Reddito: il neoliberismo autoritario e populista

 

Il precedente governo populista italiano ha istituito un “reddito di cittadinanza”. Una misura molto distante dall’erogazione diretta di un reddito universale e incondizionato, svincolato dalla richiesta di un lavoro e da qualsiasi obbligo. Il “reddito” dei populisti intende creare una nuova manodopera servile per realizzare lavori socialmente utili a discrezione del governo, e dell’amministrazione pubblica, in sostituzione di lavoratori regolarmente inquadrati dai contratti previsti dal contratto di lavoro. Vediamo perchè.

  1. Il diritto all’esistenza

Il concetto di “reddito di cittadinanza” è parziale perché restringe il riconoscimento di un diritto fondamentale della persona al possesso della cittadinanza di uno Stato e alla nascita su un territorio.  Per questa ragione preferiamo utilizzare il concetto, più preciso, di reddito di base, di autodeterminazione, universale e incondizionato che considera sullo stesso piano i diritti dei cittadini nazionali e quelli degli stranieri, senza discriminare tra donne e uomini, adulti, anziani o adolescenti. Il reddito di base è un diritto all’esistenza e andrebbe riconosciuto come diritto fondamentale della persona.

Lo scopo di questo “reddito di base” è quello di eliminare l’obbligo a vendere la forza lavoro per sopravvivere, contribuendo attivamente alla demercificazione della vita, e non solo del lavoro. Questa prospettiva in sé non basta per cambiare i rapporti di potere e quelli di produzione, ma mette potenzialmente un individuo in grado di sottrarsi a questo ricatto, alleandosi con coloro che non possono farlo. In generale questa idea di reddito non esclude il lavoro, ma aspira a liberare questo lavoro dalla sua alienazione contingente, anche se non può liberarsene per sempre.

  1. Come funzionerà il “reddito” dei populisti

La misura simbolo dei populisti italiani è il contrario sia di un “reddito di cittadinanza”, sia di un “reddito di base”. Questo “reddito” è un sussidio contro la povertà assoluta vincolato alla formazione obbligatoria e al lavoro gratuito per otto ore alla settimana per lo Stato, per tutta la durata del programma: 18 mesi che possono essere prorogati fino ad altri 18 mesi.

E’ una misura rivolta esclusivamente ai cosiddetti “poveri assoluti”: ovvero coloro che hanno un reddito annuo inferiore ai 9360 euro. L’importo del “reddito” sarà il risultato della differenza tra il massimale di 780 euro (calcolato sul 60% del reddito mediano in Italia) e il reddito Isee, ovvero l’Indicatore della Situazione Economica Equivalente che documenta la situazione economica del nucleo familiare del dichiarante quando si richiedono prestazioni sociali agevolate. Tranne coloro che sono nullatenenti, i beneficiari riceveranno dunque somme pari in media a meno della metà del massimale previsto: tra i 200 e i 400 euro mensili.

  1. Le caratteristiche del reddito di cittadinanza dei populisti

Prima caratteristica: La nozione di “reddito di cittadinanza” usata dai populisti italiani può essere compresa alla luce della programmatica confusione di tre elementi diversi e contraddittori: a) è un sussidio contro la povertà assoluta; b) è un sussidio di disoccupazione; c) è un incentivo alle imprese per l’assunzione per le imprese alle quali lo Stato riconoscerà fino a sei mesi di sussidio.

Seconda caratteristica: l’esclusione dei cittadini stranieri e extra-comunitari residenti in Italia da meno di cinque anni. La nazionalità diventa così uno degli strumenti per costruire la guerra tra i poveri nella corsa a un sussidio di lavoro coatto e gratuito. Il razzismo costitutivo della proposta si articola inoltre come una strategia del sospetto nei confronti di tutti i poveri. Il “reddito di cittadinanza” è stato infatti inteso come lo strumento di sorveglianza dei beneficiari che devono dimostrare di essere moralmente e penalmente integri; accettare centinaia di ore di lavoro gratuito per dimostrare la loro riconoscenza allo Stato e al governo; essere disponibili ad accettare le offerte di lavoro che, teoricamente, saranno messe a disposizione dal governo attraverso un’irrealistica riforma dei centri per l’impiego.

Terza caratteristica: la minaccia del carcere per chi percepirà il sussidio e, contemporaneamente, lavorerà in nero. La caccia al capro espiatorio è tipica in tutte le società che hanno adottato queste politiche attive del lavoro. Tuttavia la minaccia dei populisti italiani rappresenta un salto di qualità nella trasformazione della condizione di povertà nello status criminogeno del povero.

Il “reddito di cittadinanza” prepara la creazione di un nuovo stato penale. Questo processo annuncia una nuova generazione di reati per coloro che risultano essere estranei al mercato del lavoro, o sul confine tra una condizione di precarietà strutturale e una di privazione economica radicale.

Quarta caratteristica: la mobilitazione totale della forza lavoro. L’obiettivo è mettere al lavoro i poveri a qualsiasi condizione, creando una bolla occupazionale misurata artificialmente dalle statistiche e utile per dimostrare che esiste una crescita dell’occupazione tra i soggetti che al momento risultano estranei al mercato del lavoro. Non importa se si tratterà di una “crescita” di breve periodo e di entità modesta, per di più vincolata ai fondi pubblici alle imprese e non a un reale meccanismo di rilancio della domanda interna ottenuta anche attraverso investimenti pluriennali.

Quinta caratteristica: vincolare la mobilitazione totale della forza lavoro al dispiegamento di dispositivi digitali che hanno l’obiettivo di controllare, valutare e punire ogni istante della vita dei soggetti beneficiari. Il “reddito” sarà erogato su una carta di credito. Questo permette la tracciabilità dei comportamenti del soggetto, impedisce l’evasione fiscale e controllerà quelle che  sono state definite “le spese immorali”.

Sesta caratteristica: mobilitare la forza lavoro eliminando i confini di spazio e reinventando l’identità del povero in una forza lavoro occupabile. È previsto che se il soggetto non riceverà un’offerta di lavoro corrispondente al suo curriculum sarà obbligato a cambiare città nell’arco di almeno 100 chilometri dalla sua zona di residenza. Il beneficiario del “reddito” sarà obbligato ad accettare il risultato dell’operato di un algoritmo e non potrà sottrarsi all’emigrazione interna forzata. Considerata la struttura produttiva del paese è possibile che i “poveri” meridionali saranno costretti a migrare verso il Nord dove si trovano le aziende capaci di offrire un posto di lavoro.

  1. La truffa del “reddito di cittadinanza”

 L’esempio del “reddito di cittadinanza” evidenzia come i populisti coltivino la logica del bispensiero (George Orwell) ovvero la capacità di affermare la verità e il suo contrario. Nel caso del “reddito di cittadinanza” si tratta di fare credere che sia una politica che fa gli interessi del “popolo”, mentre in realtà è una politica che crea le premesse per sfruttare il segmento più indifeso delle classi popolari e lavoratrici ed è utile per contrapporle ai migranti e a metterle in concorrenza tra di loro.

La critica della ragione populista non può limitarsi a una critica del linguaggio e del suo uso ideologico. Deve necessariamente passare da una critica dell’economia politica capitalistica che contrasta il neoliberismo e le ipotesi rinascenti della centralità dello Stato e del ritorno alla sovranità dello Stato-Nazione.

Liberismo e statalismo convivono perfettamente nell’istituzione populista del “reddito di cittadinanza”: lo Stato governa i poveri con gli strumenti delle politiche attive e li usa per redistribuire fondi pubblici alle imprese per dimostrare l’esistenza di una crescita economica. Più stato, significa più mercato.

  1. A cosa può servire un reddito di base

Al momento in Italia non sembrano esistere spazi per considerare il “reddito di cittadinanza” come parte del diritto all’esistenza di ogni individuo, indipendentemente dalla sua nazionalità e dal suo stato lavorativo. In una politica della liberazione, volta all’autodeterminazione di donne e uomini e alla creazione di un’autonomia sociale, tale misura andrebbe concepita come uno strumento volto a  svincolare l’individuo dal ricatto della precarietà, ad avviare una riforma dello Stato sociale in termini universalistici, a redistribuire la ricchezza attraverso una riforma fiscale fortemente progressiva, a modificare il mandato della Banca Centrale Europea al fine di spingerla a creare una politica del quantitative easing for the people, a creare le premesse per la  democratizzazione dei sistemi economico-sociali.

Questi elementi per una politica possibile devono essere considerati in una prospettiva pluralistica, e non unidimensionale. La centralità politica del reddito di base è, a nostra avviso, indiscutibile in un modo di produzione capitalistico fondato sui bassi salari, sul lavoro gratuito e sullo sfruttamento intensivo della vita messa al lavoro. Questa centralità va messa a tema al fine scopo di creare alleanze dentro e fuori i confini tradizionali della sinistra, neutralizzando la violenta ostilità che caratterizza alcuni sostenitori di una variante statalista del keynesismo.

Questo discorso non è soltanto tattico, ma culturale e politico. Serve a strutturare seriamente un’opzione politico-economica anticapitalista e ad affrontare il problema posto dai populisti. Un’opzione non all’ordine del giorno in Italia, ma che potrebbe divenirlo in tempi non lontani.

Roberto Ciccarelli

8/10/2019 www.italia.attac.org

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 41 di Settembre – Ottobre 2019. “La società che vogliamo

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