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Commenti di Mauro Biani

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    Gli orizzonti sono foschi e gli indizi di un ritorno in grande stile della più strenua austerità numerosi e insistenti. I mesi a venire, al di là dei destini politici del governo in carica, saranno mesi di dure pressioni da parte di coloro che ad ogni costo vorrebbero imprimere una nuova accelerazione a quei processi di smantellamento dello stato sociale, del diritto del lavoro e dell’economia pubblica che l’emergenza Covid aveva congelato per qualche mese.

    Profitto contro stato sociale: la crisi accelera la resa dei conti

    Pubblicato da franco.cilenti

    È passato meno di un anno dallo scoppio della pandemia da Covid-19 in Italia. Ad oggi, nonostante i diversi vaccini messi a punto, siamo ben lontani dal poter parlare della fine dell’emergenza. Molti settori economici sono tutt’ora interessati da limitazioni e da vere e proprie chiusure. Alcuni dei servizi essenziali funzionano ancora a singhiozzo, come i servizi sanitari e la scuola. I contagi giornalieri sono ancora oltre diecimila in tutto il Paese e i morti si contano a centinaia ogni giorno. Anche la campagna vaccinale va a rilento.

    In parole povere, il ritorno alla normalità sembra ancora lontanissimo, per molti aspetti. C’è, però, un ambito nel quale la normalità potrebbe tornare prima del previsto: quello della disciplina di bilancio. Il problema è che non è una buona notizia. Il termine disciplina, infatti, non ha nulla a che vedere con le presunte virtù che potrebbe evocare. Con disciplina di bilancio si identifica il rispetto del pareggio tra le entrate e le uscite dello Stato, un’imposizione che da quasi trenta anni soffoca la crescita economica, con conseguente aumento della disoccupazione, e che ha portato il Paese ad affrontare l’emergenza Coronavirus con un sistema sanitario fortemente indebolito. È il binario morto dell’austerità, tanto caro alle classi dominanti e all’Unione Europea, dal quale solo negli ultimi mesi, per effetto del crollo delle entrate fiscali e delle (insufficienti) misure tampone per l’economia, si è temporaneamente deviato. Ma la normalità, intesa come pieno ossequio di questo paradigma, pare dietro l’angolo.

    Tra i portavoce più accesi del necessario ritorno alla normalità non poteva che esserci il senatore Mario Monti, il quale scrive: “L’Unione Europea e i suoi Stati membri non erano stati mai (n.d.r.: mai nella storia, si potrebbe dire risalendo nei secoli) alleati dell’Italia con tanto sostegno e generosità come in questa comune guerra alla pandemia”. Nella versione di Monti si racconta di una generosità che commuove ma che si scontra con le considerazioni sulla nostra presunta incapacità di gestire questi fiumi di denaro. Le Istituzioni europee “da qualche giorno si chiedono se l’Italia, per la quale avevano pianto come noi vedendo quei camion militari con le bare di Bergamo, non sia tornata ad essere, pur nella tragedia di questa guerra, un Paese semiserio e non del tutto affidabile”. Ovviamente sì, si risponde lo stesso Monti. Non solo abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, ma abbiamo speso anche male i soldi. Tralasciando la miseria umana insita nel tirare in ballo i “morti di Bergamo” per invitare alla disciplina di bilancio, è facile vedere nelle parole di Monti un preavviso di quello che sarà il futuro delle politiche economiche del nostro Paese.

    Un messaggio ripreso e, forse, reso ancora più chiaro da Ferruccio De Bortoli sul Corriere della Sera, in cui il nostro si sorprende di come fosse stato votato l’ultimo scostamento di bilancio (32 miliardi), sebbene necessario, con una “insostenibile leggerezza” alludendo neanche troppo velatamente alla sostenibilità del debito. Ricordandoci, qualora ce ne fosse bisogno, che il debito “anche nell’era dei tassi d’interesse negativi – e della BCE che compra i nostri titoli – non scompare d’incanto”. Una premessa utilizzata per criticare le spese ‘scellerate’ di questo governo che non pensa alle generazioni future, perché “ogni miliardo buttato oggi è un investimento negato per le prossime generazioni che carichiamo di debiti, impoverendole”. La solita storiella per cui in un mondo costretto dalla scarsità delle risorse, prima o poi, questo debito dovrà essere risarcito e, dunque, se oggi spendiamo di più (vivendo al di sopra delle nostre possibilità) domani dovremo accontentarci di molto meno. Perché il debito pubblico viene considerato, erroneamente, alla stregua del debito di un privato cittadino non considerando il fatto che il debito pubblico, a differenza di quello privato, possa rinnovarsi continuamente. Tanto che poi lo stesso fine pensatore De Bortoli conclude dicendo che nonostante tutto “i risparmiatori italiani continuano fortunatamente e giustamente a sottoscrivere titoli pubblici, credendo nella parola dello Stato, che mai è venuta meno”. Evidente come, attraverso un sofismo riuscito piuttosto male, il messaggio di De Bortoli sia quello di tornare ad essere più prudenti a spendere, ancora meglio a risparmiare prima che qualcuno si stufi di finanziare, spinto da un atto di fede e generosità, il debito italiano.

    Ancora più preoccupante, però, è il monito di Bruxelles. Se l’Italia vuole accedere ai soldi del Recovery Fund, il suo programma, come quello di tutti i Paesi membri, sarà costretta a fare quegli interventi richiesti dalle raccomandazioni UE 2019 e 2020. L’Italia, in particolare, come gli altri Paesi a ‘elevato’ debito pubblico, deve spiegare come il suo piano contribuirà ad affrontare i suoi squilibri macroeconomici. Non solo semplificazioni amministrative e riforma della giustizia, ma anche l’eliminazione di Quota 100 e, come scrive sibillinamente Repubblica, un “miglior ambiente per le imprese” (leggasi: mano libera sulla regolamentazione dei rapporti di lavoro, da rendere sempre più flessibili, in cambio di presunti maggiori investimenti). Una conferma di come, dietro alla presunta generosità dei fondi del Recovery, ci sia la polpetta avvelenata delle riforme volute dal capitale e dei tagli di spesa.

    È facile individuare uno schema comune nelle esternazioni che abbiamo riportato. La pandemia ha richiesto un ammontare di spesa pubblica eccezionale, senza il quale sarebbe stato impossibile garantire il funzionamento minimo del sistema di protezione sociale. Davanti ad attività economiche fortemente limitate o addirittura azzerate, non sostenere economicamente una fetta consistente della popolazione avrebbe portato a un asperrimo conflitto sociale, con conseguenze facilmente immaginabili.

    I governi, compreso quello italiano, sono stati sostanzialmente costretti a erogare risorse nell’economia e l’Unione Europea ha dovuto accettare questo eccezionale sforamento dei vincoli impressi nei Trattati.

    Il messaggio che emerge dai discorsi che abbiamo letto è il seguente: occorre tornare a stringere la cinghia. Bisogna fare le riforme e bisogna riportare la spesa pubblica sul suo ‘naturale’ sentiero fatto di tetti al deficit e al debito. Minaccioso, all’orizzonte si affaccia un ulteriore pericolo. Infatti, il ritorno all’austerità potrebbe offrire, aggiungiamo noi, l’occasione per spingersi ancora un po’ più in là verso la normalizzazione delle politiche economiche, andando a incidere su voci di spesa che erano già presenti prima della pandemia, ma che oggi, per compensare l’espansione degli ultimi dieci mesi, potrebbero essere facili bersagli ai fini di un ridimensionamento.

    Ecco, dunque, che viene spontaneo chiedersi quali siano gli obiettivi di queste riforme e in che modo si voglia incidere sulla spesa pubblica. In altri termini, cosa dobbiamo aspettarci da questo ritorno alla normalità? Ancora una volta, nulla di buono. Certo, non è facile dire da dove inizieranno i tagli e le riforme. Sembrerebbe assurdo ragionare in tali termini, in quanto ci troviamo già in una situazione disastrata che l’epidemia ha reso ancor più evidente attraverso la fragilità del sistema scolastico e del sistema sanitario. Ciò potrebbe farci dimenticare che gli appetiti dei padroni non sono ancora appagati pienamente ma non lo sono mai. Del resto, i fronti aperti nella lotta di classe – che loro conducono contro di noi – sono ancora molteplici e possiamo farci un’idea al riguardo rileggendo con attenzione non solo le cronache e le dichiarazioni di questi giorni, ma anche quelle dei mesi scorsi.

    Tra gli obiettivi preferiti del partito trasversale del controllo della spesa, possiamo sicuramente annoverare il vituperato Reddito di Cittadinanza. Preso come esempio del “debito cattivo” per antonomasia (contrapposto al “debito buono” che, bontà sua, piace pure a Mario Draghi), negli ultimi mesi il reddito di cittadinanza è stato uno degli strumenti più bersagliati dalle critiche. A volte queste critiche sono state “di principio” e particolarmente disgustose: come si possono spendere così tanti soldi per finanziare chi passa le sue giornate sul divano, soprattutto ora che molti italiani fanno fatica a guadagnarsi da vivere? Altre volte si è trattato di sottolineare in maniera caricaturale le inevitabili disfunzioni di uno strumento che interessa all’incirca 1,2 milioni di nuclei familiari e 2,9 milioni di persone.

    Il Reddito di Cittadinanza, comunque, pur essendo uno dei principali obiettivi dei tagliatori di spesa pubblica, ha avuto buona compagnia. Un bersaglio grosso, enorme, è stato rappresentato dai lavoratori del settore pubblico. E non si tratta della solita battaglia, mai sopita, dei tempi normali contro un settore dipinto come un covo di inutili parassiti, che ha già prodotto i suoi frutti. Si tratta di una ancora più meschina e artificiosa contrapposizione tra lavoratori del settore pubblico e lavoratori privati. Innumerevoli sono state le richieste di “contributi di solidarietà” a carico dei dipendenti pubblici, visti come i “fortunati” e i “privilegiati” che hanno attraversato e stanno attraversando la crisi senza alcun problema economico e che, per questa ragione, dovrebbero versare una parte dei propri stipendi ai lavoratori più colpiti. Proprio negli ultimissimi giorni, Carlo Cottarelli, per gli amici “mister forbici”, ha fatto sentire la sua voce per raccontarci come le retribuzioni dei lavoratori pubblici salgano non solo più velocemente di quelle dei lavoratori privati, ma addirittura, udite udite, dell’inflazione. Un grido d’allarme che, ahinoi, non va nella direzione di creare le condizioni per far accelerare le retribuzioni nel settore privato, che da tempo restano indietro rispetto alla crescita della produttività, bensì in quella di demonizzare il settore pubblico, fonte di “sprechi” e “privilegi”.

    Infine, il boccone più ghiotto: le pensioni. Abbiamo già visto che l’eliminazione di Quota 100 (che, ricordiamo, andrà a scadenza alla fine del 2021) è tra gli obiettivi dell’Unione Europea. Deve, però, spaventare ancora di più il fatto che, tra le condizionalità ci sia, in buona sostanza, il ritorno al regime precedente a Quota 100. Nelle raccomandazioni del 2019 (pp. 5-6), il Consiglio dell’Unione Europea invitava l’Italia ad attuare pienamente “le già previste riforme pensionistiche volte a ridurre le passività implicite derivanti dall’invecchiamento della popolazione”. In altri termini, non c’è alcuno spazio per soluzioni di compromesso, come la pur punitiva Quota 102, pensate per ridurre l’impatto dello “scalone” che si profila all’orizzonte alla fine del 2021. Bisogna attuare pienamente la riforma Fornero e quelle che l’hanno preceduta, con tanto di adeguamenti automatici (ovviamente solo in aumento) dell’età pensionabile.

    Gli orizzonti sono foschi e gli indizi di un ritorno in grande stile della più strenua austerità numerosi e insistenti. I mesi a venire, al di là dei destini politici del governo in carica, saranno mesi di dure pressioni da parte di coloro che ad ogni costo vorrebbero imprimere una nuova accelerazione a quei processi di smantellamento dello stato sociale, del diritto del lavoro e dell’economia pubblica che l’emergenza Covid aveva congelato per qualche mese. Uno stato sociale sempre più ridotto, vessato dal capitale attraverso l’imposizione di un regime di austerità fiscale. Uno stato sociale che oramai è la parodia di se stesso, come lo dimostrano le stesse misure di cui abbiamo appena discusso: il Reddito di Cittadinanza era stato presentato come l’abolizione della povertà e Quota 100 come il superamento dell’odiosa riforma Fornero del sistema pensionistico. Non è neanche il caso di sottolineare che entrambi i provvedimenti, il primo per l’accento sulle politiche attive del lavoro e per le poche risorse assegnate e la seconda per la sua portata temporalmente limitata, non cambiano di una virgola il paradigma dell’austerità, la deregolamentazione dei rapporti di lavoro e la demolizione del sistema pensionistico operata a decorrere dal 1995. Ciononostante, pur essendo poco più che una briciola di elemosina, nel deserto dell’austerità fiscale essi rappresentano un facile bersaglio del capitale, sempre alla ricerca di risorse da destinare al contenimento del deficit.

    CONIARE RIVOLTA

    Collettivo di economisti

    27/1/2021 https://coniarerivolta.org

    Tags: austerità Crisi emergenza Ferruccio De Bortoli lavoro Mario Monti pensioni pensioni minime recovery fund Recovery Plan reddito di cittadinanza Reddito d’inclusione reddito minimo stato sociale tagli Tito Boeri Unione Europea
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