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Altra Informazione, Blog, Comitati di Lotta, Cronache di Lavoro, Cronache Politiche, Cronache Sindacali, Cronache Sinistra Europea, Culture, Editoria Libera, Politiche di Rifondazione, sanità e salute, Storia e Lotte — Aprile 6, 2021 7:51 am

IL DISAGIO PSICOLOGICO È POLITICO. ORGANIZZIAMOCI!

ROMPIAMO IL SILENZIO

Pubblicato da franco.cilenti

In questi mesi, nel totale silenzio delle istituzioni, i posti letto ospedalieri stanno venendo occupati, oltre che dai pazienti Covid, anche da giovani che tentano il suicidio o che mettono in pratica atti di autolesionismo per cui rischiano la vita. Si tratta di una dilagante “crisi psicologica” che sta interessando ospedali e strutture di tutto il paese. Il primo allarme fu diramato da Stefano Vicari, responsabile dell’ala di neuropsichiatria infantile dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, già all’inizio della seconda ondata, quando sottolineò l’incremento dei posti letto occupati da ragazzi entrati in reparto per tentato suicidio: il 100% a fine 2020, contro una media standard del 70%[1].

In realtà, la salute mentale dei giovani era un problema importante già prima del Covid e la pandemia ha contribuito ad esacerbarlo. Infatti, già da tempo in Italia il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani nella fascia d’età 15-29 anni[2]. Inoltre, secondo l’Osservatorio Nazionale Adolescenza[3] i tentativi di suicidio da parte dei teenager in due anni (dal 2015 al 2017) sono quasi raddoppiati: si è passati dal 3,3% al 5,9%, ovvero 6 su 100 di età tra i 14 e i 19 anni hanno provato a togliersi la vita. Un dramma che riguarda soprattutto le ragazze (71%). Una fotografia che mette a nudo un crescente disagio giovanile: il suicidio o il tentativo di suicidio non sono un raptus ma l’ultimo atto di un percorso di sofferenza in cui matura il disagio esistenziale di noi giovani e che ci interroga sul tipo di società in cui viviamo.

Abbiamo già scritto come, con  la pandemia da Covid-19, si ha l’entrata in scena nella nostra storia del cigno nero, che rimette in discussione lo stato di cose presenti, dimostrando che questa non è né l’unica, né la migliore delle realtà possibili[4]. Ad un anno da quella riflessione pare evidente quanto il prolungarsi dello stato di emergenza e delle restrizioni alla socialità, alla scuola, al lavoro, alla possibilità di programmare un futuro non abbiano fatto altro che accelerare e mettere a nudo tutta una serie di storture sistemiche di un modello sociale la cui unica prospettiva di sviluppo è basata sul regresso della condizione materiale, sociale e culturale dell’intera Umanità.

L’aspetto psicologico è emblematico di questa tendenza: la volontà politica di proteggere il profitto e la produzione a danno del benessere collettivo hanno contribuito ad aumentare il senso di isolamento, inadeguatezza e di abbandono, colpendo inevitabilmente e in maniera più aggressiva le fasce di popolazione in condizioni di maggiore precarietà economica già profondamente minacciata da un modello ideologico e di sviluppo basato sul profitto e sull’attacco costante ai diritti sociali, sull’individualismo e sull’introiettamento del fallimento.

La pandemia in tal senso è la sindemia perfetta, in quanto le condizioni di disagio psicologico  si manifestano all’interno soprattutto dei gruppi sociali svantaggiati e tra giovani e giovanissimi cresciuti nella crisi e nella totale assenza di prospettive: esiste una forte componente di classe, oltre che generazionale, nel dilagare del malessere psicologico. Infatti, come emerge da studi effettuati dall’ISFOL (Istituto per lo Sviluppo Formazione Professionale Lavoratori)[5] il disagio psicologico delle fasce giovanili è caratterizzato sì da una multidimensionalità e non è riconducibile esclusivamente ad un aspetto economico, ma allo stesso tempo “risulta un numero significativamente maggiore di ragazzi con status socioeconomico basso che sperimentano disagio psichico rispetto ai ragazzi con status medio e alto”.

Si conferma così in crisi un intero sistema sociale, a partire dai valori fondanti su cui si basa: lo sconforto psicologico è infatti solo il riflesso di una società atomizzata, individualizzata, polarizzata, incapace di offrire una prospettiva di emancipazione personale e collettiva. Un fallimento che mette in discussione l’intera organizzazione sociale a partire dal mondo della formazione, dove la logica del merito, della competizione sfrenata, del “tutti contro tutti” sono le prime cose che ci inculcano nella fase dell’apprendimento.

Durante questa pandemia abbiamo avuto la conferma di quanto la competizione tra studenti e la conseguente valutazione siano priorità inderogabili della nostra classe dirigente, che punta a formare i futuri sfruttati, aumentando ancora di più le disparità. I giovani studenti, che di punto in bianco si sono trovati rinchiusi nelle proprie case, non solo si sono dovuti adattare in fretta ad un tipo di vita completamente diverso e profondamente isolante, ma hanno dovuto comunque dimostrare di saper dare il massimo, continuando ad essere messi sotto esame, in una dinamica completamente asettica e che li vedeva come pezzi di un esamificio, lontano dal vero fulcro dell’insegnamento consapevole e formativo.

Tutto ciò, oltre ad aver esasperato una realtà già esistente ed amara, ha creato profondi danni a coloro che si sono trovate vittime di queste “soluzioni”. L’impatto che l’isolamento e la DAD hanno avuto sugli studenti è certamente significativo, la didattica a distanza infatti oltre ad aver tolto il legame con il luogo fisico della classe, portando i ragazzi a sentirsi più soli, ha creato un profondo senso di disagio e disorientamento. Il 28% degli studenti dichiara che almeno un loro compagno di classe dal primo lockdown ha smesso di frequentare le lezioni, tra questi, un quarto sostiene che siano almeno tre gli studenti a non seguire più le lezioni[6]. Fra le cause principali delle assenze dalla DAD vi è sì la difficoltà delle connessioni, ma non solo, un elemento fondamentale sono sicuramente le difficoltà psicologiche e le dinamiche familiari.

In questo possiamo notare la differenza fra chi, con un sostegno economico ed emotivo più forte ed una stabilità psicologica diversa riesce a “mantenersi o mettersi in salvo”, raggiungendo l’obiettivo prefissato e chi invece rimane indietro, vedendosi negato tutto. Contrariamente a come si vuole far credere, infatti, la famiglia rappresenta il più delle volte il luogo primario di violenza fisica e psicologica che viene accentuata dalla permanenza forzata in ambienti famigliari spesso complessi e dannosi, da convivenze conflittuali e in abitazioni con spazio troppo ridotto. Non bastasse ciò, in questo pericoloso mix, si aggiunge anche la scomparsa degli affetti più cari: la morte, un concetto che prima era lontano, adesso sembra essere diventato sempre più vicino e presente, in una costante ridondanza di numeri che sono, ormai, la normalità.

La correlazione tra disagio economico, assenza di prospettive, impossibilità di immaginare il futuro e malessere psichico risulta evidente anche alla luce dell’incremento delle vendite di psicofarmaci registrato nell’ultimo anno, soprattutto tra i giovani. L’agenzia Italiana del Farmaco (Aifa)[7] ha  evidenziato nel 2020 un aumento considerevole dell’acquisto di ansiolitici rispetto all’anno precedente e rispetto alla prima fase della pandemia. Le vendite di tranquillanti in farmacia sono aumentati del 17% rispetto al marzo del 2019, quelle degli antidepressivi e degli stabilizzatori dell’umore salgono del 13,8%, e del 10% quelle degli antipsicotici.

Nonostante l’impennata vista nella prima e seconda ondata del Covid-19, analizzando i dati degli anni precedenti è possibile affermare che fenomeno del disagio psicologico e il conseguente ricorso ai farmaci (anche senza prescrizione) ha subito un processo di normalizzazione e preoccupa ulteriormente se visto in relazione alla condizione di adolescenti e giovani adulti. Secondo uno studio dell’Istituto di fisiologia clinica del Cnr di Pisa Espad Italia 2018, i giovani italiani tra i 15 e i 19  anni sono i maggiori consumatori di psicofarmaci non prescritti in Europa (10% a fronte della media europea del 6%). Il fenomeno diventa allarmante anche alla luce dell’utilizzo fatto dai giovanissimi di psicofarmaci assunti in mix con altre sostanze legali ed illegali. Secondo le indagini ufficiali del ministero relative all’anno 2018, 880.000 ragazzi tra i 15 e i 19 anni ha dichiarato di aver fatto uso di sostanze legali e illegali a scopo ricreativo.

Crediamo fermamente che l’abuso di sostanze, la tendenza dei giovani alla ricerca di strumenti atti ad alienarsi totalmente da una realtà opprimente e priva di prospettive, non sia sintomatica di irresponsabilità generazionale o di mancanza di autodisciplina, quanto di un profondo disagio socio economico dato da un sistema individualistico e classista, che punta a scaricare la responsabilità del “fallimento” sul singolo, quando sappiamo bene che il problema è sistemico e che l’emancipazione dalla sofferenza psicologica non può che andare di pari passo con l’emancipazione politica, la lotta e il rifiuto del sistema attuale delle cose.

Per comprendere la correlazione tra impianto ideologico capitalistico e sofferenza psicologica è interessante analizzare il primato milanese dell’acquisto ed utilizzo di psicofarmaci. A Milano, città fiore all’occhiello del sistema industriale e imprenditoriale europeo, capitale dell’economia italiana e eccellenza del neoliberismo europeo nello scenario internazionale di competizione interimperialista, addensante di tutti quei valori capitalistici sopra descritti, la sofferenza psicologica è dilagante, soprattutto tra i giovani[8]. Nel 2018, le farmacie italiane hanno venduto al mese in media 6.840 confezioni di psicofarmaci, mentre la media milanese si attesta a 8.500. Nel 2018 in Italia sono state vendute 128 milioni di confezioni di psicofarmaci per un fatturato complessivo di 1,2 miliardi. Di questi, 55,2 milioni sono stati fatti a Milano e provincia.

L’aumento dell’utilizzo degli psicofarmaci è però anche causato dal modo in cui la nostra società gestisce il malessere psicologico: si relega la soluzione del problema a una dimensione puramente tecnica, competenza esclusiva di specialisti (psicologi, psicoterapeuti, psichiatri) che conducono il loro lavoro riducendo a inadeguatezza individuale il nostro disagio sociale, disinnescando il suo potenziale conflittuale, e trovando nella medicalizzazione la soluzione alle situazioni di crisi e disagio psicologico. Se è vero che in alcuni casi il disturbo psichico è conseguenza di un vero e proprio “disturbo molecolare”[9], sicuramente non è possibile semplificare tutti i casi sul piano biologico e genetico – sarebbe un’operazione che trascurerebbe i fattori ambientali e sociali come determinanti nella formazione degli individui. 

All’inadeguatezza dei metodi propinati per affrontare il disagio psicologico, si aggiunge l’insufficienza infrastrutturale del settore pubblico nel gestire la problematica. Questo perché, sebbene sulla carta le ASL dispongono di svariate strutture, dipartimenti di salute mentale, unità di neuropsichiatria, servizi dedicati alle tossicodipendenze e alle dipendenze in generale, ovviamente la strutturazione che si ritrova “su carta” non corrisponde spesso alla realtà. Il sistema non è facilmente accessibile e non è integrato con la medicina territoriale, è spesso carente nell’infrastruttura, nelle attrezzature e nel personale e si presenta inadeguato nell’interagire con le esigenze della popolazione del territorio in cui è presente, soprattutto nelle aree più povere.

La stessa gestione della pandemia ha palesato le carenze di un sistema “aziendalizzato” che finalizza la salute al profitto, dalle diagnosi alle cure stesse. Senza dimenticare la fragilità del sistema data dalla precarietà di larghe fette di lavoratori del settore, dall’interdipendenza collusa con strutture private, convenzionate e non, e dalla possibilità di medici e specialisti di operare “privatamente” nelle strutture pubbliche. Il quadro peggiora se si considera la regionalizzazione del sistema sanitario, governato quindi secondo l’autonomia regionale, che causa profonde disparità da regione a regione con la conseguenza di avere “poli di eccellenza” accanto a “strutture di serie B” anche in questo settore.

CONCLUSIONI

Tutti gli studi fatti in questi mesi hanno messo in luce come sia evidente che la crisi sanitaria e sociale della pandemia è diventata crisi psicologica, soprattutto tra noi giovani. Questi dati certificano però un disagio esistenziale che già in “tempi normali” era diffusissimo e taciuto. L’unica soluzione che ci è sempre stata proposta è stata quella di ridurre il nostro disagio ad inadeguatezza individuale che andava curata con psicofarmaci o terapie personali. Risposta che ci viene data anche oggi e ce lo dimostra anche il fatto che a livello nazionale l’unica soluzione che si prospetta è quella di riconoscere alle famiglie con figli minori di 18 anni un voucher per l’accesso ai servizi psicologi e l’attivazione di altri servizi di psicologia[10].

Abbiamo quindi deciso di rompere il silenzio su un argomento, il disagio psicologico, che il mainstream definisce come un problema dovuto solo a cause di forza maggiore (la pandemia). In realtà la pandemia non ha fatto altro che amplificare una crisi economica e sociale in cui la salute psicologica era già sull’orlo di una crisi generazionale e non solo. Una società costruita sempre più dalla velocità di arrivare e realizzarsi in tempi brevi e dove il fallimento lo si vive in età ancora più precoce rispetto alle generazioni precedenti. Una società che ha cresciuto i giovani nella realtà del capitalismo senza alternativa possibile, nati e cresciuti in una crisi economica perenne e in cambiamento veloce e schizofrenico.

Indagare la crisi psicologica attraverso le crisi della società, soprattutto in questo frangente che ci ha visti catapultati, quasi da un giorno all’altro, in una pandemia globale senza precedenti, rappresenta una fondamentale chiave di lettura per interpretare il senso di isolamento, debolezza, insicurezza, ansia e incomunicabilità da cui i giovani e giovanissimi erano schiacciati già prima della pandemia. Innanzitutto si osserva la sensazione generalizzata di precarietà, che dal piano materiale si trasferisce irrimediabilmente sul piano psichico ed emotivo. La precarietà materiale è dovuta all’incertezza del futuro, che da futuro-promessa è diventato futuro-minaccia, per citare Benasayag e Schmidt nel loro testo “L’epoca delle passioni tristi”. Da un futuro su cui caricare sogni e aspettative, si passa a fare i conti con la dura ostilità prima della realtà presente, e poi del futuro. È la sensazione di trovarsi in una crisi permanente e spesso infatti si parla degli adolescenti e dei ventenni di oggi come di generazione “tradita” che non ha vissuto altro che crisi nella sua vita.

Cercare un colpevole tra i social o nei videogiochi o limitando il problema alla pandemia è una banalizzazione di una questione più profonda, un atteggiamento che le istituzioni applicano per nascondere la crisi di civiltà in cui si trova l’intera società capitalista. È per questo che il disagio psicologico può essere accelerato dalla condizione di vita che la pandemia ci ha imposto, ma non ne è la causa. Nella condizione di isolamento imposto ai giovani e ai giovanissimi, si è amplificata la sensazione secondo cui qualsiasi problema, dovere o diritto negato riguardano la singola persona. Il problema invece non è individuale, ma politico.

Diventa una questione politica, infatti, nel momento in cui la causa è legata al disagio economico, ad assenza di prospettive, all’impossibilità di immaginare un futuro diverso. Diventa politica quando i settori che secondo noi sono centrali nella società (la sanità e l’istruzione) marginalizzano le persone negando loro il diritto alla cura. Un diritto che diventa così accessibile solo a un pubblico ristretto che può permettersi un costoso servizio privato e che porta molti giovani a rimedi di “autocura”, abusando spesso di sostanze e psicofarmaci con l’obiettivo di alienarsi.

Per questo bisogna rompere la gabbia di silenzio attorno a ognuno di noi, perché i problemi di questa società vanno discussi e risolti collettivamente mettendo in discussioni le vere cause che provocano i disagi psicologici e rifiutando tranquillanti e psicofarmaci, ma organizzandoci e lottando per una società diversa in cui il benessere collettivo, sia esso materiale o psicologico, venga posto alla base della nostra esistenza.


[1]https://espresso.repubblica.it/attualita/2021/01/18/news/in-aumento-tentati-suicidi-e-autolesionismo-1.358584

[2] https://www.dire.it/07-09-2019/365100-il-suicidio-e-la-seconda-causa-di-morte-tra-i-giovani/

[3]https://www.adnkronos.com/allarme-adolescenti-raddoppiati-tentativi-di-suicidio_54jGLdn9wxiMzXmv3nh87g/amp.html

[4] http://noirestiamo.org/2020/03/09/coronavirus-il-cigno-nero-e-arrivato/

[5] http://isfoloa.isfol.it/bitstream/handle/123456789/1394/Isfol_FSE185.pdf?sequence=1

[6]https://www.savethechildren.it/press/scuola-e-covid-il-28-degli-adolescenti-un-compagno-di-classe-ha-smesso-di-frequentare-la

[7]https://www.aifa.gov.it/-/monitoraggio-sull-uso-dei-farmaci-durante-l-epidemia-covid-19-rilascio-analisi-per-regione-e-aggiornamento-comprensivo-dei-primi-due-mesi-del-2021-

[8] https://www.avvenire.it/attualita/pagine/boom-psicofarmaci-milano-capitale

[9]https://www.lescienze.it/news/2018/02/12/news/base_neurobiologica_trascrittoma_disturbi_psichiatrici-3860124/

[10]https://www.panoramasanita.it/2021/03/22/il-governo-si-impegna-a-investire-in-voucher-psicologici-per-la-salute-dei-cittadini/

3/4/2021 http://noirestiamo.org

Tags: Covid-19 depressione didattica a distanza disagio giovanile disagio psichico disagio sociale diseguaglianze disuguaglianze giovani lotte sociali Pandemia Psicofarmaci Sindemia Stefano Vicari suicidi
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