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Altra Informazione, Blog, Comitati di Lotta, Cronache di Lavoro, Cronache Politiche, Cronache Sindacali, Cronache Sinistra Europea, Cronache Sociali, Culture, Editoria Libera, Politiche di Rifondazione, sanità e salute, Storia e Lotte — Dicembre 11, 2020 12:08 pm

Tra i contagiati si contano oltre 75.000 operatori sanitari e quasi 300 morti di cui 221 medici. Un numero eccessivo! L’alto numero di sanitari deceduti, infettati, ricoverati, molto spesso perché privi dei necessari dispositivi di protezione, è la palese dimostrazione che pochissimo è stato fatto per fermare questa mattanza, benché sia noto che, per evitare la diffusione di qualsiasi virus, è fondamentale proteggere il capitale umano rappresentato dagli Operatori Sanitari.

Perché tanti morti e perché il Covid non è stato una livella

Pubblicato da franco.cilenti
Foto: dalle immagini artistiche di Burri nate dal terremoto a Gibellina  per raccontare gli effetti del terremoto Covid a livello sociale e politico.

Il 3 dicembre sono stati segnalati 993 morti in un giorno, mai così tanti dall’inizio dell’emergenza coronavirus superando così anche i picchi dei giorni terribili dello scorso marzo. Eppure il virus Sars-2 Cov-2, pur essendo molto contagioso, presenta una letalità (numero morti su numero contagiati) relativamente bassa. In generale, infatti, il 60-70% dei soggetti colpiti resta asintomatico, il 25% presenta sintomi lievi, moderati o gravi e solo il 5% viene ricoverato in TI (terapia intensiva). I morti si mantengono tra il 2-3%. Questo purché i pazienti vengano trattati all’insorgere dei primi sintomi a domicilio.

Dall’inizio della pandemia e fino alla data odierna (08/12/2020) in totale in Italia si sono registrati 1.757.099 casi e 61.240 morti. I dati di mortalità ci pongono al 5° posto nel mondo. Il rapporto tra il numero dei contagi e quello dei morti è molto più alto in Italia rispetto ad altri Paesi dell’Unione, e, in proporzione alla popolazione, da noi la mortalità per Covid è stata più alta che in Russia (2,4 milioni di casi e 41.200 morti), India (9,6 milioni di casi e 139.000 morti) e Stati Uniti (14,1 milioni di casi e 276.300 morti). In base al rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità il 40% dei decessi si è verificato in Lombardia, e a seguire in Emilia Romagna, Piemonte, Veneto, Lazio. Età media della morte 80 anni, solo il 3% senza altre patologie e solo l’1% morto prima dei 50 anni. Si ritiene peraltro, che Il numero totale dei morti (e dei contagi), sia ben più alto, poiché nel primo periodo, quando al Nord la diffusione dell’epidemia esplose senza controllo, moltissimi morirono a casa o nelle RSA sfuggendo alla conta totale.

Tra i contagiati si contano oltre 75.000 operatori sanitari e quasi 300 morti di cui 221 medici. Un numero eccessivo! L’alto numero di sanitari deceduti, infettati, ricoverati, molto spesso perché privi dei necessari dispositivi di protezione, è la palese dimostrazione che pochissimo è stato fatto per fermare questa mattanza, benché sia noto che, per evitare la diffusione di qualsiasi virus, è fondamentale proteggere il capitale umano rappresentato  dagli Operatori Sanitari.

Alcuni giustificano tanti morti in Italia con l’età media elevata e con l’alto il numero dei malati cronici: ma l’essere un paese più “vecchio” rispetto ad altri non può spiegare questa differenza in termini di decessi. Allora perché tanti morti?

Il perché viene da lontano. Da quando, 30 e più anni fa, l’Italia si avviò sulla strada del liberismo spinto. Da allora la Sanità, (come gli altri servizi pubblici), è stata sottoposta a tagli lineari (senza alcun tentativo di riorganizzazione e razionalizzazione) che hanno colpito operatori, strutture, servizi, strumentazione. Di pari passo allo smantellamento del diritto alla salute veniva smantellato il diritto al lavoro, anche nelle strutture sanitarie, con blocco delle assunzioni e introduzione di contratti a termine. Tutti i governi e tutte le regioni si sono accaniti sul personale e sul territorio. E mentre si tagliava nel pubblico si ampliava il privato.

– Il personale, che rappresenta la maggior voce di spesa tagliata corrisponde al 50% dei 37 miliardi rubati alla sanità pubblica dal 2010 al 2017. I tagli hanno provocato la perdita di oltre 8000 medici specialisti, mentre più della metà di quelli in servizio ha un’età superiore ai 55 anni e si stima (dati ANAO) che entro il 2023, si perderanno circa 70 mila dirigenti, sugli attuali 100.500, tra medici e altri. Le cose vanno anche peggio sul fronte degli infermieri, dove si stimano  385.000 occupati, almeno 50.000 unità in meno rispetto al fabbisogno, con una media di 5,6 per 1000 abitanti contro il 12,8 della Germania e l’8,5 dell’UE. Le specialità più colpite dai tagli di personale sono: pronto soccorso, medicina d’urgenza, anestesia e rianimazione, medicina generale e prevenzione. Tutte professionalità che non si possono certo formare d’incanto ma dopo anni di lavoro e formazione.

– Quindi si è colpita l’assistenza territoriale diffusa, quella cioè che dovrebbe fornire almeno il 50% circa delle prestazioni sanitarie erogate complessivamente alla popolazione, come prevenzione, diagnosi precoce, assistenza di base e cura delle malattie croniche, che hanno un ruolo aggravante nella malattia da Covid-19. Lo smantellamento dei servizi territoriali è andato di pari passo con gli accorpamenti delle ASL passate da 642 a 101.

– L’altro elemento che ha devastato la Sanità Pubblica è stata la privatizzazione, il cui esempio più eclatante è rappresentato dalla Lombardia dove Formigoni, a partire dal 1995, ha favorito il privato che è entrato prepotentemente nel Servizio Sanitario Regionale, formalmente per cooperare alla pari con le strutture pubbliche, nei fatti per esserne foraggiato, riservando per sé i settori più remunerativi della sanità e dell’assistenza, quali, ad esempio, i reparti di alta specializzazione e le Residenze Socio Assistenziali, e lasciando al  pubblico la gestione dei settori meno redditizi come i servizi di pronto soccorso, di emergenza urgenza e la psichiatria. Lo stesso pubblico, dove sono stati tagliati migliaia di posti letto a favore delle strutture private accreditate, è improntato a criteri privatistici di gestione. Il suo esempio è stato poi seguito da altre regioni, pur senza arrivare allo stravolgimento operato in Lombardia.

– Alla fine, ad essere colpita è stata la stessa cultura della prevenzione e della Sanità Pubblica per cui, quando il virus è arrivato, inaspettato, nonostante gli allarmi che da almeno 20 anni ne segnalavano l’arrivo, ha trovato un paese totalmente impreparato sia sul piano culturale che strutturale e tecnico.

Questa la situazione della sanità pubblica, quando è arrivata la pandemia. Nel corso della prima ondata I servizi territoriali, sguarniti di presidi e risorse non sono stati in grado di cogliere i primi contagi ed intervenire immediatamente. I medici di base, che sono il perno del territorio, lasciati soli e senza dispositivi di sicurezza, si sono infettati, diventando essi stessi agenti infettivi, prima di morire. D’altronde, meno di un anno fa Giorgetti, n°2 della Lega e sottosegretario del Governo, aveva dichiarato che ormai i medici di base non servivano più. I malati, privi di risposta nel territorio, si sono riversati sugli ospedali anch’essi impreparati ad accogliere l’ondata di ricoveri, giacché posti letto, risorse umane e strumentali erano state falcidiate negli ultimi anni.

Mancando completamente i dispositivi di protezione medici e infermieri, in ospedale e nel territorio, sono stati mandati allo sbaraglio, senza protezione, provocando essi stessi la diffusione del contagio e di numerosissimi focolai: questo, che non avrebbe dovuto mai accadere e ha contribuito moltissimo alla rapida diffusione dell’epidemia, resterò per sempre un marchio sulla sanità italiana.

Nonostante quanto accaduto durante la prima ondata, la gestione nella seconda non è andata meglio e i morti sono tornati a crescere, perché, in sette mesi, nonostante appelli e promesse, non sono stati assunti i provvedimenti più necessari in caso di ripresa epidemica. Tra questi: il piano di tamponamento/tracciamento, il rifornimento del materiale necessario per processare i tamponi, l’individuazione di laboratori idonei da convenzionare o requisire in caso estremo, l’assunzione di personale sanitario e di operatori per il tracciamento, il rafforzamento dei territori, l’ampliamento delle postazioni di terapia intensiva, i doppi percorsi per pazienti normali e pazienti Covid.

Tutti interventi cui avrebbero dovuto essere realizzato dalle Regioni, che dal 2001 hanno acquisito le competenze per farlo, mentre il governo avrebbe dovuto monitorare attentamente che i provvedimenti fossero assunti. Quasi nulla è stato fatto. Anzi, “i governatori” hanno speso solo una parte degli 8 miliardi stanziati dal governo. E il governo non ha monitorato. Eppure la seconda ondata non si è manifestata in modo impetuoso come la prima. C’era quindi il tempo per intervenire.

In particolare non è stato organizzato il piano di tracciamento, che avrebbe consentito di tracciare i contatti dei casi in modo completo e sistematico, tenendo così sotto controllo la diffusione del virus. Perché non si è agito? E’ impensabile che i governanti e i loro consiglieri scientifici non avessero imparato e assimilato gli avvertimenti e gli insegnamenti venuti dall’esperienza precedente e da quei paesi che, essendo intervenuti per tempo, erano riusciti a superare la pandemia senza grossi scossoni; quindi, l’unica spiegazione è che non ci fosse la volontà di fare.

E’ mancata cioè la volontà di investire sull’assunzione e formazione di personale (tanto che ben 25.000 medici specialisti sono in panchina ad attendere l’esito di un concorso più volte rinviato e bloccato per l’incapacità dei funzionari ministeriali), di acquisire materiale e attrezzature, di predisporre  laboratori, di organizzare in numero sufficiente le USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale, composte da medico e infermiere/a, come  previste dalle norme ministeriali.

Nel momento in cui l’epidemia è esplosa con migliaia di casi al giorno e centinaia di morti, il tracciamento è saltato, il contagio è dilagato e di nuovo si è manifestata la debolezza dei territori, questa volta anche al Sud.

Tutti hanno sperimentato lo stato di confusione e disinformazione presente nei territori, perché tutti abbiamo avuto parenti o amici coinvolti. Si sono viste persone che dovendo fare il tampone si muovevano in base al “sentito dire”, sperando di incappare nella struttura giusta. Altre, essendo già sofferenti, aspettavano a casa che arrivasse l’USCA o, chi se lo poteva permettere, un operatore privato, pagando, per un tampone molecolare anche 200 euro, mentre i medici di base erano impossibilitati a seguire tutti i propri pazienti. Molte persone delle classi meno abbienti e meno acculturate, non riuscendo a trovare una risposta nel pubblico e non avendo la possibilità di rivolgersi al privato, essendo rimaste a lungo senza diagnosi e senza cura, soprattutto se affette da altre patologie croniche si sono aggravate e sono state ricoverate o sono decedute. Quindi sono di nuovo andati in crisi gli ospedali e le TI che, in moltissime regioni, hanno di nuovo superato gli indici di saturazione che riservavano ai malati Covid rispettivamente il 40% e il 30% dei letti.

In questa seconda fase si è compreso più chiaramente che le malattie croniche, aggravate dalla precarietà delle condizioni economiche e sociali, favoriscono la diffusione e la patogenicità del Cioè, se virus  aumentando la mortalità.  Questo è stato messo in luce in modo magistrale da Richard Horton, direttore della prestigiosa rivista medica Lancet, che scrive: “Sono due le malattie che interagiscono all’interno di popolazioni specifiche: la sindrome respiratoria acuta grave da coronavirus 2 (Sars-CoV-2) e una serie di malattie croniche. Queste condizioni s’inseriscono all’interno gruppi sociali, caratterizzati da disuguaglianze profondamente radicate nelle nostre società. L’incontro di queste malattie, in presenza di disparità sociali ed economiche, esacerba gli effetti negativi di ogni singola malattia, producendo una sindemia”.

Quindi la Covid-19 deve essere considerata una pandemia/sindemia, in cui la malattia da Covid si incontra con una o più malattie croniche preesistenti. Ciò significa che nelle categorie più vulnerabili, che sono anche le più numerose, come – persone anziane, minoranze, lavoratori precari, sommersi e con meno protezioni sociali, chi vive in case e comunità molto affollate, persone con malattie croniche – la soluzione puramente medica al Covid-19 fallisce. In tutti questi casi, che sono la maggioranza, l’interazione tra la malattia epidemica come Sars-Cov-2 con le altre condizioni patologiche e sociali, aumenta la suscettibilità della persona alla nuova malattia. Quindi, nessuna epidemia può essere affrontata con successo se non si eliminano i fattori di debolezza economica e sociale che indeboliscono le fasce sociali più deboli.

E poiché l’Italia è caratterizzata da enormi disuguaglianze, accentuatesi negli ultimi 20 anni, e da grandi povertà, l’interazione tra gli effetti causati dalla inefficienza dello stato e delle regioni e i determinanti economico-sociali responsabili della salute delle persone ha agito potenziando le difficoltà di cura e causando un numero di decessi superiori a quelli aspettati. Similmente a quanto accaduto e ancora in corso nei paesi poveri del Sud del mondo e nelle periferie americane, anche in Italia, la pandemia ha colpito soprattutto le categorie più svantaggiate causando una più elevata mortalità.

Per concludere, i tanti morti che si sono verificati i Italia, sono fondamentalmente da imputare a:

  1. Mancanza/Insufficienza di strutture e presidi fissi o mobili (USCA) nei territori che unitamente alla mancanza di personale hanno impedito diagnosi rapide e cura/assistenza domiciliare dei pazienti, che sono stati lasciati in situazioni di abbandono o che, troppo tardi, sono stati portati in ospedale.
  2. Impossibilità, per carenza di risorse, di attuare un piano di tracciamento applicato in modo omogeneo ed uniforme su tutti i territori.
  3. Mancanza di un raccordo tra istituzioni governative regionali e centrali che ha portato a scelte discordanti e diverse per ogni regione, rallentando decisioni e interventi.
  4. Povertà, disuguaglianze e mancanza di prevenzione, nei ghetti e nelle periferie delle grandi città e al Sud, per cui il virus ha colpito persone spesso affette da malattie croniche preesistenti e spesso mai curate, potenziandone l’azione patologica.

A questo punto si imporrebbe un ripensamento da parte di tutti, a partire dai decisori politici, per la ricostruzione del paese, la eliminazione delle disuguaglianze,  la messa in sicurezza della popolazione rispetto all’attuale pandemia e a quelle future. In molte e molti avevamo sperato che il virus avesse messo in chiaro che non si può essere sani in un paese malato, come diceva Papa Francesco, ma ci siamo dovuti ricredere di fronte alla protervia di ‘un ceto possidente irresponsabile e avaro”, pronto ad alzare barricate alla sola parola “tassa patrimoniale” e a rivendicare tutto per se’, come dice Marco Revelli. Purtroppo, ancora una volta, abbiamo dovuto constatare, vedendo l’inerzia e l’ignavia di questa classe politica di fronte alla seconda ondata dell’epidemia, che essa tutta, senza differenze di appartenenza, è prona, inesorabilmente, al volere dei confindustriali, dell’economia e dei ricchi.

Ed infatti, sono notizie recenti, alla sanità nel piano spese appena predisposto, vanno solo 9 miliardi, mentre il Ministro della Salute, nel suo piano, semisconosciuto,  ne aveva previsti almeno 65.

Una presa in giro per noi tutti e per quelli che sono morti.

Loretta Mussi

9/12/2020 https://transform-italia.it

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