Referendum di giustizia ingiusta

SE I REFERENDUM SULLA “GIUSTIZIA GIUSTA” FOSSERO PROPOSITIVI

Considerando i cinque referendum sui quali, presumibilmente, saremo chiamati ad esprimerci nella prossima primavera, saranno circa 80 le occasioni in cui, a partire dal referendum istitutivo della Repubblica italiana, del giugno 1946, il popolo italiano ha esercitato quella che viene considerata la forma più evoluta di “democrazia diretta”.
Un esercizio che, per in verità, in ambito europeo – se si esclude la Svizzera che ne detiene il primato (1) assoluto – pare non riscuotere ampio e diffuso credito. In Germania, ad esempio, concretamente, a livello federale, i cittadini tedeschi possono votare solo alle legislative (2). Ciò che non è previsto a livello federale è, però, consentito nei 16 Lander.
La differenza tra la Svizzera e il nostro Paese è determinata dal fatto che in Italia non è previsto il referendum di natura “propositiva” che, di là delle Alpi è, invece, molto frequente.

Nel nostro Paese, infatti, la Costituzione prevede che i referendum siano unicamente di carattere abrogativo, costituzionale e consultivo (3). Per la validità degli ultimi due non è previsto il raggiungimento di alcun quorum.
Non è questa la sede per approfondire quanto incida, nel nostro Paese – in termini di democrazia partecipativa effettiva – questa mancanza. Ciò che intendo tentare è, piuttosto, dimostrare quanto possa – il referendum propositivo – rendere più comprensibili ed accessibili i quesiti rispetto alla formula abrogativa.
E questa non è questione da sottovalutare.
Capita, infatti, con notevole frequenza, che i quesiti sottoposti alla consultazione popolare risultino di non facile comprensione e, talvolta, addirittura indecifrabili, da parte dell’elettore “medio”.
In tal senso, appaiono sufficientemente eloquenti almeno due dei cinque quesiti sui quali saremo presto chiamati ad esprimerci. Alludo a quello sulla “custodia cautelare” e, in misura ancora più evidente, a quello sulla c.d. “separazione delle carriere”.
Tra l’altro, non è peregrino immaginare che, in talune occasioni, la incomprensibilità dei testi – infarciti di riferimenti e rinvii a una miriade di altri provvedimenti di legge – sia funzionalmente destinata a creare equivoci e disorientamento.
Il testo del quesito relativo alla separazione delle carriere rappresenta, ad esempio, un vero e proprio arzigogolo nel quale l’elettore pare destinato a perdersi; senza alcuna speranza di trovarne il senso!

Al fine, quindi, di smascherare quella che considero un’ opera di disinformazione avviata (dai promotori e sostenitori dei cinque referendum) al solo scopo di alimentare quello che viene presentato come uno scontro tra magistratura e politica ma dal quale traspare, a mio giudizio, l’insofferenza del ceto politico rispetto al controllo di legalità, è opportuno tentare di comprendere al meglio le conseguenze di un eventuale .

Ritengo di poterlo (più agevolmente) fare operando una sorta di “traduzione” dei singoli quesiti; trasformandone la natura. Da abrogativa a propositiva.
In questo senso, il primo quesito, relativo alle modalità di presentazione della candidature dei magistrati per l’elezione nel Consiglio superiore della magistratura (Csm), non presenta particolare interesse. Già come redatto appare sufficientemente chiaro l’obiettivo dei referendari: abrogare l’obbligo di un magistrato di raccogliere da 25 a 50 firme a sostegno della propria candidatura. C’è solo da registrare che ciò non inciderà minimamente sul vigente sistema delle “correnti” interne al Csm. Tra l’altro, l’argomento è già materia della riforma Cartabia. Al riguardo, vale solo la pena riportare la posizione di Nello Rossi, Direttore del sito : “ Sostanzialmente irrilevante sul piano giuridico il quesito rivela però il tratto che accomuna i diversi referendum: il loro carattere meramente propagandistico, la loro strumentalità, la loro inidoneità a risolvere problemi reali. In una parola la loro natura ingannevole”!
“Tradurre” il secondo quesito significa, nei fatti, chiedere agli elettori se ritengono opportuno che a formulare i pareri sulla valutazione professionale dei magistrati – che oggi la norma riserva solo ai togati che compongono i Consigli giudiziari e non ai rappresentanti degli avvocati e a quelli dei professori universitari esperti in materie giuridiche (c.d. laici) – partecipino anche i membri non togati.

Personalmente, non considero opportuno che, nella valutazione dell’operato professionale di un magistrato sia direttamente coinvolto un soggetto – l’avvocato – che, per sua natura, svolge un ruolo di controparte (rispetto al Pm) e/o, comunque, in potenziale (direi, naturale) contrasto al magistrato giudicante.

Al riguardo, ancora Nello Rossi (opportunamente) scrive (4): “Non solo sarebbero possibili – si badi: in egual misura – ostilità preconcette e indebite compiacenze, ma, quel che più conta, sul compito difficile e delicato di valutare la professionalità dei magistrati potrebbero addensarsi sospetti capaci di inquinare le determinazioni consiliari e di privare della necessaria serenità i magistrati destinatari dei pareri”.
Come anticipato, è il quesito relativo alla c.d. “separazione delle carriere” che presenta il più altro indice di incomprensibilità (5) per il nostro “elettore medio”!

Si tratta, in sostanza di un tema ricorrente, relativamente al quale, però, si ha la sensazione che ai proponenti interessi tutt’altro che la soluzione del problema richiamato dal quesito.
In effetti, si ricorre a un lunghissimo testo – che riguarda ben cinque diverse leggi – per porre un astruso quesito che, ridotto ai minimi termini, suona più o meno cosi: “Volete voi istituire due separati percorsi, di funzioni e di carriera, tra Pm e giudice?” Sottacendo, però, quello che appare un pericolosissimo corollario; fortemente voluto da una consistente parte del ceto politico.
Alludo a una soluzione che – al pari della versione d’oltre oceano, cui il aprirebbe la strada – presenterebbe un magistrato inquirente (il Pm) nella veste di “avvocato della polizia” e sottoposto al potere politico dell’Esecutivo. Ci ritroveremmo, quindi, di fronte a uno scenario all’americana; con un Pm non più tenuto ad ad operare come parte imparziale nelle indagini e primo garante dei diritti dell’imputato – così come avviene oggi – ma un accusatore “puro” interessato, anche per ragioni di carriera, a vincere il processo.

Uno scenario, dunque, che considero allarmante!
E non solo questo.
Infatti, il quesito relativo alla questione “custodia cautelare” è, nella sostanza della versione “propositiva”, di una semplicità disarmante e, contemporaneamente, di grande allarme sociale. In evidente e stridente contrasto con le frottole cui siamo quotidianamente sottoposti attraverso il ricorrente “chiacchiericcio” del rozzo capo della Lega; promotore del referendum.
Volete voi che, ad esclusione dei casi di delitti di criminalità organizzata, di eversione o commessi con l’uso della violenza o di armi – quando non vi sia il rischio di inquinamento delle prove (ad esempio, per arresto in flagranza di reato o in evidenza di attività criminosa) e/o non ricorra il rischio di fuga dell’indagato – sia impedito (6) il ricorso alle misure cautelari?
Ciò perché, in sostanza, attraverso questo quesito, i promotori ed i sostenitori del referendum, intendono cancellare la possibilità che il giudice ricorra a tutte le possibili misure cautelative anche in quei casi (7) – e sono frequentissimi, come l’esperienza insegna – in cui ricorra il rischio di reiterazione del reato.
Un’eventuale affermazione del produrrebbe, dunque, un effetto devastante.

Non a caso, Nello Rossi scrive (8): “Nell’ipotesi di successo del referendum, i potenziali autori “seriali” di gravi delitti contro la pubblica amministrazione, contro l’economia, contro il patrimonio, contro la libertà personale e sessuale (purché non commessi con violenza) e così via(7), saranno inattingibili da misure cautelari motivate sulla base di una prognosi di ripetizione degli atti criminosi per cui si procede penalmente”!

Dulcis in fundo, la proposta – che reputo “vergognosa” per il ceto politico che la propone e la sostiene e, contemporaneamente, “offensiva”, nei confronti degli elettori chiamati ad esprimersi – di cancellare la c.d. legge Severino (Decreto legislativo 31 dicembre 2012, nr. 235, che prevede l’incandidabilità e la decadenza dalle cariche elettive per i politici che abbiano subito una condanna che superi i due anni).
Perché di questo, in effetti, si tratta. Anche se, vigliaccamente, viene presentata come l’esigenza (discutibile, ma pur comprensibile) di evitare che gli amministratori locali possano continuare ad essere sospesi dalla carica anche solo di fronte ad una sentenza di primo grado (9).
Infatti, mai come in questo caso, ciò che si chiede agli elettori è lapalissiano.
Tradotto in propositivo, si chiede: “Volete voi consentire, anche a chi sia stato condannato in via definitiva per delitti non colposi, di poter continuare a ricoprire cariche elettive, di candidarsi alle elezioni (dai Consigli comunali al Parlamento europeo) e di ricoprire incarichi di governo?

Un appuntamento referendario, quindi, da non sottovalutare, che – se ridotto a scontro ideologico, sull’onda della menzognera “crociata” dei sostenitori della “giustizia giusta” – corre il concreto rischio di produrre ulteriori danni e disagi all’amministrazione della Giustizia.

NOTE

1- Fino ad oggi, in Svizzera, si sono svolti ben 238 referendum.
2- La diffidenza degli estensori della “Legge fondamentale” tedesca, nei confronti del referendum, appare la logica conseguenza dell’amara esperienza vissuta con il nazismo che conquistò il potere per via democratica.
3- L’unico referendum di carattere consultivo si svolse nel giugno 1989 per decidere rispetto al mandato costituente da assegnare al Parlamento europeo.
4- Fonte: “Referendum sulla giustizia. E’ possibile parlarne nel ?”. A cura di Nello Rossi.
5- Qualcuno sostiene sia costituito da circa 1500 parole.
6- Al Gip, su richiesta del Pm o dal giudice presso il quale pende il giudizio.
7- E’ sotteso il riferimento a quei frequenti casi in cui (oggi) il giudice può disporre, ad esempio, il divieto di avvicinamento a persona offesa (nel caso di atti persecutori) o, anche il divieto temporaneo di esercitare determinate attività imprenditoriali (nel caso delle società finanziarie che truffano gli investitori).
8- Vedi Nota 4.
9- Come previsto all’art. 11 del suddetto decreto 235/2012.

di Renato Fioretti

Collaboratore redazionale del mensile Lavoro e Salute

27/2/2022

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