Quale futuro per i congressi per la salute?

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di Luca Negrogno

Il 6 e 7 novembre 2021 si è tenuto a Bologna il congresso “Come si esce dalla sindemia”, a cui hanno aderito più di 100 realtà tra singoli, gruppi e associazioni. Il Congresso è stato costruito attraverso una modalità partecipativa, con due assemblee plenarie e più tavoli di lavoro; la partecipazione stessa al congresso è avvenuta attraverso un lavoro capillare di interlocuzione con le varie realtà; nella fase di costruzione si è fatto di tutto per evitare che venisse imposta una qualsiasi “egemonia” politica sulla costruzione dell’evento. Gli assi tematici attorno ai quali ci si è confrontati sono stati: Il sistema sanitario; Che cos’è la salute; Covid-19: a che punto è la notte?;
Mobilitazione: che fare?. Sulla base di un’aggregazione nata a Bologna nel periodo del I lockdown, abbiamo invitato a un confronto tutte le organizzazioni che negli ultimi mesi hanno incontrato il tema della salute nelle pratiche mutualistiche, nelle vertenze sindacali, nelle battaglie legate alle questioni abitative e ambientali, cercando di intercettare gruppi di operatori e operatrici, ricercatrici, attiviste e movimenti legati alle lotte per la salute di genere. Era stato evidente, lungo il corso del 2021, che si andavano moltiplicando gli interventi da parte di società scientifiche, ordini professionali, gruppi organizzati di pressione nazionali e internazionali impegnati nell’ambito delle discipline professionali e più in generale del mercato sanitario, che, con intenzioni soprattutto corporative, di posizionamento nel campo aperto della ricostruzione postpandemica e della competizione per accaparrarsi le sue risorse, corredavano le loro dichiarazioni con ampie affermazioni di principio sull’importanza della salute territoriale, della prossimità, della domiciliarità. Il Pnrr, che fa largamente uso di questi concetti, ha risentito della pervasività di queste parole d’ordine mantenendosi nel campo delle “mobilitazioni dall’alto”, cioè che non incidono davvero sulla possibilità di creare reali forme di lettura partecipata dei bisogni. Durante il Convegno di Bologna abbiamo iniziato a produrre un’analisi critica di queste dinamiche, con l’obiettivo di tornare a far sentire una voce orientata ai valori della sanità pubblica, gratuita, universale e accessibile, per polarizzare il dibattito e dare il segno della presenza, nella società, di una forte aggregazione culturale che esprimesse questi principi di riferimento.

Le esperienze di mobilitazione sviluppatesi durante la sindemia (ad esempio, quella del comitato Riapriamo Villa Tiburtina a Roma) hanno riportato al centro la questione della partecipazione e del controllo popolare sui temi della sanità: la mobilitazione di quartiere ha messo in luce la necessità di forme popolari e socialmente diffuse di coinvolgimento, che fossero non meramente partecipate da operatori e che svolgessero anche il compito di fornire orientamento e supporto alla cittadinanza per stare nella rete dei servizi, in un momento difficile di chiusure e limitazioni. Un’altra importante presenza era costituita dalle esperienze di mutualismo costruite dal basso a partire dal primo lockdown, che hanno permesso di sostenere popolazioni fragili irraggiungibili per i servizi pubblici, soprattutto laddove l’integrazione sociosanitaria è rimasta una vuota dichiarazione di principio. In questo ambito si sono riconosciute le esperienze dei Laboratori di Salute Popolari, delle Brigate solidali, di gruppi informali che operano in particolare in alcuni contesti geografici particolarmente
impoveriti o rispetto ad alcune aree di grave marginalità ed esclusione sociale. Molto importanti alcune esperienze transfemministe come la campagna Obiezione Respinta, che realizza una mappatura dal basso dei presidi rivolti alla salute di genere e riproduttiva e delle loro pratiche, spesso escludenti e stigmatizzanti. La dialettica ha fatto emergere questa necessità di non “coprire le falle del sistema” e di non sostituirsi al servizio pubblico, ma piuttosto portare in luce i bisogni di salute che solitamente rimangono sommersi, anticipare una nuova epistemologia della cura, innescare pratiche reali di partecipazione popolare e un diverso concetto di salute. L’altra componente fondamentale è stata quella delle lavoratrici e dei lavoratori che, in vari contesti e a vari livelli, operano dentro i servizi o negli spazi di creatività ancora aperti nel terzo settore. In alcuni territori sono state forzate le rigidità esistenti dentro le istituzioni per costruire reali processi di integrazione basati sulla multidisciplinarietà, sulla collaborazione tra operator? sociali e sanitari.

Per esempio si sono costruite reti inedite tra servizi e comunità, con una importante innovazione di pratiche e di epistemologie all’interno di alcune Case della Salute, laddove esse non si sono realizzate come mera aggregazione di prestazioni ma come dispositivi di ricerca-azione sulle componenti sociali dei bisogni sanitari (è il caso della casa della salute Le Piagge di Firenze).

Queste esperienze e altre simili, che si rivolgono alla salute delle persone migranti o alla salute di genere, nel vasto campo delle Cure Primarie (spesso negletto dalla governance ufficiale), sono apparse alla ricerca di spazi di riflessione e generalizzazione; importante il fatto che in queste esperienze si producano forme inedite di auto-aiuto tra professionisti, si creano nuovi spazi di cooperazione sociale che hanno un significato immediatamente politico nella misura in cui modificano i volti dei territori, si rimettono in discussione la lettura di contesti e popolazioni-target, uscendo dalla retorica della mera deprivazione e instaurando forme nuove di attivazione sociale.

Il confronto tra diversi punti di vista e posizioni ha fatto intravedere la possibilità di superare gli steccati tra vecchie e nuove forme di mobilitazione, accettare la mutazione strutturale della distinzione pubblico/privato per vedere meglio un nuovo campo di azione, in cui prima di tutto si possa agire contro la depoliticizzazione di chi lavora come tecnic? dentro le strutture statali o parastatali. È emersa la necessità di rinnovare le pratiche di lotta e di mobilitazione, laddove ad esempio le vertenze di categoria non sono riuscite ad andare oltre una dimensione solo settoriale e corporativa, proprio a partire dagli operator? sanitari. Per questo era emersa la necessità di costruire nuovi spazi di dibattito con i gruppi di utenti dei servizi, con le persone disabili, con gruppi locali di popolazione, anche per sostenerli nel superare quelle forme edulcorate e spuntate di “partecipazione” che proliferano nel nostro sistema sussidiaristico senza mai tematizzare i veri squilibri di potere. L’altro obiettivo con cui ci era lasciati nel novembre 2021 era quello di costruire un nuovo immaginario, capace anche di valorizzare gli esiti progressivi del mutualismo e delle culture sussidiaristiche, ma in una rinnovata ottica di universalità, intersezionalità, giustizia sociale come fulcro della logica di servizio pubblico.

L’indicazione conclusiva fu quella di promuovere in ogni territorio dei contro-think tank orientati a proporre rivendicazioni comuni e soprattutto a creare un nuovo immaginario sulla salute pubblica anche a partire dalla condivisione di narrazioni, forme di comunicazione, anche con percorsi artistici ed esperienziali, aperti e non identitari. Come si vede, un lavoro con tempi lunghi, senza immediati ritorni in termini di visibilità per le singole strutture di movimento forse, sicuramente sfasato rispetto al fatto che di lì a pochi mesi in molti territori iniziavano le campagne elettorali amministrative e su molti temi i fattori di incomunicabilità si moltiplicavano a scapito di quelli di possibile interazione. Quello che la situazione pandemica sembrava favorire, e che pensavamo fosse la posta in gioco di quel ciclo di incontri, era la possibilità di rinnovare congiuntamente le forme di partecipazione e di militanza, entrambe segnate da innumerevoli limiti, per giungere ad una nuova possibilità di “azione pubblica” che mirasse a rimettere insieme l’alto e il basso, le lotte sul terreno della riproduzione sociale tutta e le pratiche innovative svolte dentro i servizi, con l’obiettivo di una ripoliticizzazione di tutti i saperi e un superamento della separazione tra società e politica: si trattava cioè di recuperare quella capacità di inventare istituzioni” che aveva caratterizzato le lotte volte a costruire il nostro Servizio Sanitario Nazionale. Si era previsto di interloquire anche con le esperienze internazionali attive sul campo, come il movimento la Cabecera, SWAN, la rete di International Radical Social Workers, Entrar Afuera, Pirate Care, il movimento legato ai Caps Brasiliani, le Cliniche solidali greche. Alcuni di questi soggetti hanno interagito nei mesi successivi con altre realtà italiane, ma mai con la rete complessiva dei Congressi per la salute, che di lì a poco si sarebbe formalizzata.

I mesi successivi hanno visto richiudersi questo processo sulle strutture di movimento e sindacali che già avevano sviluppato percorsi comuni: da una parte quelle impegnate nelle rivendicazioni relative a casa e reddito, dall’altra parte i sindacati di base impegnati in sanità; a fare da orientamento sulle questioni del servizio sanitario principalmente si è candidato il gruppo del Forum Diritto alla Salute, caratterizzato da posizioni fortemente polarizzate e semplificatorie rispetto agli aspetti più controversi della recente storia sanitaria italiana. Le rivendicazioni che hanno maggiormente inciso sulle successive piattaforme elaborate sono state quindi trainate dagli operatori sanitari sindacalizzati e, invece del dialogo con i gruppi professionali e tecnici maggiormente impegnati nell’innovazione territoriale e partecipativa, ha prevalso nella rete la tendenza a far dipendere la propria identità dall’adozione della prospettiva ideologicamente più “pura” possibile. Di conseguenza è emersa una grossolana forzatura nel definire quali fossero i “movimenti per la salute” accettati come interlocutori: le assemblee si sono a più riprese arenate su una serie di distinguo finalizzati a tenere fuori alcuni soggetti ritenuti a vario titolo “compromessi” con la governance neoliberale o espressione della sua egemonia.

Nelle assemblee nazionali ci si è infatti spesso incagliat? sulle critiche alla CGIL (nonostante in quei contesti qualche sindacalista abbia fatto autocritica sulle assicurazioni sanitarie integrative sottoscritte nel CCNL), alle esperienze di mutualismo, alle realtà associative o di ricerca impegnate in prassi migliorative nella territorializzazione e nella salute comunitaria (soprattutto quando capitavano a tiro associazioni di ricercator?, terzo settore, campagne viste come troppo “moderate” come quella per la riforma delle Cure Primarie o quella per le Case di Comunità). Ritenendo queste soggettività “compromesse con l’esistente”nelle ultime assemblee è sempre risultata difficile l’interlocuzione con loro e si è preferito non cercarli attivamente per la costruzione dei dibattiti; molte di esse si sono progressivamente allontanate impoverendo il dibattito stesso. Nonostante alcune presenze e adesioni dei suoi rappresentanti, in questa rete poco o nulla si è fatto per stimolare le interlocuzione con le realtà delle persone disabilitate e neurodivergenti, che pongono sfide emancipatorie alle epistemologie mediche e assistenziali e ricollocano su un piano fortemente politico e sociale i temi della salute mentale e della disabilità imponendo anche l’urgenza di nuove forme di presa in carico qui e ora, e non solo dopo che il neoliberismo sarà abbattuto (si veda la rete dei Disability Pride o di Neuropeculiar; si può dire che questa indicazione sia oggi stata positivamente accolta dal Tavolo Neurodivergenze e Disabilità degli Stati Genderali, che ha elaborato una piattaforma vertenziale molto legata all’attualità incarnata di questi problemi). Si è dunque affermata la tendenza a tralasciare le spinte all’autorappresentanza che, pur con livelli variabili di ambivalenza, attraversano la società e pongono sfide pratiche e teoriche ai servizi sociosanitari nel loro complesso. Non si è colta la necessità di collocarsi con forza nel campo ampio e ambiguo dell’attuale “partecipazione” per dirimere praticamente la distinzione tra “vera e falsa partecipazione” articolando la nostra posizione in modo da dare forza a chi in questi contesti prova senza forza a portare posizioni critiche incarnate.
Sul piano del metodo questa rete si è autodichiarata alla ricerca di “convergenze”, seguendo l’indicazione del Collettivo di Fabbrica GKN, tuttavia tale indicazione è stata risolta nella sua forma più meccanicistica.

Dalla manifestazione di Bologna del 22 ottobre 2022 abbiamo visto che esiste una grande disponibilità a mobilitarsi, anche con pratiche decise, quando si avverte che la partecipazione non si limita a sostenere uno o l’altro ceto politico; la pratica della convergenza potrebbe a questo proposito essere considerata come il superamento dell’ipotesi nefasta che un movimento su questi temi possa immediatamente diventare di massa grazie a soluzioni di verticalizzazione organizzativa o di irrigidimento tattico-identitario. Siamo piuttosto in una fase in cui è necessario aprire interlocuzioni e collocarsi in – o crearli ex novo – orizzonti di confronto ampi che ci permettano di tenere insieme una serie di esperienze e afflati progressisti ed emancipatori che negli ultimi 20 anni sono rimasti irrelati non trovando ambiti di confronto e rafforzamento reciproco. La “convergenza” avrebbe dovuto realizzarsi organizzando, almeno sui temi della salute e della sanità (ma forse sarebbe stato utile farlo anche sul tema No Passante e lotte ambientali in generale) assemblee di approfondimento con le realtà locali – evitando che i dispositivi assembleari fossero usati solo quando è chiaro ai soggetti egemonici in carica che possono indirizzarne la composizione e i contenuti. Si tratterebbe di assemblee in cui si possano chiarire differenze e reciproci limiti tra diverse tattiche

e strategie, senza che questa discussione venga annullata dal colpo di spugna dell’irrigidimento tattico-identitario. Si perviene altrimenti solo a una forma meccanica di convergenza, per cui essa non si basa mai su un dialogo, anche tra posizioni lontane nella constatazione reciproca delle differenze, ma richiede la precedente accettazione del particolare irrigidimento tattico-identitario del soggetto che ti propone di convergere. Nell’ambito salute e sanità, l’esito che ne deriva sono mobilitazioni frustranti, scarsa partecipazione, incontri in cui tendenzialmente ci si parla addosso per sottolineare la correttezza ideologica delle proprie posizioni.
Mentre dovremmo tematizzare che oggi – rifuggendo da ogni identitarismo tattico – c’è bisogno di confrontarci con le tematiche nuove poste dalle reti di mutualismo sociale, dalle esperienze emancipatorie e partecipative del terzo settore (sia laico che cattolico), dalle sperimentazioni organizzative più avanzate nate tra reti di professionisti le cui elaborazioni confluiscono molto più facilmente dentro le campagne per lo sviluppo delle cure primarie e delle case di comunità – anche in ottica compatibile e con obiettivi migliorativi dell’attuale Pnrr – che in ambiti immediatamente politici. Rientra qui la già citata Cooperazione di Comunità, quel terzo settore innovativo e interessato a produrre benessere sui territori – pure se in una forma che attualmente è compatibile con i processi di destrutturazione della centralità statale.
Chiaramente le tattiche di questi soggetti sono maturate in un alveo complessivo di compatibilità politica, ma esse generano sperimentazioni e prassi che spesso hanno impatti e significati pratici più progressisti di quanto avviene nel solo servizio pubblico difeso dai ceti professionali in resistenza e sindacalmente mobilitati. Non possiamo non tematizzare la questione per riflettere anche su come riportare fuori dalla compatibilità sistemica queste esperienze di innovazione. Impossibile sviluppare questa ultima ipotesi senza costruire orizzonti di azione pubblica che siano strutturalmente intrecciati in modo intersezionale, e non semplicemente giustapposti: si tratta della necessità di cogliere il legame tra salute e sanità all’interno di un orizzonte più ampio che metta in primo piano la riproduzione sociale e che può essere definito solo dall’incontro con movimenti ecologisti e transfemministi in modo veramente politico e non identitario, senza pretese di egemonia.

Guardando all’esperienza della Rete promotrice dei Congessi per la Salute emergono i limiti più generali di una visione meccanicistica di cosa voglia dire fare movimento: i comitati a difesa di ospedali e servizi sanitari pubblici che vi partecipano hanno sempre difficoltà a coinvolgere professionisti; d’altra parte le poche esperienze di operatori sanitari sindacalizzati che vi partecipano hanno sempre molta difficoltà a coinvolgere le comunità in senso più ampio nelle loro mobilitazioni. Quello che in ogni caso ne viene fuori fortemente sottovalutato è l’ attenzione alle prassi. Il ricorso al termine quanto mai generico di “umanizzazione” che vediamo nella bozza di documento con cui si promuove la mobilitazione del 17 dicembre tradisce l’inadeguatezza del dibattito su questo punto. Non si coglie che bisogna ricostruire il legame tra le resistenze dal basso e le visioni scientifiche del personale tecnico e professionale, non si coglie cioè che la portata del movimento su questi temi sta nella “politicizzazione della medicina”, nella produzione di saperi e di una nuova scienza, per costruire la quale è oggi necessario ripartire dalle riflessioni esistenti che già vanno in direzione di una maggiore autogestione della salute, in campo transfemminista come nelle reti di automutuoaiuto parzialmente sussunte dalla governance, nei consultori e nei centri antiviolenza come nelle sempre crescenti associazioni di advocacy che stanno ambiguamente tra voice e partecipazione istituzionalizzata; allo stesso modo è necessario ricostruire il dialogo tra le forme di mobilitazione per la difesa dei presidi sanitari esistenti con le sperimentazioni che vanno in direzione di una maggiore territorializzazione dei servizi e dei contesti cooperativi più attenti – che rischiano sempre di essere messi in una fuorviante contrapposizione dai centri di governo. Per non annaspare in queste contraddizioni è necessario ricostruire un confronto e un accordo con le mobilitazioni dell operator? sociali e dell lavorator? di tutto il terzo settore, che in questi mesi hanno ricominciato a mobilitarsi, ma con un approccio che riesca a tenere aperto il dialogo anche con la parte più avanzata della cooperazione, per andare a stanare le contraddizioni dei modelli di privatizzazione su cui hanno prosperano le dirigenze aziendalistiche anche di regioni storicamente progressiste come Emilia Romagna e Toscana.

Contributo di Luca Negrogno

Sociologo

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