Poteva andare diversamente? Alcune ipotesi di risposta

Sapevamo tanto, ma non abbiamo fatto nulla. Se c’è una cosa di cui siamo certi rispetto alla Covid-19 è che non si tratta affatto di un “cigno nero” ma di un fenomeno che, quantomeno nei suoi aspetti generali, era stato ampiamente previsto e per il quale ci si stava anche in una certa misura preparando a livello mondiale. Il libro Spillover del divulgatore scientifico statunitense David Quammen, che aveva raccontato i possibili scenari della “evoluzione virologica”, è tornato alla ribalta con le interviste all’autore che si sono succedute fra svariati programmi e testate, da “Report” al “Manifesto”. In molti, poi, hanno provato a chiedersi come mai il “Piano di prevenzione per le pandemie” di cui l’Italia si è munita in seguito alla diffusione della Sars non sia stato neanche consultato e se davvero avrebbe potuto avere una sua utilità.

In generale, è comunque interessante sapere che l’Oms aveva ormai da tempo certificato, attraverso numerosi report dossier conferenze, che «la questione non era se una pandemia mondiale sarebbe arrivata, ma quando».

Tanto che a marzo di un anno fa era anche stato avviato un processo di preparazione globale che, nelle intenzioni originarie, avrebbe dovuto porre ogni area e nazione del mondo in condizione di “ridurre al minimo” l’impatto di un fenomeno come quello che stiamo affrontando in questi giorni.

Ma, restringendo il campo di attenzione al contesto italiano o europeo, più concretamente è anche come se si fosse fatto finta di non vedere ciò che stava succedendo in Cina nelle settimane di poco precedenti allo scoppio dell’epidemia sul nostro territorio. Non solo si è creduto, anche sulla base delle esperienze precedenti dell’Aviaria e della Sars che in effetti non avevano prodotto conseguenze così “rilevanti”, che il virus della Covid-19 difficilmente sarebbe potuto giungere in Europa, ma nel periodo che è stato definito “finestra di opportunità”, da quando cioè l’Oms ha dichiarato la pandemia e l’Italia ha di conseguenza messo in atto lo Stato di Emergenza il 31 gennaio, davvero poche misure paiono essere state messe in atto per prepararsi a un’eventuale diffusione del contagio.

In altre parole, viene da chiedersi – come fa Ian Johnson in un editoriale per il “New York Times” – «perché così tanti paesi sono rimasti a osservare l’epidemia svilupparsi come se la cosa non li riguardasse in alcun modo?».

Si tratta, evidentemente, di una domanda la cui legittimità varia da contesto a contesto (sappiamo che alcune nazioni hanno certamente adottato più di altre e più tempestivamente delle misure di precauzione) e la cui risposta non può certo essere univoca. Si tratta, inoltre, di una sorta di “questione-mosaico” che ne evoca e ne chiama in causa tante altre e che andrebbe dunque affrontata su una molteplicità di piani e livelli, che intersecano i discorsi e le prospettive di svariate discipline. È un problema di consapevolezza scientifica oppure di inazione politica? Ci sono state carenze nella comunicazione giornalistica oppure ci si è trovati a far fronte a insufficienze croniche interne ai sistemi sanitari? La Covid-19 – che è stata brillantemente definita un “soggetto imprevisto” – sta mettendo in discussione il nostro modo di (con)vivere e produrre, forse e in un certo senso anche il nostro modo di pensare. Provare a chiedersi, come nella più classica e retorica questione del senno di poi, se “sarebbe potuta andare diversamente” significa allora cercare indicazioni per il futuro, ravvisare negli “errori” commessi, ancorché inevitabili, delle ipotesi di cambiamento.

Il paziente perfetto

«Partiamo dalla constatazione che quello della salute è un ottimo mercato in tutto il mondo e che la medicina è al centro di svariati interessi di diversa natura», afferma Enzo Ferrara, ricercatore presso l’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica – INRiM di Torino, vice presidente del Centro Studi Sereno Regis e responsabile editoriale di Medicina Democratica. «Era una questione già chiara fin dai tempi di Plinio il Vecchio, che non a caso diceva: lues morum, nec aliunde maior quam e medicina, “la medicina è fra le maggiori cause di corruzione”. Allo stesso modo, oggi, sappiamo benissimo come le affermazioni di studiosi e ricercatori possano smuovere grandi somme di capitali e orientare la volontà politica dei singoli stati e di istituzioni internazionali. C’è dunque una correlazione piuttosto stretta fra salute e profitto, per cui la ricerca del secondo va a influenzare la maniera in cui concepiamo la prima.

Detto ciò, può essere interessante andare a vedere quanti studiosi hanno ricevuto il premio Nobel per la medicina dall’anno della sua istituzione a oggi per scoperte effettuate nell’ambito delle lotte alle “malattie epidemiche”. Sono 26 (considerando anche gli studi compiuti sulla malaria) e, dopo che dall’inizio del secolo scorso hanno seguito una sorta di “cadenza” più o meno di un’assegnazione ogni lustro, da un certo punto in poi la frequenza inizia ad assottigliarsi. È il segno di una crisi, di un cedimento nel rapporto fra tutele dello stato e diritto alla salute.

Il punto, infatti, è che la difesa della salute pubblica rappresenta uno dei fondamenti dello stato-nazione: la cessione di potere da parte della popolazione all’autorità costituita avviene anche perché c’è la promessa di un ritorno in termini di aumento del livello di igiene, educazione e sanità per tutti.

Beninteso, si tratta anche di un interesse economico anche da parte dello stato: i lavoratori devono essere in salute altrimenti non producono. È questo il senso, per esempio, del censimento effettuato in Irlanda nel 1851, dopo la Grande Carestia fra il 1845 e il 1849, in cui per la prima volta vennero raccolti, oltre alle informazioni su proprietà e beni, anche dati relativi alle condizioni di sanità fisica e di educazione dei cittadini.

Ora, negli ultimi tempi un tale intreccio è andato deteriorandosi per vari motivi. Intanto, la dimensione dello spazio in cui viviamo è andata modificandosi notevolmente: data l’entità e la velocità dei nostri spostamenti, il problema della difesa della salute collettiva travalica i confini dello stato-nazione; in più, il nostro modo di produrre e il nostro rapporto di sfruttamento della terra aumentano il rischio di sviluppo e diffusione di nuove patologie; infine, c’è stato un netto spostamento di risorse e attenzione mediche verso il lato della cura, che è più remunerativo, a scapito di quello della prevenzione, con il conseguente scollamento fra visione scientifica e visione politica della medicina, a favore della seconda. Non dimentichiamoci che, dal punto di vista del profitto, il “paziente perfetto” è quello che non muore ma che nemmeno è sano, dunque quello che resta ammalato più a lungo (e che possibilmente è ricco). Si discute molto dei numeri di posti letto negli ospedali e dei posti di terapia intensiva, ma il problema è che è l’ospedalizzazione in sé a non essere più sostenibile. Abbiamo completamente perso di vista il processo di eziopatogenesi, la ricerca cioè delle cause su cui poter esercitare un tipo di prevenzione primaria e collettiva, dunque sociale, per concentrarci invece su modalità di prevenzione secondaria (screening, controlli) e terziaria (cure palliative di vario tipo). Abbiamo identificato il “grande colpevole” per la diffusione di Covid-19 nei wet market cinesi ma non dimentichiamoci che, molto banalmente, le persone tendono ad essere meno esposte agli agenti patogeni e ad ammalarsi meno innanzitutto quando hanno cibo a sufficienza e vivono in condizioni dignitose».

Un sistema ospedale-centrico

«Il paradosso è che, nel 1978, in Italia c’è stata una delle migliori riforme sanitarie al mondo, eppure abbiamo completamente perso qualsiasi cultura di sanità pubblica», integra il medico del lavoro e attivista Vittorio Agnoletto, in questi giorni d’emergenza impegnato quasi quotidianamente anche a commentare e analizzare l’evolversi dell’epidemia di Covid-19 nella regione Lombardia. «Nel momento in cui la malattia si è diffusa in Cina e poi da quando l’Oms ha dichiarato la pandemia globale fino ai primi casi rilevati a Codogno si era aperta una “finestra di opportunità” per prevenire il collasso della sanità che non è stato in alcun modo sfruttata. L’assenza di risposta da parte delle istituzioni è stata impressionante. Per provare a contenere il problema, sarebbe bastato provvedere a delle operazioni molto semplici, quasi banali: istituire innanzitutto un numero verde dedicata esclusivamente alla Covid-19, di modo da evitare intasamenti e ritardi nella trattazione dei casi di natura differente; si sarebbe poi dovuto reperire e rendere disponibile agli operatori sanitari gli ormai famosi dispositivi di protezione individuale, che invece sono venuti a mancare per buona parte dell’emergenza; istruire infine il personale sulle misure di precauzione da prendere in particolar modo nei pronto soccorso, con semplici prassi di trattamento (le “misure di precauzione universale”) che l’Oms ha codificato già dalla fine degli anni ‘80 con la lotta all’Aids.

Ma, appunto, è venuta a mancare una cultura diffusa di sanità pubblica. Inoltre, soprattutto in Lombardia, l’avanzamento del privato e lo smantellamento della medicina territoriale hanno fatto sì che davvero non fosse presente alcun argine alla diffusione del virus.

I presidi sul territorio erano necessari per individuare con maggiore tempestività i casi positivi alla Covid-19 e offrire delle terapie di supporto che avrebbero evitato di intasare gli ospedali. Ma il maggior nemico del privato è la prevenzione, perché non genera profitto. Si investe in settori dedicati alla cura dei malati cronici, alla cardiologia, etc. per tagliare invece alla medicina d’emergenza, come i pronto soccorso e il risultato è un sistema sanitario decisamente “ospedale-centrico”, certamente preparato a realizzare interventi di stampo curativo ad alto grado di specializzazione attraverso l’impiego di tecnologia di alto livello ma che rischia di rivelarsi il miglior alleato per il propagarsi di un’epidemia. Non è un caso che, secondo le stime dell’Ocse, l’Italia è ai primi posti per quanto riguarda il tasso di malattie nosocomiali».

Verso una cultura del rischio

«Si tratta, in effetti, di un allarme disatteso più che di un evento inatteso», rincara il saggista e comunicatore della scienza Giancarlo Sturloni, che si occupa a vari livelli di gestione e comunicazione del rischio. «Lo ha ammesso anche Ricciardi al New York Times: sarebbe stato necessario attuare il lockdown almeno 10 giorni prima. Dieci giorni in un’emergenza pandemica possono fare la differenza. Il punto è che si trattava sì di un evento previsto e in qualche modo atteso, ma solo da una ristretta comunità di esperti. A meno che non si sia subita una grave epidemia in tempi recenti è difficile mantenere viva una memoria di contingenze simili e, dunque, costruire una “cultura del rischio” che possa tornare utile nell’affrontarle. Eppure, è proprio questa la sfida a cui ci troviamo di fronte. La nostra storia evolutiva ci ha portato a sviluppare la capacità di fronteggiare rischi soprattutto sul breve periodo e senza tener conto di tutta una serie di dinamiche complesse che sono invece proprie delle società contemporanee. Viviamo però in un mondo mutato e da almeno due secoli a questa parte abbiamo sviluppato anche la capacità di prefigurare dei rischi sul medio e lungo termine, coi quali però non sappiamo bene come relazionarci.

Perciò occorre uno sforzo ulteriore. Quando parliamo di rischio parliamo innanzitutto di incertezza e questo impone di applicare un principio precauzionale che in Italia è stato sottovalutato o seguito in maniera scomposta.

Sia ben chiaro: è il virus che “conduce le danze”, ma esistono protocolli e linee guida a cui aggrapparsi per gestire l’incertezza durante un’emergenza. Queste linee guida e questi protocolli indicano chiaramente che bisogna innanzitutto ragionare per “scenari” e prepararsi ad affrontare anche quello più grave. Si poteva, per esempio, istituire un’unità di crisi prima che l’epidemia si propagasse, non dopo. Ma soprattutto non bisogna mai sminuire un rischio e fornire informazioni contraddittorie alla popolazione. Invece, a fine febbraio c’è stato pure un momento in cui la percezione del rischio è addirittura diminuita a causa di una campagna di rassicurazione basata su slogan come #Milanononsiferma e simili. È ovvio che così è stato lanciato un messaggio sbagliato e confondente, quando al contrario occorreva comunicare alla popolazione in che modo agire per proteggersi dal contagio. Ci siamo fatti trovare decisamente impreparati, ma possiamo considerare l’esperienza che stiamo attraversando come un’occasione per costruire una maggiore consapevolezza e una maggiore capacità di reazione alle minacce pandemiche. Anzi, non abbiamo altra scelta».

Alessandro Brusa

28/4/2020 https://www.dinamopress.it

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