”Sai mamma vado a Genova…”

A Carlo Giuliani, ad Haidi Giuliani, ai ragazzi di Bolzaneto, a tutti quelli che erano a Genova. A Paola.

Genova 2001, io non dimentico, non si può dimenticare, nemmeno volendo, se si ha un minimo di coscienza, un minimo di consapevolezza, se si ha quel pizzico di empatia che ci impedisce di pensare ai fatti nostri e ci fa sentire parte del tutto.

Non si può dimenticare.

Son passati diversi anni e sembra ieri, sembra ieri. ”Sai mamma vado a Genova con i miei amici, ci vediamo su a Bologna e poi andiamo insieme…”. Così mi dice Paola, ventitré anni, disposta a interrompere le vacanze nel suo Salento, per esserci, per poterlo raccontare. E cosa posso risponderle… “Va bene”.

Sono fiera di lei, ormai vicina alla laurea, sta attraversando una fase che mi inorgoglisce, la fase dell’impegno, della contestazione, della presa di coscienza. “Sai mamma, io vado a Genova”, me lo dice sommessamente, temendo un rifiuto che sa che non può arrivare. È giusto che abbia voglia di andarci. È normale per me preoccuparmi, ma non posso opporle un rifiuto, non posso e, soprattutto, non voglio. Piuttosto vorrei andarci anch’io, ma ho una bambina di settantanove anni a cui badare, mentre la mia bambina, quella vera, ormai può volare da sola.

Ha voglia di esserci, Paola, ed è giusto che ci sia. Per protestare contro un mondo che dimentica gli ultimi, un mondo che ha perso di vista i veri ideali, un mondo che persegue macabramente le logiche perverse del profitto.

Ha voglia di esserci, Paola, ed è giusto che ci sia. La lascio andare non senza preoccupazione. La seguo da lontano, come ho fatto ogni volta che, bambina, mi ha chiesto di poter andare in bici. Da sola. A giocare a tennis. Da sola. Di fare finalmente “qualcosa”. Da sola. Per guadagnare una tappa nella sua crescita, un evento che la rendesse orgogliosa di aver fatto un altro passo avanti.

È il 19 di luglio. È la Festa dei Popoli. Paola mi chiama raggiante e mi dice che è bellissimo che è un trionfo di colori e di allegria, “Mamma qui è bellissimo, stai tranquilla, va tutto bene”.

Va tutto bene, ma io non sono proprio tranquilla, in verità c’è qualcosa che mi preoccupa. Sono preoccupata per la macabra danza di morte che ho visto in tv: Black bloc che danzano la loro marcia di morte. Ce l’hanno scritto in faccia chi sono e cosa rappresentano, ma, chissà perché, arrivano indisturbati e nessuno se ne preoccupa.

È il 20 luglio, Paola, mi dice che è tutto tranquillo.”Lanceremo palloncini colorati oltre la Zona rossa…”. E io seguo tutto spasmodicamente in televisione, soprattutto sulla Sette, l’unica tv che dà la diretta. Vedo cose che non mi piacciono, vedo le Forze dell’Ordine, la cui imponente presenza mi aveva addirittura rassicurata, che stranamente cominciano a lanciare fumogeni e lacrimogeni contro i manifestanti, davanti a una Giovanna Botteri meravigliata e spaesata che li segue dicendo “Ma scusate, perché…. che cosa state facendo?”.

C’è qualcosa che non va, qualcosa che non torna. Forze dell’Ordine che non fanno il servizio d’ordine e che, invece di proteggere, cominciano a caricare i pacifisti. Vedo scene di una violenza inaudita, riportate in tv senza alcun commento, come se fosse normale inseguire una ragazza che scappa impaurita, fosse normale picchiarla violentemente dietro la nuca lasciandola tramortita, o morta, per terra… Poteva essere mia figlia, … inaudito, tutto ciò che vedo in tv è sconvolgente, a quel punto ho paura. Per tutti quei ragazzi, per mia figlia che non riesco più a sentire.

Poi verso le quindici o le sedici, non ricordo, arriva una notizia: “È morta una ragazza, non abbiamo dati precisi, ma sappiamo che è morta una ragazza”. Sono sconvolta, non so cosa fare, chiamo Paola al cellulare, ma non risponde. Mi sento soffocare dal terrore. Poi, dalla tv una voce: “Non si tratta di una ragazza, è morto un ragazzo”. È morto un ragazzo, mi sento sollevata… improvvisamente mi vergogno del mio sollievo. Mi vergogno del mio sollievo ancora oggi.

Non potrò mai dimenticare Carlo che aveva ventitré anni, esattamente come mia figlia Paola. Non potrò mai dimenticare quella violenza sconsiderata, che non trova ragioni se non nella volontà di criminalizzare un intero movimento e il legittimo e non violento dissenso da questi espresso. Doveva passare un messaggio chiaro e forte, un messaggio volto a scoraggiare ogni forma di protesta e, soprattutto, c’era la volontà precisa di dare una visione distorta della realtà. Ma qualcosa, per fortuna, non ha funzionato. I malvagi, voglio chiamarli banalmente così, non hanno fatto i conti con le migliaia di telecamere presenti a Genova, con i cento, mille e mille occhi elettronici che hanno filmato la verità e hanno impedito che si costruissero infami menzogne, hanno impedito che si creassero i presupposti per giustificare repressioni violente di qualsiasi forma di protesta civile, che si arrivasse a stigmatizzare come terrorismo qualsiasi forma di protesta civile.

Genova luglio 2001, sono passati diversi anni, ma il ricordo è vivo dentro di me. E non solo il ricordo. Genova mi ha cambiato la vita, ha cambiato la vita di mia figlia, che da Genova è tornata senza un graffio, ma con ferite profonde. Genova mi ha fatto capire che non smetterò mai di indignarmi, dovessi campare cent’anni non arriverò mai al punto di farmi saggiamente i fatti miei. Mi porto dentro quella vergogna, la vergogna di aver provato un sentimento del quale non si può andar fieri. Il sollievo dettato dalla consapevolezza che non toccava a me soffrire, ma a qualcun altro. È proprio su questo che dovremmo lavorare, dovremmo imparare a soffrire anche quando il dolore non ci appartiene. Soffrire, indignarci anche per qualcosa che non ci riguarda da vicino. Si chiama empatia, il più bello dei sentimenti, quello che potrebbe salvare il mondo. Ormai raro in un mondo in cui, come cantava De Andrè, il dolore degli altri vale sempre a metà.

Adriana De Mitri

20/7/2018 https://comune-info.net

 

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