Quando ci si affeziona troppo a un’idea. La storia di alcuni falsi miti scientifici

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Esiste qualcuno che abbia mai tentato di enumerare tutti i miti scientifici diffusi negli interstizi del sapere comune? Si può pensare sia un’impresa quasi impossibile dato il gran numero ipotizzabile. Senza pretese di assolutezza si può comunque rintracciare l’origine e la diffusione di qualche mito curioso, pericoloso o dannoso ed eventualmente tentare di emendare l’errore. È infatti possibile che la loro persistenza possa avere effetti diretti o collaterali dannosi non solo per i singoli soggetti nella loro vita quotidiana ma per la società intera, soprattutto se le ripercussioni investono ambiti cruciali quali quello medico, economico ed educativo. Di questo scrive Megan Scudellari in un provocatorio e controverso articolo pubblicato di recente sulla rivista Nature [1]. La giornalista passa in rassegna cinque miti scientifici rintracciandone l’origine e mostrandone la persistente diffusione non solo tra le persone comuni, ma anche all’interno della comunità scientifica. Paradossalmente proprio quella comunità che sarebbe votata alla dissoluzione delle superstizioni si ritrova talvolta invischiata in pregiudizi che ne distorcono i percorsi di ricerca, irrigidendoli in un’attività conservatrice.

Il primo mito ridimensionato è quello secondo cui gli screening medici permettono di salvare vite per qualsiasi tipo di tumore. Esemplare è il caso coreano riguardante lo screening per il tumore alla tiroide: dopo l’introduzione di una nuova tecnica di rilevazione a fine anni novanta si è avuto un incremento dell’individuazione di tumori alla tiroide e dei successivi interventi. L’anomalia è che la percentuale di morti è rimasta uguale. Coloro che hanno notato il problema e suggerito di evitare o sostituire lo screening sono stati attaccati da varie associazioni mediche che hanno ripetuto l’indispensabilità degli screening e la necessità delle terapie. In origine, all’inizio del XX secolo, molti dottori arrivarono a concludere che i risultati migliori nel trattamento dei tumori si ottenevano quand’essi erano diagnosticati precocemente, ne conseguiva l’idea che “prima un tumore è diagnosticato, più alte sono le possibilità di sopravvivere”. Questo concetto è stato alla base della formazione di generazioni di medici. Oggi resta valido, ma la sua universalità è messa in discussione.

Ricerche recenti hanno mostrato che in alcuni casi un rilevamento precoce non garantisce la salvezza attesa. Una recensione di cinque trials medici che hanno coinvolto 341342 persone ha messo in luce come gli screening non contribuiscano ad abbassare il numero di morti per tumore alla prostata. Si può inferire che alcuni tumori conducano alla morte indipendentemente da quando siano rilevati e curati. È da sottolineare che il problema sta nella generalizzazione “ogni tipo di tumore”, infatti non viene messa in questione l’utilità dello screening per molte tipologie di tumore, laddove vi siano risultati positivi corroborati, per esempio per il tumore alla cervice o al colon, ma in altri non si trovano effetti positivi soddisfacenti. Va poi considerato che il rilevamento di un tumore può avere effetti negativi sulla salute delle persone che vengono sottoposte ad interventi e cure debilitanti, anche nei casi in cui si è affetti da un tumore a crescita lenta con pochi danni diretti immediati.

A rinsaldare il mito contribuiscono coloro ai quali è stato diagnosticato un tumore proprio grazie a uno screening e che sono guariti dopo un intervento. Non tenendo conto della specificità di ogni situazione e delle differenze complesse che riguardano ogni tumore, propagandano gli effetti salvifici degli screening in modo acritico, contribuendo a diffondere idee scorrette e talvolta false speranze. I medici continuano a organizzare meeting per discutere a quale età e su quali fattori di rischio concentrare gli screening, perdendo di vista il centro del problema (le cause di insorgenza) e non soffermandosi a ponderare l’efficacia oggettiva della pratica nei vari casi. È anche un problema di modelli comportamentali: le persone preferiscono fare un test saltuario di pochi minuti piuttosto che cambiare radicalmente le proprie abitudini quotidiane, per esempio aumentando l’attività fisica, smettendo di fumare o migliorando la propria alimentazione per prevenire il rischio di insorgenza.

Il secondo mito è un classico: i radicali liberi sono cattivi e gli antiossidanti buoni. La teoria proposta negli anni cinquanta dal dottor Denham Harman per spiegare l’invecchiamento afferma che i radicali liberi, sottoprodotto del metabolismo delle cellule, producono danni cellulari e invecchiamento. Il corollario è che essendo gli antiossidanti neutralizzatori dei radicali liberi, fanno bene e riducono l’invecchiamento. Il successo della teoria ha fatto sì che questa semplice correlazione iniziasse a modificare le abitudini alimentari di molte persone inducendole a introdurre molti antiossidanti nella dieta, per esempio molta vitamina C. Tuttavia, nel 2000 uno studio condotto su topi ha messo in evidenza l’inesistenza di una differenza nell’invecchiamento tra topi ingegnerizzati per produrre più radicali liberi e altri normali. La correlazione forte tra radicali liberi e invecchiamento non trova più consenso unanime. D’altra parte studi sugli antiossidanti hanno mostrato che questi paiono prevenire gli effetti salutari degli esercizi fisici e altri sono stati associati persino a un aumento del tasso di mortalità. Nonostante questi dati il commercio alimentare degli antiossidanti non ha subito alcun cambiamento e i grandi produttori perpetuano la vecchia formula degli antiossidanti efficaci per arrestare l’invecchiamento. Ancora molte reticenze accompagnano i tentativi di pubblicare articoli che sottolineano possibili effetti benefici dei radicali liberi, né ricevono un’adeguata pubblicità. Solo ora alcuni studiosi cominciano ad ammettere che forse qualche modello è da rivedere. Ne conseguirebbe un disorientamento dei ricercatori, tutt’ora indecisi su quale strada percorrere per fare chiarezza sul processo dell’invecchiamento.

Un altro mito, correlato a residui di antropocentrismo, è quello secondo cui la nostra specie sarebbe caratterizzata da un cervello grandissimo. È diffusa la nozione secondo cui le nostre formidabili capacità cognitive siano dovute a un grosso e denso encefalo che permette alla nostra specie di spiccare tra tutte le altre, ma a quanto risulta dai dati ciò è banalmente falso. Se si considera la proporzione tra le dimensioni dell’encefalo e le dimensioni corporee, i topi e i delfini ne hanno una pressoché identica alla nostra e alcuni uccelli addirittura superiore. Oltretutto il nostro cervello si trova in una scala di proporzione continua con quello dei primati e anche il numero delle cellule è stato inflazionato: dai 100 miliardi si è scesi a 86 miliardi. Certo i nostri encefali non sono identici a quelli degli altri primati e si differenziano per altre caratteristiche, come l’espansione della corteccia cerebrale e la ristrutturazione avvenuta in strutture neurali precise. Ma i nostri cervelli non sono unici a causa della loro eccezionale grandezza. Questa idea ha svolto un ruolo negativo inducendo gli scienziati a concentrarsi su determinate ricerche dimenticandone altre che solo recentemente si stanno intraprendendo con risultati molto significativi. Per esempio, studi sul metabolismo energetico, sul tasso di sviluppo neurale e sulla connettività a lungo raggio dei neuroni. In una rete complessa, contano più il numero e la qualità delle connessioni delle dimensioni quantitative. Il cambiamento di prospettiva che sta ora avvenendo su quest’onda pare proficuo e foriero di nuove scoperte che impegneranno le generazioni a venire in numerosi progetti tra i quali lo Human Connectome Project.

Un ulteriore mito riguarda le modalità di insegnamento e apprendimento: gli individui imparano meglio se si insegna nel loro stile di apprendimento preferito. A partire da questa idea si sono moltiplicate indagini su quanti e quali possano essere gli stili di apprendimento preferiti da una pletora di soggetti e sono stati elaborati programmi di insegnamento variegati adatti ad ognuno. Alla base vi sono due nozioni corrette: ogni soggetto ha una preferenza su come ricevere informazioni ed è provato che gli insegnanti raggiungono risultati migliori quando presentano l’informazione in più modalità sensoriali. Ma quello che un soggetto preferisce non è necessariamente il meglio per se stesso. Bias emozionali e aspettative soggettive possono distorcere il quadro. Nel 2008 è stato condotto uno studio di revisione su tutte le ricerche condotte sugli stili di insegnamento e sui loro risultati. È emerso che poche ricerche sono state condotte in modo rigoroso e le poche accettabili hanno mostrato che non si ottenevano risultati migliori insegnando ai vari soggetti secondo lo stile di insegnamento da loro preferito. Nonostante la sua grande popolarità, l’approccio pare essere privo di basi empiriche soddisfacenti. Ma tale popolarità ha influito sulle prospettive di profitto di molte aziende che hanno puntato sulla pubblicazione di miriadi di testi sull’argomento, avviando un mercato difficilmente estinguibile. Si aggiungono alcuni scienziati che collaborano alla diffusione del mito citando superficialmente presunti buoni risultati ottenuti da questo approccio. Infine è risultato difficoltoso mettere in dubbio queste pratiche proprio con quegli insegnanti che vi si sono specializzati costruendo le proprie carriere. Come conseguenza collaterale vengono spesso ignorati metodi efficaci quali l’insegnamento attraverso parole e grafica accomunate o l’elaborazione autonoma di sintesi e concetti.

L’ultimo mito sottoposto a critica è quello secondo cui la popolazione umana crescerebbe esponenzialmente, con la prospettiva di essere condannati ad affogare in un mare di persone. Questa paura è stata innescata da Thomas Malthus a fine del XVIII secolo, nel suo libro Saggio sul principio della popolazione. In esso postulava che la popolazione umana crescesse in modo esponenziale, ed essendo le risorse disponibili inferiori a tale massa in crescita, questa fosse condannata alla fame e alla miseria. Altri scenari apocalittici sono stati avanzati fino all’epoca recente. Ma studi popolazionali più raffinati paiono smentire il presupposto alla base: la popolazione non cresce in modo esponenziale. La popolazione odierna cresce a un tasso che è la metà di quello del 1965 e le proiezioni prevedono che si supereranno i 9 miliardi di esseri umani verso il 2050 per poi andare verso una stabilizzazione. Il problema connesso all’aumento della popolazione è quello della mancanza delle risorse necessarie alla sua sopravvivenza, come cibo e acqua. Secondo la FAO la produzione globale odierna di cibo eccede quella della popolazione, ma nonostante ciò la malnutrizione e la fame persistono in una parte consistente della popolazione mondiale. Il cibo prodotto attualmente, si calcola, potrebbe sfamare 10 miliardi di persone, perché allora qualcuno è malnutrito? Le ragioni sono varie. Non tutta la produzione alimentare è destinata agli umani, una parte è per il bestiame, un’altra per la produzione di carburanti e di materiali vari, un’altra ancora è banalmente sprecata. Infine ciò che rimane non è distribuito equamente, ma è monopolizzato dai paesi ricchi. Il problema non è dunque di sovrappopolazione bensì di povertà, di una distribuzione diseguale della produzione: è un problema di giustizia e diseguaglianza. Molti si fermano all’eliminazione dello spauracchio della sovrappopolazione e non proseguono nel considerare le problematiche connesse alla povertà, alla disuguaglianza economica, alle nefaste conseguenze del continuo aumento della popolazione sugli ecosistemi.

L’analisi di questi casi esemplari suggerisce che sarebbe necessario vigilare più attentamente su quelle estrapolazioni illecite a partire da lavori validi, che subiscono distorsioni e pubblicità eccessiva, innescando meccanismi sociali difficili da eradicare. Si tratta di una questione di etica della comunicazione: bisognerebbe radicare sempre le proprie affermazioni su dati e ricerche affidabili ed evitare di aderire acriticamente a qualsiasi idea o teoria che si reputi “attraente”. È un problema che riguarda anche il modo in cui gli stessi scienziati comunicano le proprie scoperte: si dovrebbero evitare i messaggi sensazionalistici (ammiccanti alla rivoluzione delle rivoluzioni, alla scoperta del secolo) finalizzati solo ad attrarre lettori e finanziamenti secondo una logica di marketing aziendale. Perché in tal modo l’ideale di comportamento alla base della comunità scientifica viene tradito per esigenze economiche e sociali, che intervengono a motivare gruppi di ricerca nella loro attività.

Nonostante la battaglia contro i miti pseudoscientifici diffusi sia condotta da lungo tempo, questi persistono irrimediabilmente, addirittura paiono rinforzarsi. Un’esemplificazione: campagne mediatiche raccomandano la vaccinazione dei neonati per evitare epidemie? Le famiglie storcono il naso e pensano che le case farmaceutiche, magari in combutta con lo Stato, desiderino solo arricchirsi a discapito della salute dei loro figli e dunque non li vaccinano, anzi consigliano ai propri vicini di non cadere nel tranello. Come riporta Scudellari nell’articolo, alcune ricerche hanno mostrato che l’esposizione dei genitori a messaggi in favore della vaccinazione li ha indotti a non vaccinare i propri figli. Dissipare i miti è difficile perché molteplici sono i fattori in gioco: si ha a che fare con emozioni, paure, pregiudizi cognitivi, abitudini, e in certi casi resistenze esercitate da coloro che traggono vantaggi economici dalla diffusione di idee false. Data la correlazione con effetti dannosi (indurre persone a ricorrere a trattamenti medici o pseudo-medici non necessari, influenzare scelte economiche potenzialmente nocive, compromettere percorsi educativi) sarebbe auspicabile un’attività di prevenzione più capillare, condivisa e metodica al fine di evitare che la ricerca scientifica venga distorta e fraintesa.

[1] Scudellari, Megan. “The science myths that will not die.” Nature 528.7582 (2015): 322-325.

Olmo Viola

10 marzo 2016 da Micromega-La mela di Newton

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