Pubblicità sessista: Perché non ne abbiamo bisogno

Nell’immagine vediamo la donna in un costume per giochi di ruolo. Ha un accenno di grembiule, quel minimo che basta per farci cogliere il riferimento a un’addetta alle pulizie. Sta facendo la polvere con la stessa credibilità di una coprotagonista in una commedia sexy all’italiana degli anni ’70: si erge su dei vertiginosi tacchi a spillo, ha una mano delicatamente poggiata sul fianco, è leggermente chinata in avanti per permettere a chi guarda di dare una sbirciatina al décolleté.

Eppure non è un vecchio film che stiamo guardando, ma un post Facebook dell’anno domini 2021. A pubblicarlo è stata un’impresa di pulizie che, preoccupata di non compiacere abbastanza il male gaze, ovvero lo sguardo maschile intrinseco nella nostra cultura, ha deciso di rincarare la dose con il titolo “VE LA DIAMO GRATIS” a caratteri cubitali. Sotto, in dimensioni più timide, “la pulizia e la sanificazione”.

Si tratta di un doppio senso, potreste ribattere, se non fosse chiaro che quella comunicazione va a senso unico verso il sessismo, come d’altronde hanno fatto in precedenza decine di inserzionisti che hanno avuto la stessa originalissima idea – basta digitare “la diamo gratis” su Google Immagini per verificare.

Contro le pubblicità sessiste si sono già esposti il Parlamento Europeo nel 2008, alcuni Comuni (tra i quali quello della sede legale dell’azienda) e lo IAP, l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria, che ha dichiarato che il 20% delle segnalazioni annue ricevute sono legate all’immagine femminile.

Tuttavia, ci sono due grandi lacune che ancora rendono tiepida questa battaglia: quella di una legge nazionale (i disegni proposti più volte non si sono mai concretizzati) e dei social network. Né Facebook, né Instagram, né LinkedIn o Twitter riportano direttamente la voce “discriminazione” tra i motivi per richiedere la rimozione di un contenuto. Esistono, è vero, delle normative pubblicitarie che menzionano la questione, ma la segnalazione dev’essere fatta all’interno della generica casella “contenuto vietato” o “altro”.

Nominare il problema invece è importante, perché significa ammettere che c’è un problema.

Non affrontarlo rischia di relegarlo alla dimensione dell’opinione e della sensibilità soggettiva, mentre dobbiamo alfabetizzarci sul fatto che il sessismo è un dato oggettivo che implica lo svilimento della persona in base al suo sesso di appartenenza.

Come si arriva allo svilimento della donna? Ci sono varie possibilità.

  1. LA SI OGGETTIFICA SESSUALMENTE.

È il caso del post Facebook menzionato: la donna non è rappresentata come un soggetto ma viene usata come oggetto per compiacere lo sguardo maschile. Ciò contribuisce a perpetuare una cultura nella quale il suo valore è direttamente proporzionale al gradimento altrui del suo stesso corpo, una cultura che spesso induce la persona ad auto-oggettificarsi. È stato dimostrato che interiorizzare questa visione può portare a rischi per la salute mentale, ansia, vergogna del proprio aspetto rispetto agli standard fissati (e irraggiungibili), paura per la propria sicurezza fisica, disturbi alimentari, depressione e disfunzioni sessuali.

Sia chiaro: non è una pubblicità a fare tutto questo. A farlo è l’ennesima pubblicità inserita in un sistema che porta avanti da millenni questa narrazione.

  1. LA SI “FA A PEZZI”.

Se disumanizziamo la persona, non c’è bisogno di mostrarla tutta. Ne basta anche solo una parte per appagare la vista: una gamba, un ombelico, meglio ancora una bocca carnosa e leggermente aperta. Qualcosa che possa essere ipersessualizzato.

Uno studio ha confermato che guardiamo gli uomini in maniera diversa rispetto alle donne: i primi nel loro insieme, le seconde come un insieme di pezzi assemblati. Questo è lo stesso modo con cui il nostro cervello percepisce una macchina o un oggetto qualsiasi.

  1. LA SI USA COME UNA GRECHINA.

Lorella Zanardo ne “Il corpo delle donne” ripesca dai nostri ricordi scolastici le greche, quelle decorazioni che ci veniva richiesto di fare ai bordi del foglio prima di scrivere, e ne fa metafora per indicare i casi in cui la donna è usata solo come una bella cornice. Il messaggio potrebbe funzionare benissimo anche se la togliessimo, dato che la sua presenza è accessoria, ma poi come potrebbe compiacere il nostro sguardo maschile? Fateci caso, la prossima volta che vedrete una modella zitta in camicia da notte stendersi su un materasso, mentre l’esperto vi spiega i dettagli tecnici e la promozione della televendita.

  1. LA SI RIDUCE A UNO STEREOTIPO.

Le donne sono relegate all’ambito casalingo e alla cura dei figli, mentre gli uomini sono a lavoro o in fase esplorativa.

Le une sono frivole, gli altri sono razionali con punte di rincretinimento (scegliere l’opzione: in caso di pulizie domestiche/di partita di calcio/di passaggio di una femmina).

Le bambine amano i trucchi e la moda, i bambini le macchinine e l’azione.

Le anziane sono tutte nonne, se proprio le dobbiamo mettere. E se non sono nonne, perché dobbiamo metterle?!?

Nelle pubblicità siamo tutti bianchi, magri, abili e cisgender.

I corpi delle donne non hanno peli, nemmeno prima della depilazione, la crema antirughe funziona benissimo sulla pelle di una venticinquenne e le mestruazioni sono blu. E poi c’è chi dice che gli stereotipi corrisponderebbero alla realtà.

Come ci ricorda Chimamanda Ngozi Adichie in The danger of a single story:

La storia unica crea gli stereotipi. E il problema degli stereotipi non è che non siano veritieri, ma che sono incompleti. Fanno diventare una storia la sola storia.

  1. LE SI NEGA UNA PROFESSIONALITÀ.

Nelle pubblicità una donna ha minor probabilità di essere rappresentata come una professionista rispetto a un uomo.

E nella realtà lavorativa? Lì ha i contratti più precari, un divario salariale del 18% rispetto ai suoi colleghi con le medesime mansioni, un “pavimento appiccicoso” all’ingresso (ovvero gli ostacoli che ne limitano il primo accesso e che la costringono a dover dimostrare di più per avere un riconoscimento) e un “soffitto di cristallo” sopra la testa, che le renderà difficoltoso il raggiungimento di un ruolo apicale.

C’è poi il mansplaning, ovvero quell’atteggiamento tra il paternalistico e il maschilista per cui un collega o un capo sente di doverle spiegare qualcosa su cui lei detiene maggior competenza.

A questo punto dovrebbe essere più facile riconoscere un messaggio sessista. Se però ci fossero ancora dei dubbi, procedete con la prova di commutazione: nella comunicazione in analisi, mettete un uomo al posto della donna.

Sì, mettetelo vestito da addetto alle pulizie sexy (notate: non esiste un’uniforme maschile iconica per questo gioco di ruolo), che ammicca all’obiettivo mentre ci mostra i suoi muscoli unti. Non dimentichiamoci dello straccetto della polvere e della scritta “VE LA DIAMO GRATIS”.

Ridicolo, vero? Ecco, fidatevi di quella sensazione: significa che c’è qualcosa di sbagliato sotto.

Riconoscere un messaggio sessista è difficile per chi viene da una società sessista, ma non è impossibile.

Flavia Brevi – Hella Network

19/2/2021 https://www.intersezionale.com

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