Regionalismo differenziato e modello di sviluppo capitalistico

Regionalismo differenziato e modello di sviluppo capitalistico

In queste calde settimane d’agosto – non soltanto sotto il profilo climatico – una delle esigenze che emerge è quella di capire che fine faranno le richieste di autonomia differenziata avanzate da Lombardia, Veneto, Emilia – Romagna mentre anche recentemente, in prossimità dell’attuale crisi di governo, non diminuisce la pressione politico-istituzionale come dimostra la risoluzione approvata a fine luglio dal Consiglio Regionale della Toscana[1], a maggioranza di centro-sinistra, su proposta della Lega Nord o la deliberazione della Giunta di centro-destra del Piemonte dove si amplia il numero di materie su cui era già stata richiesta la maggiore autonomia dal precedente governo regionale di centro-sinistra[2]

Il Presidente del Consiglio uscente, nel discorso al Senato del 20 agosto, ha ribadito che il percorso dell’autonomia differenziata va completato seppur mantenendo la coesione del Paese e con un piano di rilancio per il Sud;

in altri termini, la solita minestra che pretende di far stare insieme diavolo ed acqua santa, la medesima impostazione di quando, su un altro piano, si afferma che occorre una politica economica espansiva ma….rispettando il pareggio di bilancio.

A conferma di questo orientamento, Di Maio ha inserito il completamento del percorso avviato in uno dei 10 punti per la trattativa col PD.

Com’è noto, è almeno dallo scorso gennaio che il tema in argomento è fortemente dibattuto soprattutto tra esperti, forze politiche e, da ultimo, anche dalle forze sindacali;

purtroppo non c’è ancora un sufficiente dibattito di massa perchè il Governo ha cercato di opacizzare e segretare al massimo il confronto ma anche perchè c’è molta contraddittorietà e confusione tra i protagonisti del confronto/scontro e ciò è un ulteriore elemento da non sottovalutare nel portare avanti un coinvolgimento largo sulla materia.

Pertanto, il presente contributo, pur non avendo pretese di “dare la linea”, cerca di portare qualche elemento di chiarezza politica con l’obiettivo di dare anche un ruolo più attivo alla sinistra di classe e, in particolare, a noi comuniste/i indicando i presupposti di un punto di vista alternativo sia sotto il profilo dell’approccio che dei contenuti mirando, tra l’altro, a precisare il livello definitorio delle contraddizioni che ci troviamo davanti.

Più specificamente, il tentativo che si porta avanti è quello di allargare/approfondire il dibattito e l’iniziativa di lotta al regionalismo differenziato, dai pur importanti aspetti giuridico-istituzionali, verso quelli strutturali dove fondamentale non è soltanto la dimensione nazionale ma anche quella europea.

L’ asse del ragionamento – che articoleremo nei tre paragrafi in cui è suddiviso il presente scritto – è quello del nesso funzionalità/specificità della questione meridionale nel suo rapporto con l’autonomia differenziata e,  più in generale, col modello di sviluppo capitalistico per giungere ad indicare, seppur indirettamente, quali possono essere perimetro e contenuti di una politica di “fronte ampio” da un punto di vista di classe nella lotta al regionalismo differenziato vista come battaglia di fase e, quindi, di importanza strategica.

 

a) Il regionalismo differenziato e le questioni settentrionale e meridionale unite dal modello sviluppo capitalistico.

Il tema del Sud come “palla al piede” per lo sviluppo della Nazione non è certamente nuovo, anzi possiamo affermare, senza timore di smentita, che è decisamente vecchio.

Ciò, in realtà, significa che anche la “questione settentrionale” ha avuto alti e bassi, non è nuova e che, ad es., non sia nata soltanto dagli anni ’90 del 900 in concomitanza con quello che si può definire il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica.

Insomma la “questione settentrionale” è più o meno carsica come lo è stata ed è la questione meridionale in quanto due facce del medesimo sviluppo dualistico del Paese a sua volta frutto della legge capitalistica dello sviluppo ineguale dove l’ “arretratezza” meridionale – per dirla con un termine largamente debitore dell’indimenticabile Luciano Ferrari Bravo[3] – è “funzionale” allo sviluppo del Nord.

Ciò significa che anche le “forme” – nel senso marxiano del termine – della differenziazione non sono nuove e sono state sempre ben presenti nei gruppi dominanti del Paese.

Naturalmente la differenziazione delle politiche capitalistiche tra il Centro-Nord  e il Mezzogiorno ha avuto segni diversi a seconda delle fasi storico-politiche e del ciclo economico scegliendo le strategie più opportune dal protezionismo di fine ottocento per avviare l’industrializzazione capitalistica del Nord, alle leggi speciali per alcune zone del Sud di Nitti, alla politica quasi “socialdemocratica” di Giolitti al Nord mentre al Sud si lasciava spazio a notabili e paglietta, ai Provveditorati alle Opere Pubbliche istituiti dal fascismo a partire dal Sud, alla nascita dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno negli anni 50, alla crescente impostazione neo-liberista partita soprattutto dagli inizi degli anni 90 con il collegato ruolo dei Fondi strutturali europei che, com’è noto, prevedono una suddivisione esplicita tra Regioni sviluppate e Regioni della “convergenza” (quelle meno sviluppate).

Insomma la differenziazione s’è servita della straordinarietà e della specialità e quella prevista dall’art. 116, co. 3, della Costituzione è una forma d’intreccio tra ordinarietà e specialità dell’ istituzione Regione dove, soprattutto nell’impostazione del Veneto, tende a prevalere la specialità.

Nel sistema capitalistico, aldilà delle chiacchiere, non c’è – e non può esserci – l’obiettivo di eliminare gli squilibri territoriali ma quello di “governarli”, magari, in certi momenti storici, come accaduto negli anni 60, può anche ridurli in altri li aumenta.

In tal senso, l’autonomia differenziata è uno strumento di governance degli squilibri che in una fase di stagnazione/recessione come l’attuale non possono che aumentare e ciò aldilà della demagogia della Lega Nord – secondo cui i benefici andrebbero a tutte le Regioni – o della copertura all’operazione data da qualche Presidente di Regione meridionale come Vincenzo De Luca che ha inoltrato formale richiesta al Governo uscente di avvio del negoziato.

Del resto anche la richiesta di attuazione del regionalismo differenziato che passa per essere la più “morbida” – quella dell’Emilia-Romagna – nei suoi atti ufficiali afferma a chiare lettere che essa deve servire a far sì che la Regione sia  “in grado di proiettare l’azione politico-istituzionale verso i più elevati standard di efficienza permettendo così di competere con i territori più sviluppati  in ambito europeo e internazionale”[4].

Naturalmente un elemento non secondario delle precedenti politiche di differenziazione è che esse avvenivano all’interno di una politica centralistica che, quindi, non vedeva affatto un arretramento un arretramento dello Stato così come non c’era, o non era così forte come adesso, la cornice europea di riferimento.

 

b) La dimensione europea del regionalismo differenziato: critica del modello competitivo, rapporto col federalismo fiscale, europeismo dei sovranisti e ruolo delle Macroregioni.- Rinvio sulle politiche di coesione europee.

Il passaggio della risoluzione/atto d’indirizzo del Consiglio Regionale dell’Emilia-Romagna che abbiamo citato in precedenza è il vero legame tra le tre bozze d’intesa delle Regioni battistrada aldilà di alcune diversità sul numero di materie richieste su cui ottenere la maggiore autonomia e sull’estensione delle competenze regionali su singole materie come, ad es., l’istruzione.

Ciò significa, tra l’altro, che la posizione del PD sul regionalismo differenziato non dipende tanto dalla rincorsa alla Lega sul suo terreno ma dalla comune impostazione liberista (non a caso, come sappiamo, il pre-accordo nel febbraio 2018 è stato fatto col Governo Gentiloni);

questo aspetto, purtroppo, è spesso sottovalutato e porta a dare eccessiva importanza a fattori che, da un punto di vista di classe, sono, nella migliore delle ipotesi, secondari e servono a deviare il dibattito su falsi obiettivi come il federalismo “solidale”, “cooperativo”, ecc. che in alcuni contesti, se possono avere un’utilità, è soltanto sotto un profilo esclusivamente tattico.

Infatti non è possibile, se non sulla carta, conciliare la solidarietà nel rapporto tra territori col modello competitivo.

Di questo aspetto anche Associazioni come la Confindustria sono perfettamente a conoscenza, eppure si uniscono – non certo in buona fede – al coro mistificatorio che cerca di mettere insieme competitività e solidarietà affermando nel loro documento ufficiale sull’autonomia differenziata che l’ Associazione, da un lato, “guarda con interesse al processo in corso cogliendone un’occasione per il rafforzamento della competitività dei territori”, dall’altro, si cita  “l’ art. 119 Costituzione che tutela al contempo anche i valori della coesione e della solidarietà finanziaria tra i territori”.[5]

Chi ingenuamente sostiene la possibile coesistenza di solidarietà e competitività dovrebbe chiedersi come mai questo tipo di posizione è condiviso anche dall’Associazione padronale ed avere, quindi, perlomeno qualche dubbio.

Pertanto, pur non rinunciando a battaglie per la riduzione dell’”egoismo territoriale”, è bene non farsi illusioni perché – in regime liberista – solidarietà, cooperazione, perequazione sono irraggiungibili anche quando vengono scritti in maniera contraddittoria in Costituzione dove, non a caso, sono accanto al pareggio di bilancio ex-art. 81 che, invece e come sappiamo sulla nostra pelle, non è per nulla astratto.

Ciò vale, a maggior ragione, quando i principi solidaristici sono scritti in una legge ordinaria come quella del 2009 sul federalismo fiscale che, non a caso, prevede il legame tra entrate tributarie e territorio e, sempre non a caso, ha uno dei suoi decreti attuativi che riguarda i “premi” per gli Enti virtuosi e le “sanzioni” per quelli “inefficienti”.

In altri termini, avere un giudizio positivo sul “federalismo fiscale” significa accettare quei principi che poi portano all’aberrazione leghista del “residuo fiscale” quindi – da parte di alcuni settori- lo scontro viene portato avanti all’insegna di un populismo meridionalista contrapposto al populismo leghista, in realtà, ciò che si vuole non è una lotta senza quartiere all’autonomia differenziata, ma un compromesso al ribasso.

E’, ovviamente, essenziale il riferimento al federalismo fiscale perché, come si sa, è il motore dell’autonomia differenziata.

Da quanto argomentato sinora, emerge che il regionalismo differenziato è una proposta “forte” e unificante del sistema di potere tanto che va avanti anche per strade diverse dall’art. 116, co. 3, del titolo V[6]quantunque l’applicazione di questa disposizione costituzionale ne rappresenta un indubbio salto di qualità.

La forza della proposta è data dal fatto che – oltre a saldare intorno a sé un blocco sociale consistente – nel tempo essa si è crescentemente caratterizzata nel suo legame con le strategie della UE a partire dall’articolazione delle richieste sull’istituzione delle Macroregioni o delle “regole” con cui si attuano le politiche di coesione.

Infatti anche la Macroregione – altra rivendicazione storica della Lega – ha, ormai, profonde radici “europeiste” tanto che dal 2009 al 2016 la UE ha formalmente approvato quattro “strategie macroregionali”: quella Baltica, quella per la Regione danubiana, quella per l’area Adriatica e Jonica e, da ultima, quella Alpina mentre crescono le spinte per l’approvazione di una quinta strategia per l’area del Mediterraneo Occidentale.

Sotto il profilo formale, le macroregioni della UE sono un esempio di “cooperazione territoriale rafforzata”, non costituiscono delle nuove istituzioni e sono aperte anche a Paesi e Regioni extra-UE;

da un punto di vista sostanziale nascono anche da esigenze geo-politiche, servono ad allargare l’influenza UE e a preparare l’ingresso ufficiale di altri Paesi all’interno dell’ Unione.

Esse danno un contributo importante a trasformare il rapporto tra aree forti e deboli dei singoli Paesi

verso una dimensione europea dove il dualismo tendenzialmente si sposta tra le Macroregioni forti e quelle deboli.

Ad es., è chiaro che c’è una notevole differenza di PIL tra la Macroregione Alpina, dove ci sono Regioni forti come la Baviera e la Lombardia, e la Macroregione Adriatico-Jonica che coinvolge buona parte delle nostre Regioni meridionali e la Grecia.

Insomma le macroregioni sono, di fatto, uno strumento per l’Europa a due velocità.

Da notare che la Lega, nella sua anima europeista, ha sempre dato un giudizio positivo su questo tipo di macroregioni in perfetta coerenza col voto favorevole, nel 1992, al Trattato di Maastricht e nel 2008 col voto a favore di quello di Lisbona ulteriore e più articolato snodo del sistema liberista europeo.

E’ importante tenere presenti questi aspetti con la dovuta attenzione altrimenti non riusciamo a “distinguere il fumo dall’arrosto”;

in altri termini, la Lega, come altre formazioni “sovraniste”, dietro la demagogia anti-UE ha posizioni molto simili ad altre forze come, ad es., Orban che è comodamente inserito nel PPE e quest’ultimo non ha alcuna seria intenzione di espellerlo (naturalmente l’Ungheria fa parte di una delle macroregioni, quella del Danubio).

Le due macroregioni che coinvolgono l’Italia – quella Alpina e quella Adriatico- Jonica – vedono il coinvolgimento di Regioni settentrionali, centrali e meridionali, ossia un esempio concreto della “visione” unitaria dei gruppi dominanti delle varie aree del Paese e, quindi, restiamo basiti difronte al silenzio o, addirittura, all’approvazione delle posizioni prese da un uomo di potere come il Presidente della Regione Campania che, negli ultimi tempi, farfuglia sull’importanza di un Movimento meridionalista dopo aver improvvidamente richiesto l’avvio della procedura per l’attribuzione dell’autonomia differenziata.

Qui ritorna uno dei limiti storici del meridionalismo “classico” (o, se preferite, del meridionalismo borghese) che si muove in un orizzonte tutto interno al modello di sviluppo capitalistico.

Questo limite, nel caso dell’autonomia differenziata, si evidenzia quando si riduce la critica al federalismo fiscale ad un problema di “attuazione perversa” dello stesso.

E’ appena il caso di ricordare che la legge-delega n. 42 del 2009 prevede il principio del rapporto tra tributi e territorio e la richiesta del “residuo fiscale” non è altro che portare alle estreme conseguenze tale principio, pertanto gli altri aspetti contenuti nella citata legge, come quello perequativo, debbono fare i conti con questo tipo di rapporto che, invece, va contestato se vogliamo sostenere in maniera coerente la posizione che il rapporto del fisco è col singolo cittadino e non col territorio regionale di appartenenza.

Nel tornare alla macroregione, i fautori dell’approvazione della quinta strategia vedono la prospettiva euro-mediterranea come un’articolazione della politica liberoscambista con varie Zone Economiche Speciali, insomma uno strumento per aumentare l’influenza economica della UE verso Paesi terzi della sponda africana all’interno di ulteriori meccanismi neocoloniali.

E’ dalla più organica critica di questi aspetti che dovrebbe nascere la nostra prospettiva euro- mediterranea piuttosto che da improbabili collegamenti con esperienze di altri continenti, insomma, per dirla col buon “vecchio” Marx, proletariato e borghesia sono classi simbiotiche e soltanto da una critica serrata della loro prospettiva euro- mediterranea che può nascere la nostra.

Un altro aspetto importante che conferma il nesso tra l’autonomia differenziata e le politiche europee è dato dall’impostazione, anch’essa organicamente liberista, che sta dietro all’utilizzo dei fondi strutturali e, quindi, alle politiche di coesione in particolare sulla questione delle “condizionalità” dirette sempre a “premiare” Regioni e Paesi “virtuosi” e “punire” quelli “inefficienti”.

Questo punto, però, richiederebbe una trattazione autonoma che in questa sede non possiamo fare per questioni di spazio, pertanto si rinvia ad altra occasione.

c)      Conclusioni: caratterizzazione strategica dell’autonomia differenziata e l’attuale intreccio della questione meridionale con altre questioni. – Fronte ampio e chiarezza politica.

Sul fatto che l’autonomia differenziata rappresenti, nelle sue varie forme, un’esigenza strategica dei poteri forti – non soltanto parte importante della piattaforma di questo o quel Partito, né dei soli gruppi dominanti del nostro Paese – non ci dovrebbero essere dubbi, pertanto, l’attuale rallentamento non può indurre ad abbassare la guardia, anzi occorre sfruttarlo per un salto di qualità in termini di progetto e di proposta.

All’interno di un approccio neo-gramsciano, a nostro avviso, è importante comprendere che l’autonomia differenziata nel suo intreccio con la questione meridionale non può essere impostata in termini esclusivamente territoriali perché, come abbiamo visto, significherebbe sottovalutare l’aspetto unificante dell’attuale blocco di potere che essa realizza (da Confindustria alle varie forze politiche e anche i sindacati confederali che, aldilà delle critiche all’autonomia differenziata, ne sono strategicamente subalterni perché accettano una politica economica basata sulla competitività).

Inoltre va combattuto ulteriormente il contenuto di attacco sociale che con l’autonomia differenziata si profila e che riguarda sia le lavoratrici e i lavoratori dei comparti coinvolti che le conseguenze sul Meridione in termini di prospettiva politica e blocco sociale da costruire.

Sul primo punto (il ruolo dei lavoratori dei comparti coinvolti) almeno in alcuni dei settori che si oppongono all’autonomia differenziata – come quelli che hanno partecipato all’ Assemblea Nazionale del 7 luglio a Roma – c’è abbastanza coscienza dell’importanza di giungere ad un maggior coinvolgimento dei lavoratori i cui comparti ricadono nelle materie oggetto delle richieste di autonomia differenziata.

Sul secondo punto, invece, la situazione è ancora più arretrata ed è soprattutto su di esso che occorre il salto di qualità cui facevamo riferimento in precedenza.

Ciò significa che per comprendere il nesso tra autonomia differenziata e questione meridionale occorre comprendere con quali altre “questioni” quest’ultima si intreccia.

Il Gramsci di “Alcuni temi della questione meridionale” vedeva l’intreccio tra questione contadina, questione meridionale e questione vaticana, oggi – come si può dedurre da quanto analizzato sinora- l’intreccio è tra questione giovanile, questione meridionale e questione euromediterranea (su quest’ultima ci siamo già brevemente soffermati nel paragrafo precedente).

In questo senso il fatto che – come emerge dalle anticipazioni dell’ultimo Rapporto SVIMEZ – il saldo migratorio interno tra il 2002 e il 2017 sia negativo per 852.000 unità dimostra come l’emigrazione superi sensibilmente l’immigrazione e che all’interno delle persone che emigrano forte è proprio la componente giovanile.

Ad es., nel solo 2017 sono emigrate dal Sud 132.187 unità di cui oltre la metà giovani e, in buona parte, anche altamente qualificati.[7]

Tuttavia non potremo andare avanti in termini di progetto e proposta se non affrontiamo la “questione politica”.

Qui emerge il nesso tra il “fronte ampio” contro l’autonomia differenziata e, al tempo stesso, della chiarezza politica con cui affrontare la costruzione di tale fronte.

E’ sicuramente importante lo strumento dei Comitati di scopo che stiamo già unitariamente adoperando nell’area napoletana, tuttavia non dobbiamo nasconderci il fatto che parte non secondaria dell’opposizione all’autonomia differenziata si muove in un’ottica para-liberista per cui tende a battersi per un’autonomia differenziata soft e quest’impostazione potrà avere ulteriore ossigeno in caso di formazione di un Governo Cinque Stelle-PD.

Per evitare che la battaglia contro il regionalismo differenziato si svolga all’interno dell’attuale modello di sviluppo occorre che le forze della sinistra di classe recuperino maggiormente un proprio ruolo pur senza settarismi e ideologismi.

Ad esempio, se è vero che siamo tutti debitori – ad iniziare dallo scrivente – rispetto a persone perbene e di spessore come Viesti, Villone, Esposito, Giannola, ecc. è altrettanto vero che una serie di giuristi, economisti, intellettuali hanno svolto un oggettivo ruolo di supplenza causato da debolezza e ritardi della sinistra di classe.

Ciò significa che non si può più evitare di fare i conti con la propria inadeguatezza magari ripetendo meccanicisticamente questo o quel contributo, pur importante e proveniente dai citati giuristi o giornalisti.

Infatti c’è il pericolo di creare – seppure in assoluta buona fede – quelli che Gramsci ironicamente definiva i “santoni” della questione meridionale con riferimento ai vari Fortunato, Salvemini o Labriola.

Oggi se facessimo quest’errore nella battaglia contro l’autonomia differenziata forzeremmo anche la volontà e il ruolo di chi ha fornito importanti contributi di analisi e proposta.

Allora l’esigenza è di alzare il tiro, elaborare una proposta alternativa per il sistema-Paese nella critica serrata alla UE anche su questo terreno nella consapevolezza che se non inseriamo le rivendicazioni contro l’autonomia differenziata in una battaglia più ampia contro il titolo V della Costituzione e il relativo federalismo anche determinati successi, come quello della fine degli “Asili zero”, diventano insoddisfacenti perché ottenuti a “metodologia invariata” all’interno dell’attuale sistema perequativo chiuso   (close ended) ossia di una programmazione che non parte dalle effettive esigenze di prestazioni sociali ma da rigidi tetti di spesa predeterminati perchè l’obiettivo è quello del pareggio di bilancio e della collegata privatizzazione dei servizi dove  concentrazione delle risorse sui territori più “efficienti” e rafforzamento di quella che Krugman[8]già da tempo ha definito “ossessione” della competitività non sono che parte della strumentazione liberista.

Così come altro elemento di chiarezza occorre sulla mancata fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni: si tratta di una richiesta che sicuramente può essere inserita in una piattaforma di larga convergenza ma non può essere accettata l’enfasi con cui da parte di alcuni viene portata avanti in quanto i LEP sono un parziale svuotamento del principio di uguaglianza contenuto nell’art. 3 della Costituzione, essi danno la copertura della massima fonte giuridica al fatto che l’uguaglianza delle prestazioni per i cittadini italiani vale soltanto per livelli minimi oltre i quali si può differenziare tra territorio e territorio. – E’ qui che c’è il seme di quello che, per esempio, ha già prodotto una sanità di serie A e una di serie B.

Introdurre elementi di chiarezza politica all’interno di un’impostazione di fronte ampio è l’unico discrimine per comprendere la differenza tra chi non vuole un compromesso al ribasso e chi, invece, lavora per un simile obiettivo magari camuffandosi dietro toni massimalistici o da Lega del Sud o, ancora, dietro una veste di Movimento o da Centro Sociale.


[1]    Cfr. risoluzione n. 268 del 31/7/2018 approvata in concomitanza del dibattito sul DEF regionale 2020.

[2]    Chiamparino aveva formalmente richiesto la maggiore autonomia su 13 materie, l’attuale Presidente ha avviato una procedura che, sulla falsariga del Veneto, porta la richiesta a 23 materie. – E’ previsto l’avvio del dibattito nelle commissioni consiliari il prossimo 4 settembre.

[3]    Cfr: Stato e sottosviluppo: il caso del Mezzogiorno italiano di L. Ferrari Bravo e A. Serafini. – Edizioni Feltrinelli. – Si tratta di un volume “datato” ma che conserva ancora forti elementi di attualità.

[4]    Cfr. Risoluzione del Consiglio Regionale n. 7518 del 18 settembre 2018 con cui è stato approvato l’atto di indirizzo per portare avanti il negoziato col Governo.

[5]    Cfr.: “Iniziative regionali per l’autonomia differenziata ex-art. 116 della Costituzione” – Luglio 2019 (citazioni dalle pagine 2 e 5)

[6]    Più volte è stato segnalato da autorevoli fonti – e come emerge dall’esperienza concreta – che, ad es., già esiste una sanità di serie A e una di serie B, così per la scuola, i trasporti, ecc.

[7]    Cfr. comunicato stampa sulle anticipazioni del Rapporto SVIMEZ

[8]    Paul Krugman, noto economista americano, già in un saggio del 1994, successivamente ripreso, ebbe modo di criticare l’ “ossessione” della competitività all’interno del suo Paese.

Rosario Marra

Segretario Provinciale PRC Napoli e componente del Coordinamento NO Autonomia differenziata

27/8/2019 www.rifondazione.it

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