Quando Agamben, nel 2003, si oppose alle biometria degli Usa

Nel 2003, Giorgio Agamben, filosofo ed epistemologo italiano, matura a la decisione di abbandonare l’incarico di professore all’Università di New York in protesta contro i nuovi dispositivi di controllo, imposti dal governo statunitense ai cittadini stranieri che si recano negli Stati Uniti d’America. I dispositivi consistevano nel prelevare di dati biometrici, lasciare le proprie impronte digitali ed essere schedati.

Tra il 2003 e il 2004 anche altri intellettuali, seguendo l’esempio di Agamben, abbandonarono il proprio posto di lavoro all’Università di New York, tra i quali anche Carla Benedetti, docente italiana di Teoria della Letteratura alla New York University che sospese il suo insegnamento. 
Quello di Agamben fu un gesto apparentemente piccolo ma politicamente rilevante che toccò una tecnologia del potere (quella che Foucault chiamava “biopolitica”) che oggi è sempre più dilagante e che la politica fa fatica ad analizzare.

Giorgio Agamben, in un articolo uscito su “La Repubblica” l’8 gennaio 2004 dal titolo “Se lo stato sequestra il tuo corpo”, comunicò la sua decisione di cancellare il corso che avrebbe dovuto tenere a marzo di quell’anno alla New York University, perché non voleva sottoporsi ai nuovi dispositivi di controllo sociale imposti dal governo americano ai cittadini stranieri che si recano in U.S.A.

Riporto di seguito l’articolo di Agamben, breve ma pieno di spunti, per una riflessione più ampia sulle nuove tecnologie di potere. Un articolo che può farci riflettere anche sugli attuali dispositivi tecnopolici come il Green Pass, che trovano giustificazione nell’attuale stato d’eccezione prolungato a causa della crisi sanitaria da Covid-19. Un articolo che, coerentemente, rispecchia le posizioni dello stesso Agamben anche sullo stato di emergenza da Covid-19 e i suoi risvolti biopolitici:
Ho appreso oggi dai giornali che i cittadini stranieri che si recano negli Stati Uniti con un visto dovranno essere schedati e lasciare le loro impronte digitali al loro ingresso nel paese. Poiché non intendo sottopormi a una tale procedura, ho immediatamente annullato il corso che dovevo tenere in marzo presso la New York University. Cercherò qui di spiegare perché, malgrado la mia simpatia per gli studenti e i professori americani, con i quali ho da anni relazioni di lavoro e di amicizia, ritengo necessaria e inevitabile una tale decisione, che vorrei fosse condivisa da altri intellettuali e docenti europei. Non si tratta, infatti, soltanto della sensibilità individuale a una procedura cui venivano sottoposti in passato e sono tuttora sottoposti in molti paesi i sospetti criminali e i perseguitati politici. Se fosse soltanto questo, sarebbe perfino pensabile di decidere di condividere per solidarietà le condizioni umilianti cui vengono sottoposti altri esseri umani. Ma il problema eccede di gran lunga i limiti della sensibilità personale e riguarda il normale statuto giuridico-politico (o forse si dovrebbe ormai dire semplicemente: biopolitico) dei cittadini degli stati cosiddetti democratici in cui ci troviamo a vivere. Ormai da anni, in modo dapprima occasionale e subliminare, e poi sempre più esplicito e insistente, si cerca di persuadere i cittadini ad accettare come normali ed umani dispositivi e pratiche di controllo che sono state sempre considerati eccezionali e inumani. E’ noto che oggi il controllo che gli Stati possono esercitare sugli individui grazie all’ uso di dispositivi elettronici come le carte di credito e i telefoni cellulari raggiunge limiti un tempo impensabili. Ma vi sono soglie nel controllo e nella manipolazione dei corpi, il cui oltrepassamento segna una nuova condizione biopolitica globale, un passo ulteriore in quella che Foucault definiva una sorta di progressiva animalizzazione dell’ uomo attuata attraverso le tecniche più sofisticate. La schedatura elettronica delle impronte digitali e della retina, il tatuaggio sottocutaneo e altre pratiche del genere sono elementi di questa soglia. Le ragioni di sicurezza che vengono addotte per giustificarle non devono trarre in inganno. L’ esperienza insegna che pratiche che vengono riservate inizialmente agli stranieri, vengono poi estese a tutti. Ciò che qui è in questione è la nuova relazione biopolitica «normale» fra i cittadini e lo stato. Questa non riguarda più la partecipazione libera e attiva alla dimensione pubblica, ma l’ iscrizione e la schedatura dell’ elemento più privato e incomunicabile: la vita biologica dei corpi. Ai dispositivi mediatici che controllano e manipolano la parola pubblica, corrispondono i dispositivi tecnologici che iscrivono e identificano la nuda vita: tra questi due estremi – una parola senza corpo e un corpo senza parola – lo spazio di quella che un tempo si chiamava politica è sempre più esiguo e ristretto. Anni fa mi è capitato di scrivere che il paradigma politico dell’ occidente non è più la città, ma il campo di concentramento, non Atene, ma Auschwitz. Era, naturalmente, una tesi filosofica e non storiografica. Non si tratta, infatti, di confondere fenomeni che vanno tenuti distinti. Vorrei soltanto suggerire che è probabile che il tatuaggio a Auschwitz apparisse come il modo più «normale» ed economico di regolare l’ iscrizione dei deportati nel campo. Il tatuaggio biopolitico che oggi ci impongono per entrare negli Stati Uniti è la staffetta di quello che domani potrebbero farci accettare come l’ iscrizione normale dell’ identità del buon cittadino nei meccanismi e negli ingranaggi dello stato.

Lorenzo Poli

Collaboratore redazionale del mensile Lavoro e Salute

28/7/2021

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