Restate a casa: sì, però…

Le metafore che si prestano a rappresentare questo flagello mondiale che è il coronavirus sono diverse: tsunami, valanga, ciclone. Tutto rimanda a sconvolgimenti epocali.
Non è la prima pandemia nella storia dell’umanità ma certamente, rispetto alle precedenti, è quella più gravida di conseguenzea livello planetario. Nella complessità del mondo globalizzato, in cui il covid 19 è un sassolino negli ingranaggi di un gigantesco macchinario, riparare i danni sarà impegnativo.

Abbiamo tutti grande preoccupazione per il futuro, un “futuro” che non riusciamo neanche a datare, ad immaginare da che giorno far partire. Per ora siamo in un tunnel, e non si vede la luce; intravediamo debolmente una indefinita fase due, della quale sappiamo solo che non potremo riprendere la nostra vita dal momento in cui si è interrotta.

Ci sono persone che in questo momento lavorano, nei supermercati, nelle fabbriche, in alcuni uffici. Sono costretti ad affrontare la paura del contagio, rischiano di ammalarsi , di far ammalare i propri cari. Spesso non è così evidente per quale necessità essi siano costretti a condurre una normale vita lavorativa in una situazione assolutamente anomala.

Altri, gli operatori sanitari, medici, infermieri, assistenti, addetti alle pulizie negli ospedali e nelle RSA, quelli ora riconosciuti come eroi, hanno una percezione diversa, dell’incubo. Lo vivono da protagonisti, si misurano con la morte, con i suoi effetti, col dolore. Investiti in pieno dalla malattia, dalla disperazione di chi non respira, di chi sente la vita scivolare avendone piena lucidità, devono cercare di rimanere lucidi, di non smarrire l’equilibrio psichico in giornate intense, lunghe, difficili. Sono parte attiva. Non hanno tempo di pensare, di annoiarsi.

I malati ricoverati, quelli che vengono lasciati in casa, i parenti di malati, sono in un vortice di terrore, tutti intimamente soli, a gestire l’ignoto, senza risposte, senza consolazione.

Chi lavora da casa , soprattutto le donne, spesso deve conciliare lavoro e cura dei bambini. Molti, bambini, studenti, lavoratori non essenziali, anziani devono solo e semplicemente rimanere fermi ed è meno facile di come sembra. Per molte persone, la mancanza di comunicazione, l’impossibilità di agire lo spazio esterno è sconvolgente.

Perfino per chi, come i senza tetto, nello spazio aperto ci vive, è costretto a rinchiudersi, multato e sanzionato, le panchine sono luoghi proibiti. I dormitori leciti ma pericolosi. Nelle carceri, la reclusione pesa ancora di più, per l’interruzione delle visite, lo spettro di un contagio che sarebbe gravissimo. I bambini, soprattutto i più piccoli, già privati degli spazi di socialità scolastica e ricreativa , non comprendono il diktat della segregazione.

Gli anziani, oltre a temere fortemente per la propria vita devono gestire la solitudine, la lontananza da figli e nipotini, l’abbandono, anche qui di forme di socialità di strada, di bocciofila. Ci sono migliaia di convivenze difficili, disturbi psichici, maltrattamenti, costrizione in spazi ed ambienti insufficienti, problemi economici , tutte situazioni esacerbate dall’isolamento.

La consapevolezza della necessità di questa misura non è sufficiente ad alleggerirne il peso psicologico. Non funziona neppure il pensiero di essere privilegiati rispetto agli altri, quelli che escono per lottare.

I più fortunati di noi sono costretti a stare a casa, spettatori impotenti di un
dramma fatto di cifre chesi mescolano, immagini agghiaccianti mediate da uno schermo che passa dagli speciali girati in ospedale, con corpi impudicamente offerti al nostro sguardo, nella loro umanità, alle immagini di città deserte, o da individui che sfidano i divieti e ostinatamente occupano strade, parchi.

Dalle finestre guardiamo la natura risvegliarsi, animaletti temerari che forse si stanno chiedendo che fine avranno fatto gli ingombranti e pericolosi umani., mentre a noi, come in un incubo, è interdetto l’accesso a quegli spazi. Le voci martellanti di politici, scienziati, artisti, pubblicitari, sconosciuti dalla tv ,dai social, dai balconi implorano, urlano, impongono con modi e toni variamente assortiti “ RESTATE A CASA”.

I fortunati tra i fortunati sono quelli non toccati, direttamente o nella stretta cerchia di affetti, dalla malattia . Ma ciò che unisce tutti è che viviamo uno stravolgimento delle categorie di spazio e tempo. Lo spazio ridotto alla casa- prigione, su cui insistono tutti i membri del nucleo familiare, lo spazio pubblico vietato, il tempo immobile, un’eterna domenica.

Ed è qui, nella gestione di questa esperienza nuova per tutti, che si manifestano le inclinazioni individuali. Qualcuno si organizza, resiste, mette a frutto le ore, conserva la lucidità necessaria a superare la sensazione di estraneità dal mondo reale e ad analizzare razionalmente lo scenario presente e futuro. Molti altri, però, non reggono.

Così, come effetti collaterali del virus che sono la rabbia, la frustrazione verso chi si presume non rispetti le regole. Spesso con acrimonia, senza moderazione, presumendo la colpevolezza senza appello per chi osa occupare lo spazio. Non che non sia giusto invitare alla responsabilità, ma provoca una certa inquietudine vedere tante manifestazioni di odio e disprezzo per il prossimo.

Il distanziamento sociale, unica nostra difesa per ora , dall’epidemia, sembra accompagnarsi ad una pericolosa perdita di empatia. Quindi tutti contro tutti, guardiani del condominio contro runner, proprietari di cani contro fumatori, casalinghe super organizzate contro genitori con bambini, strateghi della spesa contro smemorati che devono tornare al supermercato.

La già scarsa capacità, in tempi normali, di indossare i pannidell’altro, di immaginare situazioni, esigenze e bisogni diversi dai propri è completamente svanita. Impazza la censura, la condanna strozzata dall’infelicità personale che invece di riconoscersi nel prossimo, trasforma alcuni in sceriffi ed inflessibili sorveglianti. Forse è comprensibile, come segno di debolezza nella difficoltà, ma sarebbe meglio elaborarla.

Uno spettacolo penoso, che affolla i social e fa venire voglia di evadere, in tutti sensi, di dimenticare questa brutta storia. Ma non bisogna cascarci, nulla deve essere dimenticato, nulla di ciò che ci ha condotti a questo disastro colposo in cui il virus ha rappresentato solo la scintilla. L’esplosivo era pronto da tempo .

La rabbia, la frustrazione , il dolore , l’indignazione devono essere canalizzate nella giusta direzione. E non possiamo lasciare che le restrizioni alla libertà personali, necessarie in questa contingenza, diventino ostacolo alla comunicazione, all’azione politica; non è un caso che, avvertendo questo pericolo , associazioni e movimenti politici moltiplichino gli sforzi per tenere unite le persone.

Non possiamo accettare , pur rispettando le regole per frenare l’epidemia, abusi di autorità, spionaggi di vicinato, e nemmeno il tono minaccioso di chi addita il prossimo, magari deambulante solitario, come criminale. Non facciamo il gioco del capitalismo della sorveglianza, che acquisterà, in questo frangente, già troppi punti.

Non possiamo sprecare questa tragedia nell’odio per il prossimo , non dobbiamo accettare la narrazione che il sistema cercherà di propagandare. I nostri morti di oggi e il dramma economico didomani, devono essere addebitati alla politica, al capitalismo, al liberismo , a confindustria , alle ragioni economiche che hanno oscurato il diritto alla salute dei cittadini.

Restiamo a casa, ma coltiviamo l’odio per il capitale, prepariamoci a combattere un altro nemico, peggiore del virus.

Riflessioni di Loretta Deluca per Lavoro e Salute

Pubblicate sul numero di aprile http://www.lavoroesalute.org/

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