PROVIAMO A LEGGERE IL NUOVO PATTO SUL LAVORO PUBBLICO

Il “Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale” (d’ora i poi Patto) rappresenta il primo atto negoziale di CGIL-CISL-UIL con il nuovo governo Draghi. Assume quindi, anche per il fatto di affrontare un tema delicato come il lavoro pubblico, una particolare rilevanza.

Primo elemento da notare è che esso è stato firmato in fretta e furia, senza il tempo per alcuna consultazione nei confronti delle strutture periferiche e di categoria né, tanto meno, nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici. E’ stato quindi sottoscritto dalle sole confederazioni, ma non dalle categorie interessate.

Il Patto si articola in una prima parte, contenente alcune dichiarazioni di principio, e in una seconda parte, nella quale si concordano alcuni punti.

Nella prima parte, le dichiarazioni di intenti, alcune delle quali contraddicono palesemente vecchie prese di posizione e decisioni che hanno coinvolto in particolare il già /neo ministro Brunetta, si sprecano.

Così “il Paese riparte con le donne e gli uomini della P.A.”, “coesione sociale e buona occupazione sono i pilastri di ogni riforma”, “il ruolo della P.A. come motore di sviluppo è centrale”, “occorrono semplificazione dei processi e un massiccio investimento in capitale umano”, ecc. ecc.. In alcuni punti,il testo sembra scritto addirittura da mano sindacale (il che ovviamente non è), laddove si parla di una “nuova stagione di relazioni sindacali che punti sul confronto con le OO.SS:”.

Non mancano, tuttavia, anche qui, i punti di criticità.

Per esempio, la nuova stagione di relazioni sindacali si dovrebbe concretizzare nel fatto di “rafforzare l’istituto del confronto sull’organizzazione del lavoro”: non si tratterebbe, quindi, di un’apertura verso la possibilità (attualmente inibita) di contrattare l’organizzazione del lavoro nei servizi, bensì del semplice rafforzamento di quell’istituto, già presente all’interno dei CCNL, che prevede per le OO.SS. e le RSU il diritto di essere informate e di poter dire la loro opinione, senza che ciò sia minimamente vincolante per le parti.

Il “massiccio investimento in capitale umano” non si traduce in realtà in alcuna previsione concreta di “massicce assunzioni” nella P.A. (d’altra parte, dire che bisogna investire nel capitale umano non necessariamente in ciò si traduce).

Un passaggio, invece, tocca un punto dolente della contrattazione degli ultimi anni, laddove si dice che “le esperienze più efficaci di contrattazione integrativa” (cioè quali? ndr) devono indirizzare un percorso riferito alla “valutazione oggettiva della produttività” e alla sua “valorizzazione economica e professionale”. Ora, le esperienze condotte in questo senso (originate proprio dalla famosa “riforma Brunetta”) hanno finora evidenziato come questa valutazione “oggettiva” si dimostri in realtà pressochè impossibile, generando conflitti a non finire fra RSU e controparti, ma anche fra lavoratore e lavoratore (o lavoratrice).

Condivisibile, invece, l’affermazione che “ogni pubblico dipendente è titolare del diritto/dovere soggettivo alla formazione” ma, malgrado si dica che “la contrattazione dovrà prevederne l’esigibilità”, siamo pur sempre nel campo delle dichiarazioni d’intenti (vedere, in proposito,quanto e come viene applicata, oggi, la norma che già prevede di destinare alla formazione l’1% del fondo per la contrattazione).

La seconda parte, invece, inizia con la dicitura “si concorda”. Vediamo nel dettaglio.

1. Positiva è la previsione di conglobare l’”elemento perequativo”, previsto dal vigente CCNL in maniera provvisoria, in paga base: si tratta comunque di una, sia pur ridotta, stabilizzazione di quote salariali. Si tenga conto, fra l’altro, che l’elemento perequativo si

applicava con una “parametrazione al contrario” (l’aumento è cioè maggiore per le categorie più basse). C’è poi invece una parte di questo primo punto che riguarda la contrattazione decentrata: ora, è senz’altro positivo il fatto che vi si preveda la rimozione dei “tetti” che ne impedivano, di fatto, il libero svolgimento. Ben più problematica invece è l’affermazione che la si voglia “valorizzare”, poiché ciò rischia fortemente di avvenire a discapito della contrattazione nazionale. Punto, quest’ultimo (cioè la salvaguardia del Contratto Nazionale), su cui in particolare si è sempre impegnata la CGIL. Tutto ciò rischia di incentivare oltre misura (come già accennato sulla parte relativa alla “produttività”) un meccanismo di competizione e concorrenzialità tra i lavoratori, laddove occorrerebbe invece sperimentare forme di intreccio fra contrattazione dell’organizzazione del lavoro e modalità di lavoro che sinteticamente si potrebbero definire “di gruppo”.

2. Vi si prevede di superare l’emergenza per quanto riguarda il lavoro agile (smart working), applicato a mani basse in questa fase di pandemia, per lo più senza alcuna contrattazione sindacale. Non è però specificato come si pensa che ciò debba avvenire, e presenta non pochi dubbi applicativi laddove si parla di introdurre una “disciplina contrattuale che favorisca la produttività”.

3. La revisione del sistema di classificazione fa parte della piattaforma sindacale per il rinnovo del CCNL. Tuttavia, non poca inquietudine suscita la previsione di implementare il sistema degli “incarichi”, foriero di possibili (e assai probabili) applicazioni in base a discrezionalità e scarsa trasparenza.

4. Vi si ribadisce genericamente il valore della formazione e si prevede che essa sia da considerarsi come attività lavorativa (cosa che oggi avviene in misura assai parziale).

5. Si prevedono non meglio precisati, ma “adeguati”, sistemi di partecipazione sindacale: tutto concepito, però, nei limiti di organismi quali gli OPI (organismi paritetici di informazione), che non hanno alcun effettivo potere di contrattazione; né aiuta a superare questa impressione di limitatezza il fatto che vengano previsti ulteriori, anche qui non precisati (e quindi allo stato non valutabili) “strumenti innovativi”.

6. Si tratta di un punto decisamente critico, poiché vi si prevede di implementare l’istituto del “welfare contrattuale”. Inutile forse spiegare quanto questo istituto, già critico nel settore privato, sia particolarmente contraddittorio nel settore pubblico, dove operano proprio le figure che materialmente concorrono ad erogare i servizi del welfare (in Sanità, ma anche nei Comuni,ecc.). Questo punto era già presente, ad esempio, all’interno del CCNL degli Enti Locali, ma con una formulazione che ne limitava fortemente l’applicazione (poiché prevedeva l’impossibilità di stanziare ulteriori risorse rispetto a quelle previste per i CRAL); ora, non solo si lascia intendere che questo limite verrà meno, ma si prevede addirittura di estendere al settore pubblico le agevolazioni già ora esistenti in proposito per il settore privato.

Questo è quanto si ricava da una veloce lettura del testo del Patto. Come si vede, non compaiono molte delle cose che invece sui media vengono date per scontate.

Si richiama certamente la necessità di chiudere la stagione contrattuale 2019-2021 (si notino le scadenze) ma non vi è alcun impegno vincolante in tal senso. Non compare, nel testo, la quota di aumento contrattuale di 107 € mensili: cifra peraltro già giudicata insufficiente nel dicembre scorso, perché basata su un calcolo comprensivo anche del personale dirigente, tanto da portare allo sciopero della P.A. del 9 dicembre 2020; si parla invece di risorse aggiuntive, ma senza quantificarle, laddove si parla di sistema di classificazione. Si apre sì ad un confronto col Sindacato, ma pur sempre in posizione subalterna.

Occorre secondo me tener conto che ciò avviene nel contesto della pandemia, ciò che da un lato esalta l’indispensabilità del lavoro pubblico e che dall’altro spingerà certamente il governo Draghi (del quale ben conosciamo la matrice) a non presentarsi nell’immediato col suo volto più apertamente neoliberista.

Tuttavia, i contenuti del Patto, nella loro contraddittorietà, non autorizzano affatto ad immaginare una vera svolta relativamente al lavoro pubblico. Anche quando si ragiona di assunzioni, al di là della volontà dichiarata di velocizzare (vedremo come) le procedure, si pensa con ogni probabilità ad alcune delimitate figure “tecniche”, ormai indispensabili perché, da un lato, ad esempio nei Comuni, scarseggiano gravemente, o perché servono per “mettere a terra” i progetti del Recovery Plan. Niente a che vedere con ciò che veramente occorre, e cioè un vero Piano di assunzioni nella P.A., a tutti i livelli, per far fronte alle necessità e ai bisogni che gravano oggi sulla popolazione, specie quella meno agiata, del nostro Paese.

Fausto Cristofari

Già dirigente Cgil-FP Torino

13/3/2021

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