Quando il lavoro fa male

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Era il secondo incidente in poco tempo. Un operaio della ditta metalmeccanica vicino alla stazione aveva urtato accidentalmente un cavo dell’alta tensione, con un’ asta di ferro. Mio padre, ferroviere, mi disse che era morto carbonizzato.
La gente parlava spesso di incidenti accaduti a chi stava lavorando nei campi, nei boschi, nelle botteghe artigiane o nelle poche fabbriche del paese. Del resto si sapeva: «Chi lavora può farsi male…». Il farsi male era vissuto con fatalismo e senso di ineluttabilità. Il falegname faceva la conta delle dita rimaste intere, il contadino raccontava di quando era stato incornato dalla mucca, il taglialegna di quando gli si era rovesciato addosso l’albero che stava segando, il bottaio di quella volta che si era alzato indenne dopo essere caduto  dalla pila delle doghe ecc. ecc.
Le madri e le mogli raccomandavano sempre di stare attenti. Si sperava solo che non fosse grave, altrimenti era la “volontà del Signore”.
Chi aveva avuto incidenti li raccontava come avventure di guerra; quando invece erano gravi, com’era successo a Elide, che le si era infilato nel basso ventre il manico della forca, scivolando dal fienile, se ne parlava il meno possibile e a bassa voce.
Non c’era un’età per farsi male. A 6 anni si tagliava la legna con la scure, o si usava il falcetto per pulire i bordi del campo, oppure la forca per spandere il fieno. Finite le scuole, chi era fortunato andava a bottega rischiando di farsi male con gli attrezzi da lavoro. I corpi  magri e muscolosi degli adulti erano tatuati da cicatrici raccolte fin dalla giovane età.

Solo pochi potevano beneficiare del sostegno della Cassa Nazionale di Assicurazione per gli Infortuni sul Lavoro. La maggior parte delle attività lavorative, infatti, non era soggetta ad assicurazioni, e non c’era informazione in merito; del resto non si sapeva nemmeno quello che accadeva nel paese vicino.
Oggi i mezzi di comunicazione danno immediata e diffusa risonanza agli infortuni sul lavoro, e ognuno di noi ha la percezione di una crescita esponenziale di incidenti, poi confermati dai dati statistici. Una tragica realtà sociale e un dramma privato che vede migliaia di lavoratori coinvolti in infortuni più o meno gravi, e troppo spesso letali. Migliaia di familiari che vedono stravolte le loro vite, e troppo spesso sono costretti a una rielaborazione del lutto per una morte inattesa e ingiustificata.
In quei tempi chi poteva continuare a lavorare restava in azienda con altre mansioni, gli altri se ne stavano a casa ad aiutare i familiari nelle attività agricole. Non venivano ricollocati. Dopo alcuni decenni di tregua apparente, in cui nonostante tutto, si è riusciti a tutelare il loro diritto al lavoro, ora siamo di nuovo in difficoltà.
Le mansioni di ripiego (assemblatore, fattorino, usciere ecc.) cui venivano adibiti sono state man mano soppresse o attualmente richiedono competenze informatiche, linguistiche e così via. E la stessa situazione sta avvenendo nei reparti produttivi.
Anche la “buona parola” di un tempo – oggi ridenominata raccomandazione – non è sufficiente per facilitare l’accesso al lavoro. La tecnologia e l’individualismo che hanno sostituito la solidarietà fra pari, preclude un facile accesso al mondo del lavoro. Oggi sono indispensabili competenze professionali, capacità relazionali e struttura psicologica sufficientemente duttile e impermeabile allo stress. In assenza di queste caratteristiche, il lavoro diventa una quotidiana frustrazione.
Purtroppo queste caratteristiche spesso non appartengono alle persone con disabilità, e quindi necessitano di un servizio che le prenda in carico e le accompagni al lavoro.
Gli invalidi del lavoro, come tutte le altre persone con disabilità, richiedono un percorso di accompagnamento personalizzato che tenga conto del quadro psicologico della persona dopo l’infortunio, della volontà di riprendere a lavorare e delle aspettative di lavoro e di vita. Solamente dopo si può concordare un progetto di reinserimento personalizzato che risponda ai reali bisogni della persona.

Da alcuni anni si sta cercando in diversi modi di favorire e sostenere la riqualificazione professionale delle persone invalide per cause di lavoro, ma spesso non è possibile per l’età, per le difficoltà di apprendimento, perché provengono da altre culture; a volte anche per aspetti psicologici  rinunciatari, o per sofferenze psichiche conseguenti all’infortunio stesso.
La Legge 68/99 (articolo 1, comma 1, lettera b) annovera fra i disabili le «0persone invalide del lavoro con un grado di invalidità superiore al 33 per cento, accertata dall’istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (INAIL) in base alle disposizioni vigenti» e l’articolo 18 della medesima norma prevede un sostegno al collocamento degli «orfani e coniugi superstiti di coloro che siano deceduti per causa da lavoro», nonché per «i figli di soggetti riconosciuti grandi invalidi per causa di lavoro». Per questi è fatto obbligo alle aziende con più di 50 dipendenti fino a 150 di assumere un familiare, e per le aziende con più di 150 dipendenti l’1% dei dipendenti da computare ai fini della quota di  riserva.
Inoltre, il Decreto del Presidente del Consiglio del 13 gennaio 2000 (Atto di indirizzo e coordinamento in materia di collocamento obbligatorio dei disabili, a norma dell’art. 1, comma 4, della legge 12 marzo 1999, n. 68) aveva stabilito che, essendo l’INAIL in possesso di idonei strumenti tecnici e operativi, l’Istituto stesso svolgesse l’accertamento dello stato invalidante, curando la diagnosi funzionale e la redazione della relazione conclusiva, inclusiva di suggerimenti al fine del collocamento mirato.
Fino al mese di dicembre del 2014 questa era l’unica competenza attribuita all’INAIL, mentre era compito esclusivo del Collocamento Disabili collocare le persone al lavoro. Successivamente, però, con la Legge 190/14 (Legge di Bilancio per il 2015; articolo 1, comma 166), il Legislatore ha stabilito che fossero attribuite all’ INAIL «le competenze in materia di reinserimento e di integrazione lavorativa delle persone con disabilità da lavoro, da realizzare con progetti personalizzati mirati alla conservazione del posto di lavoro o alla ricerca di nuova occupazione, con interventi formativi di riqualificazione professionale, con progetti per il superamento e per l’abbattimento delle barriere architettoniche nei luoghi di lavoro, con interventi di adeguamento e adattamento delle postazioni di lavoro».
Quindi l’INAIL si fa carico degli oneri economici per l’abbattimento di barriere architettoniche (dagli interventi edilizi a quelli impiantistici e domotici), per l’adattamento delle postazioni di lavoro (dagli arredi agli ausili tecnologici e informatici), oltreché per l’adattamento dei veicoli da lavoro, per la formazione personalizzata, l’addestramento e il tutoraggio.
Sempre la Legge 190/14 precisa che gli oneri economici sono a carico dell’INAIL, ma  non chiarisce il rapporto con il Collocamento Disabili ai fini occupazionali. L’INAIL, tuttavia, pur disponendo delle necessarie risorse economiche, non è riuscito a conseguire risultati significativi, a causa dell’assenza di una strategia operativa, di personale adeguatamente preparato e di procedure facilitanti.

A breve la direzione dell’Istituto verrà affidata a Franco Bettoni, persona invalida del lavoro, già presidente dell’AMNIL (Associazione Nazionale fra Lavoratori Mutilati e Invalidi del Lavoro) e della FAND (Federazione tra le Associazioni Nazionali delle Persone con Disabilità). Finalmente, dunque, una scelta mirata: la persona giusta al posto giusto. Da lui ci aspettiamo un adeguato ed efficace aggiornamento delle politiche attive dell’INAIL, non più basate solo sulla disponibilità di risorse economiche, ma sulla sburocratizzazione dei sostegni all’inserimento lavorativo, sulla formazione del personale e sul ricorso a buone prassi.

Marino Botta

6/11/2019 www.superando.it

Già responsabile del Collocamento Disabili e Fasce Deboli della Provincia di Lecco (marino.botta@umana.it).

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