Prima i veneti? No, prima i ricchi

L’estate degli assegnatari di case popolari in Veneto è stata più calda del solito, e non per colpa del meteo. I primi di luglio sono state notificate le modifiche al contratto di locazione ai sensi della legge regionale 39 del 2017 e per circa il 77% degli inquilini ciò ha significato un aumento del canone. Amento che mediamente si aggira sul 20-30% ma che in non pochi casi – in particolare per gli anziani soli – ha raggiunto anche punte del 200%. 4.194 famiglie hanno ricevuto inoltre comunicazione dell’avvio della procedura di decadenza dell’assegnazione per sforamento della soglia di accesso che è passata da 22.380 euro di reddito a 20.000 euro di valore Isee-Erp (che contiene anche il patrimonio). Ancora una volta, a parte pochi casi eclatanti, si tratta per lo più di famiglie e soprattutto anziani che sforano di poco un limite francamente inaccettabile, visto che in genere si tratta di patrimoni frutto dei risparmi dei redditi da lavoro – come il tfr – e non di ricchezze evase o di rendite. Tutti gli assegnatari hanno poi visto la trasformazione del contratto da tempo indeterminato (ovviamente fatta salva la permanenza dei criteri per l’assegnazione) a termine: 5 anni più 5 senza certezze sugli ulteriori rinnovi.

«Prima gli italiani!», «Prima i veneti!». Sono questi gli slogan sbandierati costantemente dalla Lega di Salvini che si accompagnano a una retorica incentrata sul riscatto su base nazionale dei più poveri – lavoratori, disoccupati, pensionati che siano. Come a livello nazionale così anche in Veneto però, al netto di provvedimenti palesemente discriminatori e vessatori nei confronti dei migranti, non abbiamo visto uno straccio di politiche redistributive o a vantaggio di lavoratori e lavoratrici.

La legge regionale sull’edilizia residenziale pubblica rappresenta bene questo imbroglio. Il Presidente della Giunta Regionale Luca Zaia parla esplicitamente di un provvedimento che porterà più giustizia sociale in un mondo di «furbetti» che vorrebbero campare a vita sulle spalle di tanti cittadini che si sobbarcano un affitto nel mercato privato, mentre sottraggono alloggi a circa 14 mila nuclei familiari in graduatoria. Una mistificazione della realtà che evita scientemente di ricordare che quello all’abitazione è un diritto sociale collocabile fra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 della Costituzione, come sancito dalla Corte Costituzionale – in particolare nelle sentenze numero 49 del 1987, numero 217 e numero 404 del 1988 – che tra l’altro ha evidenziato come tra i «compiti cui lo Stato non può abdicare in nessun caso», al fine di «creare le condizioni minime di uno Stato sociale», rientra quello di «concorrere a garantire al maggior numero di cittadini possibile un fondamentale diritto sociale, quale quello all’abitazione».

Mentre in Italia solo il 4% dell’edilizia residenziale è pubblica e secondo Eurostat circa un terzo delle persone vive in famiglie che spendono il 40% o più del reddito disponibile equivalente per l’abitazione, Zaia ritiene che «chi può permettersi una casa a prezzi di mercato deve liberare l’alloggio lasciandolo a chi versa davvero in stato di bisogno». La logica alla base di questa legge è semplice: poche persone, solo quelle più ai margini, potranno beneficiare di un alloggio a canone relativamente basso e comunque a termine, per i restanti alloggi gli affitti dovranno avvicinarsi a quelli di mercato, perché la normalità deve essere il mercato privato. Ma quanto può arrivare a incidere l’affitto o un mutuo sul reddito di una famiglia o di un singolo per essere sopportabile? Chi sostiene Zaia con questa legge, i lavoratori, i disoccupati, i pensionati o la rendita e le banche? La casa è una merce qualsiasi o è un diritto fondamentale al «pieno sviluppo della persona umana»? Il risparmio è una colpa o un comportamento da incoraggiare e tutelare come prescrive la Costituzione?

Questa legge regionale è una patrimoniale sui poveri: un’operazione che vorrebbe scaricare sugli assegnatari la sostenibilità del sistema dell’edilizia residenziale pubblica e sterilizzare i meccanismi di solidarietà generale e la logica redistributiva. L’impianto politico della legge è l’esatto opposto di quello di cui avremmo bisogno, ossia una grande opera di investimento in manutenzione e riqualificazione anche energetica degli alloggi, oltreché una cura costante degli spazi comuni, degli impianti e dei sottoservizi. E ovviamente servirebbe un piano strategico di acquisizione di nuovo patrimonio pubblico, senza ulteriore cementificazione ma a partire dagli immobili degli enti pubblici e da quelli privati oggetto di vendite giudiziarie, che così sarebbero sottratti alla rendita e alla speculazione.

Certo, si dovrebbe mettere mano alla spesa pubblica, invertendo un trend che secondo l’Ocse vede l’Italia agli ultimi posti in termini di investimenti sulla casa. Ma se la Regione Veneto trova miliardi per il Mose, la Pedemontana e ora le Olimpiadi invernali dovremmo pretendere, quanto meno, che i soldi ci siano anche per l’edilizia residenziale pubblica.

La mobilitazione

La comunicazione unilaterale delle modifiche del contratto di locazione ha gettato nel panico migliaia di famiglie, ma ha anche visto un’immediata e significativa mobilitazione degli assegnatari come non si vedeva da tempo, e che non ha lasciato indifferente nemmeno la regione.

La gran parte degli inquilini delle case popolari, nonostante l’affiliazione, ha rifiutato la proposta del sindacato degli inquilini Sunia di chiedere alla regione tavoli tecnici per l’introduzione «di correttivi al nuovo regolamento e tutele per gli assegnatari in situazioni di maggiore disagio, tra cui gli anziani» ritenendo necessaria una mobilitazione pubblica e ampia per chiedere l’abrogazione della legge.

Alcune organizzazioni sindacali e politiche, in particolare Adl Cobas, Rifondazione Comunista, Sportello Meticcio e Asc Venezia, già attive sul terreno del diritto alla casa e presenti con sportelli sociali nei quartieri popolari, sono riuscite a intercettare l’indignazione e l’ampia disponibilità alla lotta organizzando assemblee nei quartieri e nei complessi di case Ater non solo nei capoluoghi ma anche in provincia. Assemblee partecipate da cui è emersa la volontà non solo di continuare le mobilitazioni provinciali sotto le sedi dell’agenzia, ma anche di costruire un coordinamento regionale degli assegnatari per costruire in tempo breve delle iniziative a Venezia di fronte alla sede della Giunta del Veneto. Non solo, alcune assemblee provinciali hanno dato indicazione di non pagare gli aumenti e di versare all’Ater l’importo del vecchio canone. Una pratica che potrebbe essere a breve adottata da tutte le assemblee provinciali.

La cosa che rende particolarmente interessante questa mobilitazione non è semplicemente la partecipazione o la determinazione e la costanza delle iniziative (da fine luglio a oggi non vi è stata settimana senza un’iniziativa pubblica). Le assemblee e i presidi vedono infatti una composizione sociale molto differente dall’immaginario costruito dalla Lega in questi anni. La gran parte dei partecipanti sono autoctoni italiani, per lo più anziani, e tra i più giovani il livello di scolarizzazione è basso e il lavoro precario. Il bacino elettorale a cui si rivolge la Lega. Anzi, più di qualcuno ammette senza problemi di aver votato Lega e di essere profondamente deluso.

Da questo punto di vista la lotta per l’abrogazione della Legge regionale sull’edilizia residenziale pubblica assume un carattere politico più generale perché fa piazza pulita delle narrazioni secondo cui gli alloggi pubblici verrebbero assegnati solo a immigrati, chiarisce quali sono i veri interessi tutelati dalla Lega e il progetto di società che ha in mente. E dentro queste contraddizioni le realtà organizzate che hanno sostenuto la mobilitazione possono tornare a essere interlocutori credibili di fronte a un segmento sociale per troppo tempo abbandonato alle sirene leghiste.

Luca Dall’Agnol

attivista sindacale Adl Cobas

17/9/2019  https://jacobinitalia.it

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