Perché la riduzione della Tampon tax è una battaglia culturale per i diritti delle donne

Per secoli, se non millenni, con l’ingresso nella pubertà iniziava per le ragazze una vita di vergogna: ora hai le mestruazioni, sei una donna e quindi sei impura. Già Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia denunciava i pericoli di avere accanto una donna mestruata: vino inacidito, fiori appassiti, specchi appannati, api morte per non parlare poi del bronzo, arrugginito e puzzolente. Nella Bibbia, precisamente in Levitico 15, 19-31, si parla diffusamente dei motivi per cui le mestruazioni siano da associare a un periodo di impurità e si invitano gli uomini a stare lontani da coloro le quali siano in questa fase terribile del mese.

Le donne sono state lasciate sole, dall’alba dei tempi, a cercare di trovare una soluzione a una condizione che semplicemente esiste nella vita di ognuna per buona parte della sua esistenza. Millenni di pensiero religioso e una cultura guidata dagli uomini (ovviamente bianchi, ovviamente benestanti) hanno reso l’avere le mestruazioni un problema non solo sociale, ma anche economico. Si è parlato molto, di recente, della cosiddetta Tampon tax, cioè dell’Iva sui prodotti igienici femminili che in Italia (ma non solo) è pari a quella imposta sui beni di lusso, nel nostro caso pari al 22%. Inutili le proposte di abbassarla al 4%, cioè quanto viene applicato a beni di prima necessità (come il basilico): la Tampon tax è sempre lì, che costringe le donne a pagare di più per qualcosa che per loro è indispensabile.

La questione non riguarda soltanto i costi, seppure sia un lato da non trascurare: gli anglosassoni la chiamano period poverty, riferendosi in questo modo a tutte quelle donne che non possono permettersi di acquistare gli assorbenti igienici perché troppo costosi. Una situazione che spesso si riflette maggiormente sulle ragazzine, costrette a perdere giorni di scuola perché impossibilitate a lasciare casa loro. Succede nel lontano Bangladesh, ma anche nella vicinissima e sviluppatissima Gran Bretagna: secondo i dati di Plan international Uk, il 10% delle ragazze non può acquistare gli assorbenti igienici perché troppo cari.

Nel 2020 è semplicemente inaccettabile fa passare il pensiero che avere le mestruazioni sia qualcosa riservato alle ricche signore beneducate, che ovviamente non ne parlano se non sotto pseudonimo, chiamandole ad esempio «regole». Il “governo della discontinuità”, nella nostra Italia, ha provato a ingannarci inserendo nell’ultima legge di bilancio la riduzione dell’Iva al 5% sugli assorbenti biodegradabili. Inutile dire che sono più costosi degli altri e ovviamente meno diffusi. Così, mentre alcuni uomini della politica provavano a passare come eroi femministi, le donne continuano a doversi confrontare con una legge degli anni 70 che impone loro di affrontare le esigenze legate al ciclo mestruale come se fosse un lusso.

Un certo tipo di femminismo ha deciso di legare la questione della Tampon tax a quella del divario di genere nel reddito da lavoro. Il problema è molto più profondo di così. Gli uomini hanno sempre cercato di sfruttare il ciclo mestruale come l’ennesima arma contro le donne, che sarebbero instabili mentalmente e meno affidabili a causa degli sbalzi ormonali dovuti al ciclo. L’unica risposta possibile mi sembra il rifiuto che si narra fece la filosofa greca Ipazia lanciando un panno sporco del suo sangue mestruale a un pretendente particolarmente insistente con cui lei non voleva avere niente a che fare. Tutto questo accadeva prima che, nel Medioevo, fosse impedito alle donne di recarsi in Chiesa durante i giorni del ciclo o che si diffondessero le leggende terrificanti su cosa ti può accadere, ad esempio, se nuoti durante «quei giorni».

Con la generazione delle millennials qualcosa si sta muovendo più forte di prima. Le ragazze sono stanche di doversi vergognare di essere esseri umani di sesso femminile in età fertile. Le mestruazioni sono diventate un simbolo della lotta contro l’oppressione della cultura occidentale sulle donne. Ci si batte non per essere radical chic o risparmiare qualche euro (o dollaro) sugli assorbenti. Ci si batte per abolire la period poverty e per cancellare dalle schiene di tutte quel simbolo di ignominia color rosso sangue.

In un articolo del 2016, la giornalista americana Abigail Jones riconduceva al femminismo della terza ondata quello che nel suo articolo “The fight against period shaming is going mainstream” definisce «attivismo mestruale». Il 19 ottobre 2019, negli Stati Uniti è stato indetto il primo National period day, una mobilitazione a livello nazionale contro i 35 Stati in cui esiste ancora la Tampon tax.

Ma il minus che la cultura occidentale vuole attribuire all’essere donna non si ferma al ciclo mestruale. Non potendo più rinchiuderle in casa accanto al focolare, i misogini del XXI secolo hanno escogitato sistemi più subdoli per farla letteralmente pagare alle donne: sarà mica un caso che i rasoi da donna costano sempre di più di quelli da uomo? Inutile dire che nel primo caso vengono considerati superflui, mentre nel secondo beni necessari. Non c’è nulla di male nel considerare una necessità maschile quella di farsi la barba tutti i giorni, infatti i rasoi hanno l’Iva al 4%. Radersi conviene, avere le mestruazioni no.

Alessia Gasparini

20/1/2020 left.it

 

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