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Blog, Cronache di Lavoro — Luglio 20, 2015 7:05 am

In Italia si lavora e si produce molto di più che nel resto delle’Europa; si consuma poco e male nelle fasce povere o in via di povertà; si crepa, causa lavoro e ci si ammala per povertà economica nei ceti meno abbienti. E, secondo l’ultimo rapporto dell’Ocse, la precarietà è in continua crescita. Tale condizione sociale non permette a chi la vive di riconoscere la propria soggettività di cittadino e si trasforma in cliente che ogni giorno deve elemosinare un diritto nonostante faccia parte della grande fetta di società che con la fiscalità generale contribuisce alla ricchezza nazionale. Quindi il pensionato, il disoccupato, il lavoratore è lasciato solo di fronte ai poteri padroni dello Stato in una condizione che non gli permette di godere dei suoi diritti e che lo priva, anche indotto dalla debilitante comunicazione dei media, della stessa volontà di reagire, della forza per lottare mettendo insieme i suoi bisogni, che gli paiono individuali ma che sono simili a quelli di tanti altri milioni di italiani. L’unica reazione che hanno è l’apatia, la passività che li porta a disarmarsi intellettualmente e interiormente, cadendo in un oblio che li inibisce nella personalità e nella parola autonoma, e contemporaneamente capaci solo di produrre violenza inconsulta verso chi sta peggio di loro, cadendo in un masochismo sociale che li arruola come servitù dei loro carnefici al potere nelle istituzioni e nell’economia.

PRODUCI, CONSUMA, CREPA

Pubblicato da franco.cilenti

In Italia, secondo l’ultimo rapporto dell’Ocse, la precarietà è in continua crescita. Tale condizione sociale, secondo Luciano Gallino, non permette a chi la vive di rispondere alla domanda chi sono? Il lavoratore è lasciato solo di fronte al padrone in una condizione che non gli permette di godere dei suoi diritti e che lo priva della forza per lottare. I soggetti interessati ad aprire il conflitto su questo tema dovrebbero avere la consapevolezza che l’unica lotta realistica per superare tale condizione è il superamento del modello economico dominante.

Il tema della precarietà e della solitudine del lavoratore precario andrebbe approfondito e tenuto in debita considerazione, affinché si possa adeguatamente organizzare la lotta. La lotta, sì, perché, per dirla con Gallino, è necessario “modificare il modello produttivo al presente dominante”. Si tratta di una sfida difficile, ma “sarebbe uno scopo più degno di essere perseguito”, oltre che più realistico, “che non il tentativo di rimediare ai guasti della demolizione del diritto al lavoro e del lavoro”. E a questo scopo, non basta una campagna referendaria, occorre organizzare il conflitto. Tra quanti si pongono in prima fila per aggregare soggetti politici, quanti ci stanno ad aggregare ciò che il padronato divide ed avviare una stagione di lotta?

Un ragazzo di 19 anni si butta sotto un treno. È accaduto lo scorso 22 febbraio. Recentemente la magistratura ha ipotizzato il reato di istigazione al suicidio. Quel ragazzo si chiamava Samuele, era un lavoratore precario della provincia di Varese. Samuele lavorava molto per molto poco: otto ore al giorno per 300 euro al mese. Non ce la faceva più a lavorare, così è si è tolto la vita. Un uomo di 56 anni cade da una scala sulla quale stava lavorando. Lavorava per una società di Marghera. Giuseppe Scaramuzza stava pulendo le piastrelle esterne di un condominio. Stava eseguendo quei lavori su una scala, ad un’altezza di sette metri. Non aveva casco, né imbracatura. E non aveva nemmeno un contratto di lavoro. Giuseppe stava eseguendo quei lavori in nero e già da due mesi lavorava senza un regolare contratto. Giuseppe non doveva lavorare così ed morto sul lavoro.

Due storie diverse, accomunate da una condizione di fondo, quella che si può sintetizzare con tre parole: produci, consuma, crepa. Storie di ordinaria precarietà, di quelle che a volerle osservare da vicino raccontano di situazioni nelle quali non si arriva a fine mese, di costrizione ad un lavoro svolto in condizioni insicure, con il rinnovo contrattuale usato come strumento di ricatto. Una condizione di insicurezza sempre più diffusa.

L’ultimo rapporto Ocse, Employment outlook di luglio 2015, sottolinea come in Italia la precarietà è in continua crescita. In percentuale, i giovani precari erano il 52,7% nel 2013 e sono diventati il 56% nel 2014. Il 30% in più rispetto a 15 anni fa, quando la legge 30, la cosiddetta Legge Biagi, ancora non esisteva. Ed oltre il 40% dei precari non mantiene il posto di lavoro nemmeno per un anno. Un dato che rende l’idea della condizione di estrema insicurezza nella quale sono costretti a vivere i lavoratori precari.

Una condizione sociale, come afferma Luciano Gallino nel suo pamphlet, Vite rinviate, che non permette a chi la vive di rispondere a due domande fondamentali: “Chi sono?”, cioè l’idea che il soggetto ha di sé; “Chi sei?”, per comprendere l’idea che gli altri hanno della persona. Non poter rispondere a queste domande, fa notare Gallino, pone il lavoratore in una condizione che comporta una grave sofferenza umana. Una situazione, potremmo aggiungere, aggravata dalla risposta alla seconda domanda che viene data dai fautori della precarietà. Questi chiamano la precarietà con il termine flessibilità, considerata il luogo dell’indipendenza individuale, della autonomia della persona. I termini della questione, quindi, sono posti sull’individuo. Non si tratta di una questione meramente filosofica. I risvolti, da questo punto di vista, influiscono immediatamente sulla vita concreta dei lavoratori, sia dentro che fuori il luogo di lavoro.

Al lavoratore che rimane solo di fronte alla propria condizione non è concesso materialmente di godere pienamente dei propri diritti. Un lavoratore che non arriva a fine mese, costretto a saltare da un lavoro ad un altro, da una località ad un’altra, per quale diritto ad un lavoro dignitoso può lottare, quale lavoro in sicurezza può pretendere, a quale diritto sindacale può aspirare, che salario sufficiente per campare può rivendicare, se è solo nel rapporto (necessariamente conflittuale, per quanto ne dicano quelli che “siamo-tutti-sulla-stessa-barca”) con il datore di lavoro? La risposta, ovviamente, è scontata: il lavoratore non può, non deve avere pretese. Il Jobs act interviene in maniera pesante per sancire definitivamente la condizione di precarietà e solitudine del lavoratore di fronte al padrone. Oltre al contratto a tutele crescenti, una serie di provvedimenti (dalla cancellazione di fatto dell’art.18, al Naspi) in esso contenuti costringono il lavoratore ad un rapporto individuale, e perciò di assolutamente di debolezza, con il padrone. Quest’ultimo, intanto, nella sua posizione di forza, può pretendere dai lavoratori che si accontentino di salari insufficienti ad una vita dignitosa, che accettino un incremento di ore lavorate, che accelerino i ritmi, che si possa risparmiare sulle condizioni di sicurezza.

Il tema della precarietà e della solitudine del lavoratore precario andrebbe approfondito e tenuto in debita considerazione, affinché si possa adeguatamente organizzare la lotta. La lotta, sì, perché, per dirla con Gallino, è necessario “modificare il modello produttivo al presente dominante”. Si tratta di una sfida difficile, ma “sarebbe uno scopo più degno di essere perseguito”, oltre che più realistico, “che non il tentativo di rimediare ai guasti della demolizione del diritto al lavoro e del lavoro”. E a questo scopo, non basta una campagna referendaria, occorre organizzare il conflitto. Tra quanti si pongono in prima fila per aggregare soggetti politici, quanti ci stanno ad aggregare ciò che il padronato divide ed avviare una stagione di lotta?

Carmine Tomeo

18/7/2015 www.lacittafutura.it

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Autore: franco.cilenti

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