Racconti dell’amianto. Antologia di racconti di vite spezzate dall’amianto. Gli “assaggi d’autore” dell’antologia “Nessuno ci ridurrà al silenzio”. Anteprima della prossima uscita in libreria

amianto

Nessuno ci ridurrà al silenzio di Jacqueline Monica Magi

I personaggi e le vicende narrate sono fantapolitica, niente si riferisce a persone o cose realmente accadute. Solo Enrico Berlinguer è realmente esistito. Che Enrico e la questione morale riposino in pace.

Evelina stava rovistando nelle carte di suo padre, incuriosita dai mucchi di libri, appunti, quaderni e giornali che lui, morto da ormai un anno, le aveva lasciato. Fuori pioveva ininterrottamente da ore, come l’anno prima, quando suo padre era spirato e Evelina ne approfittava per studiare le carte che le erano state lasciate.
Suo padre aveva lavorato per anni nell’azienda cittadina che produceva vari componenti di navi, di aerei, carrozze ferroviarie, autobus, treni ed anche siluri e componenti di armi, esportandoli in tutta Italia. In quell’azienda aveva fatto il sindacalista, si era ammalato ed era morto. Morto di tumore, mesotelioma pleurico, un tumore monocausale, che aveva cioè una sola possibile causa: l’esposizione all’amianto. Veramente vi era una possibile seconda causa: l’esposizione ad un minerale chiamato erionite, ma l ‘erionite si trovava solo in Turchia ed in Turchia suo padre non era mai stato.
L’amianto era un’entita’ fantasma in quella piccola città, anzi piccolo borgo pedemontano, assolutamente fuori contesto in una regione che si caratterizzava per la sua modernità. L’amianto pareva non esserci mai stato, almeno ascoltando le fonti ufficiali di ogni tipo.
Questa era l’affermazione di tutti i politici e molti dei sindacalisti.
Suo padre, che si chiamava Franco, teneva sempre un diario, su cui annotava tutto e talora inseriva anche documenti, per conservarli. I diari erano con gli anni cresciuti fino a riempire uno scatolone intero. Evelina decise che per mettere ordine nei mucchi di carte e documenti che aveva davanti doveva iniziare dal leggerli quei diari.
Inizio’ a leggere partendo dalle prime esperienze di fabbrica di suo padre. Erano gli anni precedenti il famoso autunno caldo del 1968-69 quando le condizioni in fabbrica erano terribili. Si lavorava in grandi capannoni aperti, dove si mescolavano i fumi di saldatura con le polveri fini dell’amianto, dove in inverno si gelava e in estate si moriva di caldo, quando la temperatura superava spesso i trentacinque gradi. Erano anni precedenti l’emanazione della Statuto dei lavoratori e solo la stagione degli scioperi 1968-69 porto’ dei benefici alla categoria dei saldatori, ma soltanto a loro.

RESPIRO di Luca Cavallero

“Lascia che sia respiro
finché tu ci sei
il mio saluto al giorno
per non lasciarsi andare mai.”

(F. Simone – Respiro)

 

Per la prima volta non mi sono preoccupato.
Perché a Casale Monferrato, quando il tuo medico curante ti fa un’impegnativa per una RX torace urgente vista la maledetta tosse che t’accompagna da un mese e che manco gli antibiotici mandati giù per una settimana abbondante hanno attenuato, ti dovresti preoccupare.
Perché a Casale Monferrato, con le sue 2.000 vittime a causa dell’amianto, farsi delle lastre ai polmoni è da molti affrontata (giustamente) con la stessa tranquillità con la quale Christopher Walken premeva il grilletto nella celebre scena de il Cacciatore.
Non so perché ma mi viene in mente quella domenica al Palli di trent’anni fa.
Battista, mio nonno, è lì dietro la rete e continua a urlarmi dietro fra il divertito e il disilluso: “Numero due sei sempre solo, guarda che hai sbagliato ruolo, guarda che hai sbagliato ruolo!”.
Battista, che nome antico: chissà se esiste ancora qualcuno che si chiama così oggi.
Poi proprio lui mi urla dietro, oggi, che indosso la gloriosa maglia nerostellata della squadra della mia città nel suo stadio e me la gioco nel derby contro la Junior Oltreponte? Dov’era quando da piccolo io volevo tirare due calci a un pallone con lui? E certo, lui non poteva mai giocare con me, “c’aveva la polvere” lui, così mi rispondeva ogni volta che gli chiedevo di mollare la Gazzetta dello Sport che aveva in mano e uscire in cortile con me.
Sì, mi avevano detto che aveva lavorato in quella fabbrica del cemento e adesso praticamente respirava solo più con un polmone, però, vedendo i nonni dei miei coetanei come giocavano con loro, la ritenevo una grandissima ingiustizia. In un cortile come il suo a Casale Popolo poi, bello e rettangolare che sembrava un campo di calcio in miniatura fatto e finito, con il cancello a fare da porta da una parte e l’entrata del portico con galline e conigli dall’altra che mancavano solo le bandierine del calcio d’angolo.
E’ vero, un terzino non dovrebbe mai essere solo ma stare sempre attaccato al suo uomo da controllare (almeno allora che il fuorigioco sistematico alla Sacchi non era ancora di moda), al contrario di una punta che invece dovrebbe sempre smarcarsi, ma che ne sapeva lui con il suo 85% d’invalidità a causa dell’asbestosi come si corre in campo? L’avrei capito quindici anni più tardi quando, attaccato a una bombola d’ossigeno, cercava l’aria disperatamente mentre la vita gli scappava via che quel giorno avrei dovuto correre di più, inseguendo come un matto gli attaccanti avversari, io che potevo, correre anche per lui che a causa dell’Eternit non poteva più farlo….
Esco dallo studio medico con la mia bella impegnativa in mano, fra le tante iatture quella di dover andare in ospedale dall’altra parte della città in giorno di mercato proprio non ci voleva, sembra che tutta Casale sia per le strade, ma ci va ancora qualcuno a lavorare?
Perché qua la crisi picchia e picchia duro, anch’io l’ho provato sulla mia pelle quando un anno fa, al rientro dalle ferie, mi è stato detto che iniziava per me e altri miei colleghi la cassa integrazione a zero ore.
Ma come? Sono il responsabile del magazzino, senza di me si ferma tutto! Bubbole, nessuno di noi è indispensabile, era l’inizio della fine e dopo quasi un anno mi ritrovavo agli sgoccioli degli ammortizzatori sociali con un figlio che stava per iniziare la prima elementare, avevo passato i quaranta e chi mi avrebbe assunto?
Ah, e adesso avevo pure un’impegnativa per una RX torace, a Casale Monferrato, non so se mi spiego.

Che anno era quando ricoverarono Alberto perché gli avevano trovato l’acqua nei polmoni?
Mentre guido ripenso a quella domenica pomeriggio nella quale Mario ed io andammo a trovarlo in ospedale, lavorava con noi in catena di montaggio e durante un fine settimana un dolore alla schiena che lo affliggeva da qualche tempo divenne insostenibile al punto di spingerlo fino al pronto soccorso per, disse lui, farsi prescrivere un buon antidolorifico.
Alberto aveva trentasette anni e non aveva mai lavorato all’Eternit, eppure lo ricoverarono e gli drenarono l’acqua che si era fermata, un versamento pleurico, un maledetto versamento pleurico originato chissà da cosa…
Non ci volle molto tempo a capire che cosa fosse: Alberto non tornò più a lavorare, andavamo a trovarlo spesso ma non aveva voglia di uscire, diceva che riusciva a dormire solo più su un fianco per il dolore, gli veniva il fiatone solo per fare il tragitto dalla stanza da letto al tavolo in cucina e perdeva chili, continuava a perdere chili.
Adesso ricordo, era il 1999, quante volte mi sono chiesto mentre tutti noi il 31 dicembre festeggiavamo l’arrivo del nuovo millennio con la sua carica di speranze e illusioni, come l’avesse vissuta lui quella sera che portava al 2000, con quali sentimenti, con quanta consapevolezza che quello che stava per arrivare non era un inizio ma la fine.
Faceva caldo quel pomeriggio di maggio quando, noi colleghi di reparto, pretendemmo di portare in spalla la bara di Alberto dall’ingresso del cimitero di Casale sino al loculo che avrebbe ospitato un giovane uomo che l’amianto non aveva fatto vivere neanche trentotto anni, faceva un caldo maledetto e il fiato mancava sotto quel peso e camminando su quella stradina di ghiaia che sembrava non finire mai, ma noi il fiato l’avevamo ancora, noi.

Dalla radio in macchina escono le note di una vecchia canzone che fece successo quando ancora ero piccolo e usavo un buffo mangiadischi arancione, parla di respiro, che buffa coincidenza.
Non posso non rifare un conto che nella mia testa ho già fatto mille volte: nella mia città, bambini e immigrati a parte, siamo circa in trentamila, ancora l’anno passato più di cinquanta di questi trentamila hanno scoperto di avere addosso il mesotelioma e così è stato l’anno precedente e l’anno prima ancora, al primo di gennaio ogni casalese sa che ogni cinquecento persone potrebbe toccare a lui, non male come probabilità.
Poi faccio un altro conto: cinquantadue sono le settimane in un anno, questo vuol dire che ogni settimana a Casale Monferrato viene emessa una sentenza di condanna a morte per un mio concittadino a causa dell’amianto, se non è pulizia etnica questa…
Mi domando spesso come, chi è nato in questa città, riesca a convivere con questa spada di Damocle, quest’assurda lotteria che ti da il tuo numerino in mano da quando nasci e giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno le estrazioni continuano e tu sai che ti può toccare ed è molto, molto, molto più probabile “vincere” qua che in qualsivoglia lotteria o gratta e vinci che puoi acquistare dal tabaccaio all’angolo.
Forse non bisogna pensarci, forse è fatalismo o forse è soltanto incoscienza, ma è anche questo un modo per sopravvivere all’angoscia e alla paura perché sai che toccherà a uno di noi ogni cinquecento, uno almeno ogni settimana, uno che ha avuto il solo torto di respirare l’aria di questa città prima che le bonifiche fossero terminate: non sono statistiche, diciamocela tutta, è una guerra.

Io c’ero in quella sera di metà dicembre, eccome se c’ero, anche se a riguardarla adesso a distanza di anni non capisco dove finisca il ricordo di ciò che è stato e dove inizi la mitizzazione della stessa da queste parti tanto è stata intensa, viva, degna, probabilmente irripetibile nei numeri e nella forma.
Nell’autunno del 2011 l’amministrazione comunale di Casale Monferrato, guidata dal sindaco Demezzi che solo pochi mesi prima aveva dichiarato pubblicamente che un evento simile sarebbe stato praticamente impossibile, decide di sedersi al tavolo delle trattative con chi rappresenta l’imputato principale al grande processo all’amianto che si tiene a Torino, lo svizzero Schmidheiny, per trattare il ritiro della costituzione del comune della città martire dall’amianto come parte lesa, in cambio di diciotto milioni di euro.
Il 16 dicembre alle ore 21 è convocato il consiglio comunale a maggioranza di destra che dovrà ratificare il tutto, ma il passaparola e il tam-tam di attivisti e semplici cittadini fa si che lo scalone del Comune, il cortile e la via antistante siano invasi da una marea di cittadini inferociti che urlano la loro rabbia e il loro sdegno per chi ha intenzione di vendere una comunità intera in cambio dell’impunità del suo carnefice.
Io c’ero e ho visto ex lavoratori Eternit con l’asbestosi raccogliere il poco fiato per urlare le peggiori maledizioni, maestre di scuola lanciare monete all’interno di palazzo San Giorgio gridando “Tenete anche queste!”, studenti che per la prima volta si mettono in gioco per cambiare il proprio futuro chiedendo rispetto per la storia della quale son figli e nipoti, lavoratori, casalinghe, tifosi della squadra locale, ambientalisti, pensionati in giacca e cravatta perché in Comune comunque “si va vestiti bene”, gente che quarant’anni prima è venuta dal sud e questa città ha magari dato loro lavoro ma portato via una persona cara, antagonisti e simpatizzanti da Alessandria, Torino e non solo, quella sera un Quarto Stato da inizio anni duemila per la memoria e la giustizia, decide di muoversi contro istituzioni che sembrano voler calpestare i propri cittadini, il loro dolore, la loro stessa storia.
La seduta sarà interrotta più e più volte, invano sarà chiesto l’intervento della forza pubblica per mettere a tacere il rumoroso dissenso delle centinaia e centinaia di cittadini esclusi da quella che dovrebbe essere la casa di tutti loro, alle tre del mattino però passerà la delibera d’indirizzo per l’accettazione dell’offerta.
Ed è lì, in quella notte che pare non finire mai, che una comunità intera capisce che si può cambiare il corso delle cose manifestando, opponendosi, mobilitandosi e così facendo, dopo un mese e mezzo d’assedio nelle piazze, sui giornali, ovunque gli amministratori locali si rechino, l’amministrazione di centro destra abbandonerà i suoi propositi e il comune di Casale Monferrato sarà protagonista sino alla fine del maxi processo.

Finalmente arrivo nel parcheggio dell’ospedale, nonostante i continui tagli alla sanità pubblica qua in Piemonte sembra che i casalesi non siano abbastanza responsabili da smettere d’ammalarsi e d’aver bisogno di prestazioni sanitarie, non si riesce a trovar parcheggio manco a pagarlo (meglio dirlo sottovoce, sennò capace che mettono le strisce blu pure qui) e inizio a girare come un disperato.
Finalmente si libera un buco, m’infilo, metto il mio bel disco orario e scendo dalla macchina iniziando a salire la rampa che porta all’ingresso principale del nosocomio cittadino.
Salgo all’accettazione, essendo in cassa integrazione e con un figlio a carico sono comunque ricco, mi spiegano di andare a pagare il ticket per queste lastre con la dicitura urgente contrassegnata dal mio medico e mi reco verso il punto giallo, una macchinetta che fa da cassa per tutti noi utenti: logicamente non funziona, ma vuoi mettere con un dipendente in carne e ossa che magari si ammala, va in ferie, addirittura sciopera?
Sbraito, mi faccio spiegare come pagare in maniera alternativa e finalmente posso tornare al reparto raggi, rifaccio la coda all’accettazione ed eccomi lì parcheggiato su una sedia, in attesa di una chiamata.
Arriva il mio turno, mi fanno togliere la maglia raccomandandomi di posare eventuali catenine, abbraccio un macchinario e iniziano a fami le lastre.
“Si accomodi fuori, la chiameremo noi”.
Ricomincia l’attesa.

Quando si fa la storia a livello di giustizia per lo sterminio subito da Casale Monferrato a causa della lavorazione d’amianto e la sua dispersione a livello ambientale?
Lunedì 6 aprile 2009, poche ore dopo il terremoto che distrusse l’Aquila, quando c’è stata la prima udienza del processo di primo grado? Beh, io quel giorno c’ero.
O forse in quel caldo martedì 22 luglio 2009 quando furono rinviati a giudizio i due imputati? Anche lì c’ero.
Magari all’apertura del processo vero e proprio, quel giovedì 10 dicembre del 2009, anche lì c’ero.
Certo quel lunedì 13 febbraio 2012, quando dopo un paio di mesi di lotte in città arrivò la sentenza, fu davvero speciale. Comunque anche lì c’ero.
Poi, un anno e un giorno dopo, ossia martedì 14 febbraio 2012, in occasione dell’apertura del processo d’appello quando tanti, troppi, credendo che il più fosse fatto rimasero a casa. Logicamente c’ero.
E di quel lunedì 3 giugno 2013, un giorno dopo la festa di una Repubblica che nella propria costituzione si dice fondata sul lavoro, anche quello che vede la sentenza d’appello per aver causato 3.000 morti? Si, c’ero.
Credo sia stato importante come cittadino casalese esserci in tutti questi passaggi del cosiddetto Processo Eternit, ma non credo altresì che si possa decidere fra queste date quale sia stata la più importante.
Ogni volta che a Casale abbiamo fatto una fiaccolata, un incontro pubblico, una visita nelle scuole per raccontare ai bambini cos’è stato per questa città l’amianto, una manifestazione per tutelare il nostro diritto alla salute e alla giustizia, ogni volta che si è stati in Associazione Familiari Vittime Amianto a dare una mano o ad ascoltare le storie di Romana Blasotti Pavesi che ha perso cinque famigliari o di Bruno Pesce che da quarant’anni si batte per pura passione per questa causa e ogni volta che su un giornale locale fra i necrologi leggiamo “morto per amianto” beh, credo che ogni momento sia fondamentale per chi, come me, sente questa città e la sua tribolata storia come un qualcosa di proprio, vissuta fino all’ultimo respiro.

“Ecco qua: in questa busta ci sono il referto e un compact disk con le sue lastre, la porti al medico curante e le spiegherà tutto”.
Ma come, penso fra me e me, io vengo qua con un’impegnativa urgente perché qualcosa non va ai miei polmoni, siamo a Casale Monferrato e non mi dici niente?
Esco dall’ospedale, fuori è iniziato un temporale di fine estate di quelli che sembra venir giù il cielo tutto insieme, metto la busta sotto la maglia e inizio a correre verso il parcheggio.
Salgo in macchina, tiro fuori la busta e mi dico che va bene seguire le direttive dei medici, macheccazzo, questa volta disubbidisco.
“In sede retrocardiaca si apprezza stria di opacità orizzontale a cui si associa accentuazione del disegno polmonare a livello del segmento postero-basale di sinistra. Il reperto è compatibile con addensamento flogistico. Si consiglia un controllo tra 10-15 giorni dopo opportuna terapia”.
Quindi?
Quindi è broncopolmonite, mi dirà dopo poco il mio medico, terapia a base di penicillina per endovena due volte al giorno per una settimana più cortisone più altro antibiotico.

A Casale Monferrato quando leggi gli esiti di una lastra e ti dicono che ti manca il fiato perché hai la broncopolmonite sei contento, magari per la prima volta non ti eri preoccupato, però contento lo sei.
Non è difficile capire il perché se ci sei nato e ci hai vissuto tutta la vita, non è difficile se conosci la nostra Storia.

L’insediamento produttivo della ditta Eternit di Casale Monferrato si estendeva su di un’area di circa 94.000 mq di cui circa 50.000 erano coperti (con lastre di fibrocemento). L’attività produttiva ebbe inizio il 19/03/1907 e cessò completamente il 06/06/1986. Durante questo periodo le assunzioni furono circa 5000 con presenza simultanea anche di 3500 addetti.
Verso la fine degli anni ’70 incominciò a prendere credito la convinzione che l’attività lavorativa alla Ditta Eternit sia accompagnata da una drammatica sequenza di patologie professionali, e parallelamente cominciano le prime indagini mirate alla conferma epidemiologica di tale convinzione. Nel giugno del 1986 dopo lunghi anni di crisi la produzione s’interruppe con l’allontanamento degli ultimi 350 lavoratori ancora occupati. I danni causati dall’amianto lavorato all’Eternit non si sono limitati a interessare la popolazione esposta professionalmente, ma riguardano anche l’ambiente con i suoi abitanti.
Negli anni ’70, infatti, si comincia a registrare nel reparto di Medicina dell’Ospedale di Casale Monferrato, un significativo incremento dei morti per mesotelioma.
A oggi sono circa oltre 1200 casi di mesotelioma pleurico rilevati e si arriva a 2.000 vittime per malattie asbesto correlate, l’intero comune di Casale Monferrato si è costituito parte civile nel maxi processo Eternit cominciato nel 2008 grazie all’Associazione Familiari e Vittime dell’amianto, ai sindacati e ai cittadini che si opposero fisicamente alla giunta Demezzi che nel 2011 intavolò una trattativa con l’imputato svizzero per ritirare la costituzione del Comune stesso.
A una simile ecatombe la giustizia italiana ha risposto disponendo la condanna in appello di Schmidheiny, l’imputato numero uno, a diciotto anni di reclusione e al pagamento di un’ammenda di cento milioni di euro (per l’altro imputato, il belga de Marchienne, il processo è terminato con la sua morte sopravvenuta nel maggio 2013).

L’ETERNO GUASTO  di Patrizia Rinaldi

-Quello che non c’è, non ci serve. –
Mio padre sta parlando con un dottore giovane che in Fabbrica chiamano Il Dottorino. È alto, un filo. Ha il camice sbottonato, una specie di cappotto bianco, sporco, largo e corto. Anche i capelli del Dottorino sono bianchi, ma non tutti. Ha un ciuffo grigio crespo proprio al centro del cranio. Il camice gli deve aver contagiato la testa.
Gli occhi verdi all’ingiù guardano la bocca carnosa e il collo lungo. Forse mi sembra lungo perché così tanto secco.
Lo fisso, ho sentito parlare di lui da mio padre e alla scuola vecchia di quartiere e voglio vedere bene com’è. Lui mi sorride e torna dietro al paravento da dove arriva la voce di mio padre.
Dietro il paravento c’è qualcuno che si lamenta. Il Dottorino gli parla a voce bassa, non capisco cosa dice. Il tono porta una certa vergogna. Sorrido pure io, perché anche a me capita di parlare così, quando dico una poesia brutta, per esempio, di quelle che mi fanno imparare a memoria alla scuola nuova
Mio padre, no, lui quando parla urla. Non ho capito bene se perché si vuole convincere o per cosa.
Ripete.
-Quello che non c’è, non ci serve. – Il Dottorino risponde. – Dottore, quando parlate con me, dovete dire forte, ché l’altoforno e le palle di ghisa mi hanno seccato le orecchie. –
-Quindi anche le garze non servono? Vai a aprire lo stipo ché tanto lo so che le nascondi. –
-Le nascondo per legittima difesa. Se le pigliano. Se non le nascondevo ora che vi davo? –
Mio padre esce dal paravento e mi vede.
-E tu che ci fai qua, Filomena? Chi ti ha fatto passare? Tu alla Fabbrica non ci devi venire. Sei scappata un’altra volta. E adesso è la volta buona che ti sospendono. Ma tu davvero ti credi che io i soldi li vado a rubare? Mica me li regalano i libri, l’abbonamento ai mezzi per la scuola al centro, le scarpe e tutti gli accidenti che ti servono. Mannaggia a te e a tua madre che ti ha voluto mandare al ginnasio. Vieni appresso a me, devo andare a prendere le garze. –
Usciamo dal Pronto Soccorso. Il Pronto Soccorso è una casetta con un tetto ondulato, ha pareti sottili, è piccola.
Il tetto stona qua sopra. Pare il cartone ondulato dentro le scatole di cioccolatini. A guardarlo fisso sembra che si muove: un’onda piccola di mare grigio.

L’OPERAIO ED IL CAMPIONE di Alberto Prunetti

Tra il settembre del 1972 e i primi mesi del 1973 Renato Prunetti, mio padre, viene inviato per conto di una ditta di Novara a lavorare come saldatore e tubista in una raffineria a pochi minuti da Casale Monferrato. Lo raggiunge in Piemonte anche la giovane moglie, Francesca. I due, freschi di nozze, lasciano la Toscana e si sistemano prima in una pensione, poi in un appartamento. Dopo alcuni mesi Francesca scopre di essere incinta del primo figlio, che sta scrivendo queste righe, e preferisce tornare in Maremma. Renato per un periodo scenderà in Toscana ogni venerdì, per poi ripresentarsi in raffineria il lunedì mattina dopo aver viaggiato su un treno notturno.
Intanto in quello stesso periodo una leggenda del calcio mondiale, lo svedese Nils Liedholm, sta esplorando il Monferrato alla ricerca di una casa di campagna. Viaggia anche lui dalla Toscana (in quegli anni allena la Fiorentina) e torna in Piemonte, la regione della moglie. Nel 1973 acquisterà un’azienda agricola nei pressi di Cuccaro Monferrato, non molto lontano da Casale, in una zona a forte vocazione vinicola.
Renato Prunetti in quel periodo non era troppo distante da Liedholm, ma non lo sapeva. Nils era uno dei suoi miti. Renato era nato nel ’45 ed era cresciuto col mito del Gre-no-li, il tridente svedese che perforava le difese italiane del dopoguerra. Considerava Liedholm un grande calciatore e un allenatore eccezionale. Aveva esultato per i suoi gol, per gli scudetti conquistati, per la forza nordica che si esprimeva al meglio accanto a Nordahl, un bomber che in Svezia, dove non c’era il professionismo, faceva il pompiere. Liedholm sarà un innovatore del calcio italiano, troppo legato al catenaccio e alla ferrea marcatura a uomo: darà spazio alla zona e alla proiezione in avanti dei reparti difensivi. Per entrambi, Renato e Nils, il Monferrato segnerà un momento di rottura e di sconvolgimento dei loro destini familiari.
Intanto in quello stesso periodo una leggenda del calcio mondiale, lo svedese Nils Liedholm, sta esplorando il Monferrato alla ricerca di una casa di campagna. Viaggia anche lui dalla Toscana (in quegli anni allena la Fiorentina) e torna in Piemonte, la regione della moglie. Nel 1973 acquisterà un’azienda agricola nei pressi di Cuccaro Monferrato, non molto lontano da Casale, in una zona a forte vocazione vinicola.
Renato Prunetti in quel periodo non era troppo distante da Liedholm, ma non lo sapeva. Nils era uno dei suoi miti. Renato era nato nel ’45 ed era cresciuto col mito del Gre-no-li, il tridente svedese che perforava le difese italiane del dopoguerra. Considerava Liedholm un grande calciatore e un allenatore eccezionale. Aveva esultato per i suoi gol, per gli scudetti conquistati, per la forza nordica che si esprimeva al meglio accanto a Nordahl, un bomber che in Svezia, dove non c’era il professionismo, faceva il pompiere. Liedholm sarà un innovatore del calcio italiano, troppo legato al catenaccio e alla ferrea marcatura a uomo: darà spazio alla zona e alla proiezione in avanti dei reparti difensivi. Per entrambi, Renato e Nils, il Monferrato segnerà un momento di rottura e di sconvolgimento dei loro destini familiari.

FORSE NEMESI di Alessandro Berselli

(Nota dell’autore)
Scrivere racconti che affrontano certi temi, per noi autori, non è facile.
Siamo maestri della finzione, della storia che vuole essere solo immaginario, e avere a che fare con drammi e dolori che esistono realmente, che hanno coinvolto famiglie, causato lutti, ci obbliga a una presunzione nei confronti del reale che destabilizza, rendendoci creature vulnerabili e insicure.
Si ha paura di non avere il necessario rispetto, la giusta cifra.
E’ un monito che rivolgo a noi stessi, soprattutto, ai cosiddetti artisti.
Dobbiamo avere riguardo nei confronti della vita vera, noi che la vita, spesso, siamo capaci solo di inventarla.

Dedico queste poche pagine a chi sul lavoro è morto a causa della superbia, dell’ignoranza e dell’incompetenza delle persone che sulla loro sicurezza avrebbero dovuto vigilare.
Oppure semplicemente perché, con dolo assassino, non hanno fatto nulla per impedirlo.

E’ un tributo che serve a poco, ne sono consapevole.
Ma lo dono a questa gente con tutto il cuore.

LA PESTE DI MONFALCONE di Angelo Ferracuti

Duilio Castelli l’ho visto per la prima volta a Monfalcone lo scorso 18 settembre, in occasione della manifestazione “Amianto mai più”, nella cittadella operaia di Panzano. Lì, ogni anno, davanti al monumento loro dedicato, si ricorda la strage di oltre duemila operai morti per esposizione al minerale killer. Ex isolatore termico, Duilio adesso va nei reparti di ospedale e nelle case a parlare con i compagni di lavoro ammalati, segue le faccende burocratiche, organizza i sit-in davanti ai tribunali e si può considerare una specie di sopravvissuto.
Mentre quella mattina del 18 settembre sfilavano i vigili urbani con i gonfaloni dei comuni del Mandamento e la gente aspettava in piedi tutta seria, Duilio – che è anche il presidente dell’Associazione esposti – ha cominciato a parlare, e le sue parole semplici e toccanti sono risuonate leggere nell’aria, arrivando dritte al cuore: “Il prossimo 5 di ottobre inizierà il primo procedimento giudiziario,” ha detto, “e noi chiediamo giustizia e verità, è quello che abbiamo promesso ai nostri morti. Il mio ufficio è proprio dentro l’ospedale San Paolo, lì vengono a cercarmi le vedove… parliamo, cerco di dare qualche consiglio, e loro piangono mentre raccontano, e piango anch’io, così le lacrime si uniscono”.
Capita così raramente di ascoltare persone appassionate che sembrava essere in un’altra Italia, quella civile, democratica e solidale in cui tutti ci riconosciamo, dove il sindaco di Monfalcone è stato capace di dire: “La città è ferita. La città è indignata… Il profitto dell’impresa non può essere fondato sullo sfruttamento e il mancato rispetto della salute dell’operaio”.

POLVERE DI Massimo Carlotto

Ci incontravamo di nascosto a Grado in una casa di certi miei parenti che la usavano solo d’estate. Facevamo l’amore. Avrei voluto sposarla ma lei era operaia, io un giovane dirigente. Non c’era futuro per noi. Poi, un giorno lei ha detto basta. “Magari mi metti incinta” ha detto “e io sono rovinata”. Si è sposata con un aggiustatore meccanico che lavorava al laminatoio. Io, con una ragioniera dell’ufficio paghe.
Era una bella mula la Ninetta. Lavorava in uno stanzone senza finestre e senza aspiratori con altre 4 donne e un operaio. Le donne cucivano i materassi di tela d’amianto, con filo d’amianto. L’uomo riempiva i materassi d’amianto. 8 ore al giorno e 5 la domenica. Se c’era una nave da finire, le ore non si contavano e… non ci si vedeva.
Avevo saputo che la Nina era malata che non lavorava più qui da un pezzo. Mesotelioma della pleura. Non lascia scampo. Ti becca anche vent’anni dopo che hai smesso di maneggiare l’amianto. Una brutta morte.
Quando se n’è andata, ho chiesto un permesso e mi sono seduto in fondo alla chiesa per non essere riconosciuto. Il marito era lì, curvo, piangeva, e i polmoni fischiavano per l’asbestosi.
Io sono nato a Monfalcone. Ne ho visti tanti morire. Ma sono andato solo al funerale della Ninetta. Quando la portavo a Grado dopo il lavoro, si chiudeva in bagno a spazzolarsi i capelli per togliere la polvere.
Così lo chiamava l’amianto: polvere. Tutti gli operai lo chiamavano polvere. Loro amavano la polvere. Era lavoro, pane, una casa. Durante le pause, per giocare, se la tiravano addosso come palle di neve.
Polvere…

IL MIO PAESE di Federico Pagliai

Non era mai stato un bel paese. Forse, la Lima, un paese non lo è mai stato. Però era il mio e me l’hanno ammazzato. Paese: quelli più convinti lo chiamavano così ma in realtà era solo una specie di utopia, un piccolo sogno nato, cresciuto e morto sotto un cielo di carta.
Più che morto lo hanno ucciso e niente e nessuno poté salvarlo. L’uomo più potere ha e più egoismo esercita e poco importa se lo fa a scapito di altri uomini, a donne e bambini. Contano il profitto, gli interessi personali: La Lima è un archivio storico dove si concentra un lungo elenco degli egoismi capitalistici dell’uomo, ma anche della loro dabbenaggine e poca lungimiranza, però.
Certo, di egoismi e interessi privati ce ne dev’esser stati tanti negli anni dell’agonia della Cartiera Cini, mamma anomala di quel paese nato in montagna, sul ripido, ma che non aveva radici per stare lassù, radici che l’acquazzone della fine della Cartiera aveva dilavato, messe allo scoperto, ciondolanti nel vuoto come quelle di un pioppo nato e cresciuto sul ripido. Un pioppo non ha da nascere in pendenza, non ci può stare, non ha radici adatte, cade in basso, muore. Come quel paese, appunto: borgo straniero, del tutto avulso e per niente somigliante ai paesi vicini, quelli venuti su da generazioni di uomini di terra, bosco, bestie e crinali e disegnati da uomini somiglianti più alla resistenza propria dei carpini che non ai pioppi.
Brutto o bello, quello era però il mio di paese, lì ero nato, cresciuto, giocato. Era lì, sulle sponde del torrente e all’ombra della sagoma austera e severa della Cartiera che avevo imboccato la vita. Poi, anno millenovecentosettantasette, tutto finì. La mia infanzia cessò quando i proprietari della cartiera, fatti due conti che avevano come basamento l’immorale criterio del costo-beneficio, decisero che era arrivato il momento di far fallire l’industria cartaria e uccidere così un paese, morto in piedi, la ciminiera come croce. Con quale diritto certi signorotti si sono permessi di mozzare la mia infanzia? Che siano maledetti! Avevo undici anni e da lì in avanti non ho più avuto giorni di quella età.
Il crepuscolo della cartiera e de La Lima ebbero come colonna sonora di morte la musica vispa e allegra della sigla di inizio e fine trasmissione de il Gazzettino toscano, trasmissione radiofonica che andava in onda all’ora di pranzo con la voce fiorentina di Marcello Giannini. Non lo conoscevo quell’uomo, non l’ho mai conosciuto ma giorno dopo giorno lo avevo imparato ad odiare, lui e quella musichetta giocosa che tutto pareva potesse portare tranne notizie poco belle quando, invece, per il paese comunicava solo e soltanto quelle.

da www.centrodocamiantomarcovettori.org

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