti dei vincoli che erano stati posti all’azione delle banche. Nonostante il cambio di colore alla Casa Bianca, potevamo però attenderci dichiarazioni diverse? Come diffondere messaggi di altro tipo senza che inneschino un panico finanziario simile a quello avvenuto 15 anni fa? Il dubbio rimane. 

Quel che è certo è che l’attenzione degli operatori finanziari resta alta, come testimonia il «lunedì nero» del 13 Marzo con tutti i mercati finanziari mondiali che chiudono in perdita, inclusa Piazza Affari che fa registrare a fine giornata un -4%, ossia il risultato peggiore in tutto il continente. Le preoccupazioni sembrano trovare origine nel fatto che non è chiaro quanti siano gli istituti di credito esposti a un rischio di svalutazione dei bond governativi simile a quello che ha travolto la Silicon Valley Bank. Sono poi previsti ulteriori rialzi dei tassi d’interesse da parte di molti dei governi occidentali, tra cui Ue, Uk, Usa, Australia, che continuano a essere travolti dall’inflazione nonostante le contromisure già prese in precedenza. Questo non può che peggiorare le cose, ma soprattutto ci dice che è impossibile prevedere se incrementi ulteriori possano arrivare a detonare una nuova bolla come quella del 2008. Quel che è certo è che il fallimento della Silicon Valley Bank ha mostrato ancora una volta i piedi di argilla su cui spesso camminano i giganti del capitalismo digitale. Il tempo ci dirà invece se la storia di questo fallimento sarà in grado di riaprire nuovamente gli scenari di un rischio finanziario globale.

Marco Marrone, ricercatore in sociologia presso il Center for Humanities and Social Change dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, è uno dei fondatori di Riders Union Bologna.

14/3/2023 https://jacobinitalia.it

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