Quando il sindacato non c’è ( o si nasconde ) lo si sogna a occhi aperti

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Parlare di sindacato suscita perplessità e sconcerto sia nelle persone con tanti anni di lavoro che nei giovani ed in entrambi i casi c’è una comune diffidenza ed indifferenza nel verificarne vitalità ed efficienza nei diversi posti di lavoro. Tanti sindacalisti volontari si pongono una domanda speculare a quella di molti lavoratori, si domandano se abbia ancora senso e utilità spendere parte della propria giornata per impegnarsi nel sindacato. Una domanda esistenziale che esula dalle battaglie delle varie sensibilità contrattualistiche interne ai sindacati (come la CGIL, storicamente sede di dialettica dura tra posizioni diverse e a volte contrapposte) che hanno, chi più e chi meno, una natura contrattualistica come propria ragione sociale.

Allo stato dei fatti, a mio parere, non ci sono più le condizioni culturali e sociali per sperare di cambiare la natura del proprio sindacato, ma resta vitale combattere per affermare la propria visione contrattualistica partendo dalla capacità di risensibilizzare i lavoratori sui luoghi di lavoro, allontanandosi dal “castello dirigenziale” sempre più lontano dalle condizioni reali del mondo del lavoro.

La dirigenza sindacale dovrebbe anzi, deve, smetterla di “legiferare” a prescindere (come se avesse la verità in tasca per grazia ricevuta) in complicità con le istituzioni governative e locali. Questa modalità, diventata cultura radicata nei grandi sindacati, ha portato allo sfascio dei diritti nel mondo del lavoro e al pessimismo del mondo giovanile e di quello espulso dal mondo del lavoro con le politiche dei governi negli ultimi decenni. Una cultura radicata in tutte le fasce d’età, categorie sociali e settori lavorativi, una subcultura che ha estirpato ogni concetto propedeutico alla ribellione prefigurando una società d’inermi dove il disonesto, politico al potere e imprenditore, gioca come vuole vincendo facile, e addirittura, con il consenso degli sconfitti.

Ci siamo abbruttiti dentro una società di falsi, ma non siamo stupidi e cerchiamo di capire come uscirne, per lo meno sognando come uscirne. E i lavoratori cosa sognano per uscire dagli incubi di un lavoro che toglie salute, stipendio, diritti e professionalità? E i disoccupati cosa sognano per aggrapparsi a uno scoglio di speranza sempre più lontana?

Cosa sognano lo certifichiamo noi di “Lavoro e Salute”, testimoni diretti dai luoghi inariditi del pubblico impiego e della sanità in particolare. Sognano un sindacato che si faccia rappresentativo dei loro incubi trasformandoli in vertenze contrattuali. Questa nostra affermazione potrà sembrare strana e fuori dall’ordine attuale delle cose, ma se non si ricomincia a ridare voce ai sogni, se la materialità del bisogno non ricomincia a ritrovare rispondenza nella vita reale (causa soppressioni legislative dei diritti), si rischia di far rimanere i diritti in un ambito indefinito e indefinibile. Come il riferimento vitale di un amore perduto, i lavoratori hanno perso, anche se sono ancora presenti fisicamente, i riferimenti sul loro luogo di lavoro, quegli RSU che oggi non sanno più che pesci prendere tra i bisogni dei lavoratori e l’autoritarismo aziendale che non è neanche più mitigato dalla concertazione, anch’essa presa a calci dagli attuali violenti rapporti di forza a favore delle cupole aziendali.

L’atteggiamento che riscontriamo nei quotidiani comportamenti di tanti sindacalisti è la cifra delle condizioni di disastro nell’anima del sindacato. Un atteggiamento di assuefazione a qualsiasi atto aziendale e organizzativo degli stessi dirigenti dei servizi, non c’è più una lettura di quanto viene riversato, e riservato a prescindere, sui lavoratori, non c’è più nessun tentativo di confrontarsi alla pari sia a causa impreparazione che del collateralismo con la dirigenza, investita ormai di potere politico sovracontrattuale.

Non c’è un’idealità che costruisca un’utopia possibile e sappiamo dalla storia del sindacato e della stessa democrazia, che senza l’ideologia del cambiamento dello stato di cose presenti si diventa complici, più o meno consapevoli, di una condizione frustrante, che spesso è lamento ipocrita per nascondere la propria inutilità. Non ci riferiamo, ovviamente, a tutti i sindacalisti sui luoghi di lavoro e nemmeno a tutti i funzionari e dirigenti locali e nazionali, ma anch’essi vivono uno stato di prostrazione che li rende inefficaci nel contesto dei loro sindacati.

La conseguenza diretta di questa realtà è stata, e sempre di più sarà se il sindacato non esce dal coma, la scure del Jobs-act, la compressione salariale e dei diritti, il non rinnovo dei contratti (ad oggi risultano otto milioni e 200mila i lavoratori, 2,9 milioni solo nel pubblico impiego, in attesa del rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro) e quei pochi rinnovati hanno visto il peggioramento delle condizioni di lavoro e l’introduzione di quote di welfare aziendale ( bonus al posto di aumenti contrattati) e la manomissione delle norme sulla sicurezza Vi pare un’estremizzazione affermare che l’arroganza aziendale opera con violenta efficacia solo per la benevolenza, o l’inadeguatezza, dei sindacati, in un’ innaturale commistione con le politiche dei governo? Non credo sia una lettura estremizzata della realtà e la prova sta nell’affermazione del modello Cisl (e UIL) che da decenni pratica la riduzione ai minimi termini del contratto nazionale per favorire gli accordi di secondo livello con aumenti irrisori e diversificati.

Il caso del pubblico impiego è emblematico di questa affermazione di sindacato aziendale, con una conseguente apatia generalizzata di lavoratrici e lavoratori, i quali sono nel contempo coscienti che le deroghe ai contratti nazionali peggiorano la qualità del loro lavoro e della loro vita, ma il “che fare” lo rimandano ai sogni di un sindacato che riprenda fare sindacato. Come? Intanto, con grande umiltà, connettendosi con i sogni elementari dei lavoratori (assicuriamo che sono molto lineari e senza pause smemorate) quindi, con estrema onestà cambiare i rapporti devianti con i governi nazionali e quelli locali e a ricaduta con i manager delle loro aziende.

Facile a dirsi e difficile a farsi? No, il rapporto tra sindacati e lavoratori ha le stesse regole della convivenza matrimoniale: o c’è il reciproco ascolto e soddisfacimento delle esigenze di entrambi o salta il rapporto. I lavoratori, mentre sognano compiutamente chiedono in forme incompiute un altro fare del sindacato, non vedono più quasi nessuno accanto nel loro sempre più problematico rapporto con un’ organizzazione del lavoro sempre più distante dalla loro professionalità e dalla loro concezione umanizzante del servizio prestato ai cittadini. Nessuno, o quasi, che sappia interpretare il disagio e il loro linguaggio frastagliato dal pessimismo e dagli arretramenti normativi e stipendiali. Per loro, occupati da anni, il sindacato è un’altra cosa da quello che è oggi, come Quando il sindacato non c’è’ (o si nasconde) lo si sogna a occhi aperti lo vorrebbero, con un linguaggio quasi straniero per noi vecchi di sindacato, i neo assunti variamente contrattualizzati. C’è spazio, necessità di unificare le lotte e di radicalizzarne i contenuti, ma anche di unificare le lotte disperse e a volte disperate, che ci sono in tutti i settori. Per questo, la Cgil e altre forme di organizzazioni presenti, come l’USB (senza inutili e controproducenti contrapposizioni di sigla) a partire dalle proprie storiche peculiarità, devono organizzare dai luoghi di lavoro un produttivo rapporto con la sofferenza, anche dei singoli perchè ascoltare uno vuol dire dare fiducia ad altri dieci.

Errori ne sono stati fatti tanti e tutti a discapito dei diritti del lavoro e dello stato sociale delle fasce povere, però la gente pare non vendicativa, altrimenti Cisl e Uil in particolare non avrebbero ancora milioni di iscritti (a dire il vero in maggioranza pensionati), quindi se si riacquista libertà dai partiti di potere le piazze saranno ancora piene. Piene di bisogni negati da quei partiti ai quali vanno le simpatie, o l’appartenenza, di tanti dirigenti sindacati. Il voto ai partiti di potere è un miscuglio di contraddizioni che oggi vivono in gran parte gli stessi lavoratori che però chiedono materialismo ai sindacati che svolgano il loro ruolo di rappresentanti del mondo del lavoro, della precarietà e della disoccupazione, affrancandosi dalle scelte politiche utilizzando i mezzi adeguati a bloccarne la pericolosità sociale.

Per raggiungere questo obbiettivo ancora oggi la Cgil, nonostante le forti e inconfutabili critiche che le vengono mosse non solo dai lavoratori, ma in sintonia anche dall’interno con le posizioni della componente programmatica “il sindacato è un’altra cosa”, rappresenta la base fondamentale (anche con un lungimirante e paziente rapporto con le migliaia di lavoratrici e lavoratori organizzati nei sindacati conflittuali extraconfederali) per riprendere un percorso di civiltà e di democrazia nel mondo del lavoro Oggi non incide più su nessuna delle decisioni di governi sia sul settore pubblico che in quello privato con la Fiom, che ci riguardano, ma noi abbiamo più che mai bisogno di un sindacato vero, che ci dia forza e coraggio, che combatta la rassegnazione. La precarietà è la condizione comune di tutto il mondo del lavoro. Chi più chi meno, tutti sono diventati precari e la maggioranza delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati stanno tornando indietro di decenni. I ricchi diventano sempre più ricchi, i politici di potere, i grandi manager e burocrati conservano tutto il loro potere, e ingiustizie, corruzione e prepotenza dilagano. In questa situazione la stessa Cgil non ha fatto tutto quello che poteva e doveva fare.

Bisogna ricostruire la contrattazione partendo dai bisogni dei lavoratori rifiutando i vincoli della concertazione e le leggi anti sciopero come la 146. Bisogna aumentare salari e pensioni e legarli al costo della vita per non diventare sempre più poveri. Bisogna eliminare gli scandalosi guadagni dei grandi manager.

Bisogna portare la pensione di vecchiaia a 60 anni, le donne devono poter andare prima e ripristinare quella di anzianità a 40 anni di contributi con il metodo retributivo quindi senza penalizzazioni, mentre l’orario di lavoro settimanale va ridotto a parità di salario, per lavorare tutti.

Bisogna cancellare tutta la legislazione che ha consentito il dilagare della precarietà, ripristinare e estendere l’art.18 contro i licenziamenti ingiusti.

Bisogna ridare al contratto nazionale la funzione di aumento del salario reale e del miglioramento delle condizioni di lavoro. Come fare? Intanto si deve partire da piattaforme condivise dai lavoratori, con rivendicazioni su salario, orario, diritti. Bisogna essere indisponibili a firmare peggioramenti pur di chiudere le vertenze.

Bisogna prospettare una nuova scala mobile per difendere i salari dall’inflazione.

Bisogna abrogare l’art.8 della legge Sacconi, che permette la deroga aziendale ai contratti ed alle leggi.

Bisogna chiedere un salario minimo orario fissato per legge che arrivi a 10mila euro lordi.

Bisogna combattere anche con nuove leggi il super sfruttamento dei subappalti, delle cooperative, delle esternalizzazioni. Bisogna cancellare tutti i provvedimenti di revisione della spesa adottati in applicazione del fiscal compact e per rispettare la cosiddetta parità di bilancio. Basta con la spending review.

Bisogna rilanciare e potenziare la sanità pubblica assieme a tutti i servizi pubblici sociali.

Bisogna contrastare ogni chiusura o riduzione, privatizzazione o esternalizzazione di servizi pubblici sociali, sanitari ed educativi.

C’è un vitale bisogno di una legge sulla democrazia sindacale che garantisca a lavoratrici e lavoratori il diritto a scegliere liberamente la propria rappresentanza e il diritto al voto segreto su piattaforme e accordi.

Da troppo tempo la maggior parte dei sindacalisti pensa che i lavoratori abbiano esigenze troppo materiali, quasi estremiste, per essere prese in considerazione dai sindacati che da anni sono arterie istituzionali e portate alla mediazione di interessi contrapposti? Nessun problema, la mediazione non subita e basata sui rapporti di forza sociali, costruiti con gli unici strumenti democratici in mano al mondo del lavoro, vedi scioperi e contrattazione, rrappresenta la volontà dei lavoratori. Quindi, è fondamentale che si faccia con coerenza sedendosi di fronte alla controparte e non al suo fianco.

Una scelta di campo ancora lontana se assistiamo ancora oggi ad accordi con la Confindustria come quello sulla “riforma egli ammortizzatori” dimenticando, altresì, che è stata già fatta dal governo col Jobs Act, cancellando tutti gli ammortizzatori esistenti e riducendoli alla sola cassa integrazione straordinaria ( riservata ai casi di crisi aziendale per motivi “eccezionali” come terremoti e alluvioni) e all’assegno di disoccupazione (Naspi). Perchè questa malagestione, concordata con gli imprenditori licenziatori, degli “esuberi”, mescolando o sommando Cig e mobilità, che in alcuni casi riuscivano a garantire fino a sette anni di precaria sopravvivenza ai licenziati?

Vogliamo fare lezioni di sindacalismo ai sindacati con milioni di tessere? No, vorremmo solo capire se credono di averci rappresentato in questi due decenni e se credono di farlo ancora.

Vogliamo dare la colpa solo ai sindacati maggiori nascondendo le colpe dei lavoratori che hanno supinamente accettato di tutto, anche nelle pieghe clientelari dei luoghi di lavoro? No, vorremmo solo capire, e lo chiediamo ai sindacati, quali strumenti hanno avuto i lavoratori di fronte a leggi, provvedimenti e contratti imposti a scatola chiusa.

Prima delle ferie estive in una discussione con alcuni colleghi di lavoro in ospedale, alla mia lettura della lamentata assenza del sindacato in questo periodo di monarchia manageriale in Piemonte, mi è stato raccontato un sogno molto semplice e scevro da complessità tipiche di noi sindacalisti.

Vogliamo un sindacato che non venda assicurazioni e biglietti del cinema, ma si occupi di nuova occupazione stabile, turni e sicurezza sul lavoro, perché, ad esempio, l’errore medico/infermieristico nasce quasi sempre dagli estenuanti carichi di lavoro. Un sindacato, quindi, che mi ascolti e si faccia trovare quando lo cerco. Un sindacato che sia svincolato dal clientelismo delle discrezionali logiche premianti dei singoli. Un sindacato che si metta in discussione nelle assemblee, se ha operato senza consultarci“.

Questo è quanto!

franco cilenti

editoriale del numero 5 settembre 2016 del periodico Lavoro e Salute

www.lavoroesalute.org

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