Quando la perdita dei posti di lavoro non conta. La fine dell’accoglienza in Italia

Ci sono storie che non riescono a raggiungere mediaticamente il cuore e la testa dell’opinione pubblica. Non sono infatti una “risorsa” spendibile per ogni scopo: ai media per attirare lettori e ai politici per ottenere consenso. Parlare e scrivere oggi della perdita di lavoro dei tantissimi operatori e professionisti dell’accoglienza non fa notizia come fa invece “la paura dello straniero”.

Basta una semplice ricerca on line per comprendere come gli effetti delle nuove regole sull’accoglienza dei migranti, fissate dal decreto Sicurezza, stiano estendendosi a macchia d’olio in tutta Italia.

Ed è di venerdì scorso la notizia passata in sordina della chiusura dei Centri di Accoglienza Straordinaria gestiti da Arci Lecce. «Dopo tre anni, con poche ore di preavviso e modalità che assumono le sembianze della deportazione chiude il Centro di accoglienza di Gagliano – scrive il referente di uno dei Cas descrivendo l’esperienza appena conclusa in termini assolutamente positivi – abbiamo lavorato in maniera seria e instancabile per creare percorsi di inclusione sociale e lavorativa. E la dimostrazione di aver fatto un buon lavoro passa dal numero di ragazzi che, grazie ad una buona rete sociale di supporto e a un contratto di lavoro, ha la possibilità di rifiutare il trasferimento in un Cara a 200 km di distanza, affittare un alloggio e continuare a coltivare quella possibilità di futuro qui, dove le ‘possibilità’ non sono sicuramente quelle del ricco Nord (d’Italia, d’Europa)».

L’Arci Lecce da tempo aveva denunciato la mancata partecipazione al bando della Prefettura. In un comunicato congiunto (insieme a Cooperativa Rinascita e Vento Nuovo Aps), l’associazione salentina aveva comunicato di non condividere la scelta prefettizia volta a legittimare con la nuova gara «un modello per nulla al servizio delle persone accolte e soprattutto delle comunità che hanno deciso di accogliere». «Non siamo albergatori, non siamo guardiani e non saremo mai parte di un sistema di accoglienza che sta perdendo i requisiti minimi di umanità» scrivevano a marzo 2019. Ieri è arrivata la doccia fredda: «Abbiamo avuto una segnalazione. Ci hanno dato cinque giorni per dire ai ragazzi che dovevano spostarsi… i primi 50 al Cara di Bari Palese – racconta Anna Caputo, presidente di Arci Lecce – Poi hanno mandato una lettera con sole 48 ore di preavviso per altri 50. Anche lì è un bel problema, perché non si vogliono spostare. Solo quattro hanno accettato il trasferimento».

Gran parte dei ragazzi, infatti, sono ben inseriti nel territorio e non hanno nessuna intenzione di andar via. Come soluzione, Arci Lecce sta cercando una casa per tutti quelli che non vogliono allontanarsi dai paesi ospitanti, con cui hanno tessuto relazioni importanti. Ma l’aspetto principale di tutta questa vicenda comune a tante realtà d’Italia, secondo la Presidente Caputo «sarà quello di creare un problema di ordine pubblico, perché molte persone finiranno per strada. Nel momento in cui diventeranno irregolari, non potranno nemmeno più avere un contratto di lavoro, per cui saranno avvicinabili alla criminalità organizzata. Questo non farà altro che avallare la tesi che il governo da tempo porta avanti: che gli stranieri non sono una risorsa ma un problema di ordine pubblico».

Da una parte c’è la questione da risolvere dei migranti espulsi dal mondo dell’accoglienza, circa 450 per Arci Lecce, e dall’altro quella della perdita dei posti di lavoro. Molti di loro, fa sapere Anna Caputo, sono laureati, formati, hanno alle spalle anni di esperienza di studio e di lavoro in questo ambito. Sono circa sessanta persone, tutte giovanissime, per lo più mediatori culturali, che in questi giorni saranno licenziate, senza una copertura adeguata come la cassa integrazione perché non è stato siglato alcun accordo nazionale.

Ma a perdere non sono solamente gli operatori dell’accoglienza, è anche l’indotto: dai professionisti agli affittuari, dai commercianti ai fornitori. Una ricaduta negativa dal punto di vista economico per tutto il territorio che ospitava i Cas.

Come Arci Lecce, hanno scelto di disertare i bandi prefettizi tante associazioni e cooperative impegnate da anni nell’accoglienza dei richiedenti asilo. Le associazioni toscane, ad esempio, si sono unite per fare fronte comune contro le politiche governative dell’accoglienza, decidendo di non partecipare al prossimo bando Cas e distinguendosi in una presa di posizione innovativa.

Hanno sottoscritto La Carta degli Intenti, il Manifesto del Terzo Settore in tema di migrazione promosso dalla Regione Toscana che si inserisce all’interno delle linee guida del “Libro bianco sulle politiche di accoglienza dei richiedenti asilo e dei titolari di protezione internazionale o umanitaria della Regione Toscana” presentato nel 2017 ed estende le proposte per una “società aperta e inclusiva”.

L’obiettivo è quello di offrire soluzioni alternative «che rispondano alle esigenze di coesione e di inclusione sociale e lavorativa di tutti i cittadini, italiani e non, in stato di marginalità», scrive in una nota la Regione Toscana.

Queste sono le notizie “conosciute”, che è possibile reperire semplicemente facendo una ricerca on line. Poi ci sono le informazioni che non arrivano, ma che meritano anch’esse una riflessione collettiva: la chiusura di tanti centri, non solo Cas.

Nella Provincia di Taranto, ad esempio, sono stati chiusi i Cas gestiti dall’Associazione Babele, tra le più impegnate attivamente nell’accoglienza dei migranti. Chiusi a seguito della decisione dell’associazione di disertare il bando prefettizio, che non condivideva «le condizioni previste nel capitolato di appalto assolutamente negative per le persone in accoglienza». Sono stati chiusi anche gran parte dei Cas gestiti dall’Associazione Salam, così come pure ha chiuso i battenti a fine giugno lo Sprar di Martina Franca, gestito sempre da Salam e riconosciuto nel 2017 a Strasburgo tra le eccellenze europee nell’accoglienza dei rifugiati.

Mentre resistono gli operatori dell’ex Canapificio di Caserta, lo Sprar la cui struttura è stata chiusa dall’oggi al domani a marzo scorso e che ha subito il blocco dei fondi disposto, in modo illegittimo, dal Ministero dell’Interno. Continuano con fatica le loro attività supportate da varie associazioni del territorio, nonostante un furto che ammonta a circa diecimila euro. La chiusura del Centro significa «lasciare in difficoltà più di 400 persone a settimana e 40 lavoratori, significa indebolire la lotta allo sfruttamento, all’emarginazione, alla povertà», scrivono nella loro pagina Facebook i gestori del centro.

Se confermate le stime previste dal rapporto della Fp Cgil (fonte: fpcgil.it, aprile 2019) con l’attuazione del decreto Salvini circa 18 mila operatori dell’accoglienza rischiano il posto di lavoro. Molti l’hanno già perso. E sono insegnanti, psicologi, operatori legali e avvocati, assistenti sociali ed educatori, mediatori culturali e cuochi, guardie notturne, infermieri, medici, addetti stampa, organizzatori di eventi interculturali e interreligiosi. Dietro ai distanti acronimi Cas e Sprar/Siproimi c’è un mondo fatto di professionalità e sensibilità che in questi anni hanno creato ponti tra comunità ospitanti e comunità migranti, riuscendo a tessere relazioni umane importanti. Facendo da contrasto ai fenomeni sempre più frequenti di xenofobia, razzismo e hate speech.

Non sono numeri ma persone le cui storie personali e collettive meritano maggiore peso e considerazione da parte di tutti, soprattutto da parte del governo italiano che preferisce voltare la faccia dall’altra parte, come se il “problema” non esistesse e non fosse di interesse nazionale.

La domanda da porsi allora è come mai in certi “business” il rischio di perdere posti di lavoro ha un certo peso e in altri no. Ad esempio perché dietro al rischio di una ipotetica chiusura della più grande acciaieria d’Europa che produce morti e malattie a Taranto, si tira fuori sempre l’orpello della difesa del “posto di lavoro”? Così pure davanti alla richiesta di vietare l’ingresso delle navi da crociera nella fragilissima Venezia, la replica è sempre la difesa dei posti di lavoro. Una risposta che non vale per il mondo dell’accoglienza.

OLTRE IL DANNO LA BEFFA…..

«Ah, ma non lo facevano per “bontà”??? Mangiatoia finita, non si molla!» Matteo Salvini- in merito alla notizia di un bando della Prefettura di Modena a cui hanno partecipato solo due cooperative.

Antonietta Podda

8/7/2019 https://www.dinamopress.it

Foto di copertina via @lettera27

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