Salari da fame, orari da pazzi: il regalo dei nuovi contratti nazionali

Quest’anno sono stati o stanno per essere rinnovati molti contratti collettivi nazionali (CCNL), alcuni dei quali scaduti da tempo. La contrattazione nazionale rappresenta uno strumento importante per affermare la forza collettiva dei lavoratori e così strappare condizioni di lavoro dignitose per tutti, anche per quelli che si ritrovano in situazioni individuali o aziendali particolarmente ricattabili.

Per questo è un istituto da difendere strenuamente contro gli attacchi lanciati periodicamente dai padroni e dai loro governi amici, da ultimo proprio dal presidente di Confindustria Squinzi e da Renzi che qualche tempo fa annunciarono la sua possibile sostituzione con il salario minimo, uno specchietto per le allodole destinato ad equalizzare al ribasso salari e condizioni di lavoro. Per il momento però si è trattato soltanto di sparate e la contrattazione nazionale è ancora in piedi. L’uso che ne sta venendo fatto da parte dei sindacati confederali è però indifendibile: la difesa della contrattazione nazionale fatta da quelli che dovrebbero rappresentare gli interessi dei lavoratori ha come obiettivo esclusivo la loro autoconservazione.

Ma andiamo con ordine, prima di scendere nel dettaglio di alcuni contratti nella seconda parte di questo articolo. Innanzitutto c’è da dire che molti accordi sono stati piuttosto rapidi: il record assoluto va a quello dei chimici che si è raggiunto in una sola notte! Questo proprio perché i sindacati avevano bisogno di concludere accordi per accreditarsi in un ruolo che, non volendo essere quello del conflitto, è rimasto quello della ratificazione degli interessi padronali. In molti casi i confederali si sono presentati infatti al tavolo di contrattazione con piattaforme che già accoglievano le richieste dei padroni o partivano da obiettivi che avrebbero dovuto rappresentare il minimo insindacabile. Ed è indicativo anche il modo in cui si pone termine alla stagione degli accordi separati, cioè attraverso l’inversione di tendenza della Cgil e della Fiom che ormai si accodano a Cisl e Uil firmando contratti anche peggiori di quelli rifiutati in precedenza. E ciò per il semplice fatto che il potere padronale è tale che oggi i confederali per sopravvivere sono costretti ad aderire all’unico modello di sindacato possibile restando all’interno delle regole date: quello della Cisl, quello del sindacato padronale e di “servizio”. Per altro tale necessità di rapido accordo è condiviso anche da alcune associazioni padronali a loro volta rimaste orfane dei giganti (Federmeccanica senza Fca, Confcommercio senza Auchan, Carrefour, Esselunga) e bisognose di raggiungere anche per i pesci piccoli le condizioni di maggiore sfruttamento che i giganti hanno ottenuto da soli.

Esemplare in questo senso è l’aver accettato nei fatti la richiesta padronale della restituzione della differenza tra l’inflazione prevista (IPCA) e quella effettiva. Una novità senza precedenti, giustificata con la deflazione degli ultimi 2-3 anni, che chiede a chi ha visto crollare il proprio potere d’acquisto dopo vent’anni di “moderazione salariale” e sacrifici la restituzione di quei miseri aumenti ancorati ad un’inflazione prevista che per una volta si è dimostrata più alta di quella effettiva! Accettare una richiesta così irricevibile chiaramente non era possibile neanche per i più genuflessi tra i sindacati. Per questo in nessun contratto si è arrivati ad una restituzione esplicita ma, che sia attraverso il taglio di alcune voci (come nel caso dei chimici o dei metalmeccanici) o attraverso altre modalità (orari allungati senza straordinari, come accadrà per trasporti e commercio), quello che più conta comunque è aver sdoganato la possibilità di questa restituzione. I sindacati, anziché opporsi, hanno accettato questo piano di ragionamento, impegnandosi nella ricerca di un indicatore più alto dello zero attuale dell’inflazione ISTAT! Si dimostra così in maniera fin troppo evidente l’impotenza di un sindacato che non osa più chiedere aumenti salariali basati sui bisogni dei lavoratori, ma si prodiga a giustificarli agganciandoli ad un indicatore condiviso con il padronato: una vera scala mobile al contrario!

Più in generale questa tornata di rinnovi contrattuali si è retta sulla revisione e l’attacco al salario e all’orario di lavoro, sulla limitazione del diritto di sciopero e sull’introduzione del cosiddetto welfare aziendale.

Sul salario, oltre ai miseri aumenti (spesso anche nulli o negativi), l’altra tendenza egemone è quella di eliminare quote fisse di salario (premi fissi, premi presenza, scatti anzianità) in cambio di premi variabili incerti, non erogabili a tutti e sempre legati ad aumenti di produttività. Il legame tra salario e produttività del singolo o dell’azienda è un grosso inganno. Innanzitutto dal punto di vista analitico non si può basare il salario sulla produttività aziendale, perché questa dipende anche dalla produttività di altri settori e aziende (pensiamo, ad esempio, quanto un’azienda ad alta intensità tecnologica si giovi di una scoperta scientifica conseguita da gruppi di ricerca o da un’altra azienda). Ed infatti alle aziende non interessa davvero ancorare il salario alla produttività, bensì avere un’arma di ricatto per aumentare lo sfruttamento sui lavoratori e gestire l’erogazione di quote sempre maggiori in maniera differenziale per tenere il livello dei salari al di sotto della produttività.

Inoltre rendere il salario così legato ai risultati raggiunti rischia di creare situazioni molto critiche come ci ha recentemente mostrato lo “scandalo banche”: un salario molto variabile crea situazioni ricattabilità che possono portare anche a condotte fraudolente a danno di ignari clienti o utenti, e comunque molto spesso costituire una fonte di enorme stress che danneggia la salute psico-fisica dei lavoratori.

L’altro grande attacco riguarda il tempo di lavoro. In tutti i contratti sono previsti aumenti di orario, abolizione dei festivi, abolizione dello straordinario: insomma un lavoro a chiamata dove l’azienda scarica tutti i rischi della fluttuazione della domanda sul lavoratore. Pensiamo al lavoro festivo equiparato ai giorni feriali nel commercio, con l’obiettivo di obbligarci a lavorare in questi giorni e di non pagare gli straordinari. Stesso obiettivo, non pagare gli straordinari, si ottiene grazie al calcolo allungato dell’orario medio nei trasporti o all’incentivo al part time e all’aumento dei turni oltre i 18 nel metalmeccanico.

Il terzo elemento presente in tutti gli accordi è il welfare aziendale. A prima vista sembrerebbe positivo che le aziende garantiscano prestazioni sanitarie e previdenziali ai propri lavoratori, ma in realtà dietro a questa “generosità” si nascondono delle vere e proprie trappole per i lavoratori e degli enormi vantaggi per le aziende.

In primis la diffusione del welfare aziendale prepara il terreno al definitivo smantellamento del settore pubblico con conseguente riduzione del peso dello Stato sul costo del lavoro: l’IRAP, abbassata da Renzi per favorire gli investimenti delle imprese, serve proprio a pagare il servizio sanitario nazionale. Quindi meno tasse per le imprese e meno servizi per i lavoratori.

In secondo luogo questi investimenti in welfare aziendale saranno a costo zero per le imprese perché da un lato il governo ha predisposto sgravi fiscali nella passata Legge di Stabilità, dall’altro questi investimenti saranno pagati direttamente dai lavoratori che in cambio dovranno moderare le loro pretese salariali o rinunciare direttamente a quote di salario: ad esempio i chimici otterranno 10 euro di investimento in welfare in cambio dell’abolizione del pagamento di una festività.

Infine questo welfare aziendale diventa anche una fenomenale arma di ricatto verso il lavoratore perché a questo punto perdere il posto di lavoro non significa più soltanto perdere il salario ma anche il diritto all’assistenza sanitaria!

 

In cambio di tutti questi vantaggi le imprese riconoscono ai sindacati firmatari la possibilità di cogestire i fondi in cui confluiscono gli investimenti in welfare aziendale, garantendo così la sopravvivenza alle burocrazie confederali. E’ lo stesso principio di autoconservazione per cui difendono il contratto nazionale: per questo sono così interessati agli accordi sul welfare aziendale, fondamentali per riempire le loro casse.

Questi rinnovi capestro stabiliscono infine molte norme di limitazione al diritto di sciopero, denominate “clausole di raffreddamento dei conflitti”, nel solco di un diritto già fortemente limitato dall’adesione al Testo unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014 e che anticipa una legge pronta a breve per limitare il diritto di sciopero in maniera ancora più profonda di quanto già non accada per i servizi pubblici. Non solo i servizi essenziali, ma anche i grandi eventi, i beni culturali, il commercio e ora pure il settore chimico e quello metalmeccanico; a questo punto è evidente quale sia il servizio essenziale da tutelare: il profitto delle imprese.

Per tutelare questo interesse il padrone diventa, come forse non è mai stato per tutto il novecento, l’unica assoluta autorità in azienda: decide se promuovere, licenziare o demnasionare; decide quale salario erogare al singolo lavoratore e per quale orario di lavoro; impone quando si lavora e quando si riposa a sua totale discrezione. In questa situazione qualunque proposta (tipo quella della Fiom che non vorrebbe applicare il Jobs Act) rischia di rimanere vana se sui luoghi di lavoro non si ricomincerà a costruire rapporti di forza migliori attraverso una pratica sindacale realmente conflittuale ed un’ organizzazione operaia trasversale ai singoli luoghi di lavoro che riesca a mobilitarsi in maniera capillare ed unitaria in risposta a qualsiasi attacco da parte dei padroni.. Il contratto collettivo nazionale ha grande valore solo se è un contratto minimo e inderogabile che tutela i lavoratori delle piccole e piccolissime imprese che faticherebbero a imporre rapporti di forza adeguati a contrattare da sé. Ma deve essere appunto un minimo inderogabile, in modo che tuteli questi e permetta invece a lavoratori che hanno rapporti di forza più favorevoli di guadagnare migliori condizioni attraverso la contrattazione di secondo livello. Al contrario invece qui si parla di un contratto che stabilisce le condizioni standard, ma rendendole sempre derogabili al ribasso. Ecco, di questa forma di contratto nazionale (per altro scarsissimo nei contenuti con aumenti di salario inesistenti e orari di lavoro sempre più lunghi) non ce ne facciamo nulla!

Ma andiamo adesso a vedere nel dettaglio i CCNL firmati in alcuni importanti settori: quello dei chimici, dei metalmeccanici, del commercio e del trasporto pubblico.

1. CHIMICI 

2. METALMECCANICI 

3. COMMERCIO 

4. TRASPORTI 

 

CHIMICI

Storicamente il contratto della chimica ha sempre fatto da apripista a tutti gli altri. Basta ricordare l’inserimento delle deroghe nel contratto dei chimici del 2006, divenuto poi un grimaldello per tutti i contratti grazie all’accordo firmato dalla Cgil il 28 giugno 2011 ed infine degenerato nel successivo rinnovo contrattuale dei chimici (2012), con cui si dava la possibilità di derogare e di modificare a livello aziendale tutte le materie della contrattazione nazionale2. Anche questa volta sembra che il contratto dei chimici, firmato ad ottobre, rappresenti l’apripista per tutti gli altri rinnovi.

La richiesta più eclatante e diretta a danno dei 170.000 lavoratori del settore è la restituzione secca di 79 euro come recupero dell’inflazione risultata inferiore a quella prevista. Per recuperare questa somma l’accordo tra sindacati e associazioni padronali prevede che l’ultima tranche del contratto precedente sarà erogata, per un solo anno, il 2016, sottoforma di E.D.R. (elemento distinto della retribuzione) per poi venire assorbito dal 2017 quando partiranno le tranche di aumento del nuovo contratto. L’incremento salariale, dichiarato di 90 euro per il triennio, partirà con la prima tranche di 40€ dal 1 gennaio 2017, la seconda di 35€ dal 1 gennaio 2018 e l’ultima di 15€ dal 1 dicembre 2018. In realtà il reale aumento non è di 90 euro ma di 75, perché occorre togliere i 15 già previsti dal vecchio contratto e che verranno erogati solo nel 2016. L’affare per i padroni è triplice: nel 2016 non pagano nulla (i 15 euro erano già previsti nel vecchio accordo), nel biennio 2017-2018 l’aumento massimo sarà di 75 euro (90 – 15 previsti dal vecchio accordo che scompaiono), ma comunque si riservano di ridefinirlo al ribasso se l’inflazione dovesse ancora calare.1

La beffa non si ferma qui perché il premio presenza (in media erano 220 euro fissi) si trasforma in premio variabile, quindi incerto e legato a risultati di maggiore produttività, nei casi in cui ci sarà contrattazione aziendale. Un’altra quota di salario che non è più fissa ma diventa variabile e quindi da un lato non è sicura la sua erogazione, dall’altro diventa l’ennesimo strumento di ricatto nei confronti dei lavoratori. Ma, addirittura, laddove non si farà contrattazione di secondo livello, tale cifra sarà sostituita da investimenti in formazione o in welfare aziendale. Un welfare aziendale che per altro sarà pagato dai lavoratori stessi: sempre nel contratto collettivo si stabilisce di destinare a questo scopo 10 euro, cifra che l’azienda recupera grazie alla cancellazione del trattamento per l’ex-festività di Pasqua.

Ancora più pesante è l’attacco al diritto di sciopero. Il rinvio ad accordi aziendali che definiscanostrumenti preventivi e alternativi al conflitto (previsto nel testo del 2012) già aveva normato la salvaguardia degli impianti in caso di scioperi, visto che le aziende chimiche in molti casi hanno necessità di regolamentare gli eventuali blocchi della produzione per scongiurare danni agli impianti e all’ambiente. Nell’appendice al contratto precedente era già evidente una reale procedura di raffreddamento dei conflitti con un approccio conciliativo riguardo l’iter di eventuali scioperi. Oggi, con il nuovo contratto, si sottoscrive che tale norma non è prevista solo per gli “impianti complessi”, ma in ogni caso: quindi per tutti gli impianti di qualsiasi azienda. Inoltre le intese per l’effettuazione e le modalità dello sciopero non riguarderanno solo le prestazioni minime indispensabili, ma dovranno anche definire “le modalità per la gestione delle altre attività e del personale non coinvolto dallo sciopero, in relazione all’impatto a livello aziendale dell’astensione dei lavoratori”. Tale modifica inficia sostanzialmente la possibilità di incidere con le iniziative di sciopero.

Molto preoccupante è poi la parte dedicata alla formazione dei delegati appena eletti. Per loro si predispongono moduli formativi obbligatori in cui verrà insegnata dall’azienda la mission, la vision e la cultura aziendale. In sostanza si definisce che l’RSU non è organismo autonomo di difesa degli interessi dei lavoratori, ma una componente aziendale di gestione della manodopera. E quindi è necessario inculcargli la cultura aziendale affinché la visione del delegato sia totalmente schiacciata su quella aziendale per far venir meno la possibilità di contrastare il “pensiero unico” dell’impresa attraverso un insieme di valori e obiettivi (cioè una cultura) autonomo e indipendente da quello dell’azienda.

Completano l’accordo la possibilità di cedere gratuitamente le ferie ad un collega (apripista alla riduzione delle ferie per tutti), e, se qualcuno dovesse ribellarsi, l’aumento delle sospensioni (da 3 a 8 giorni) e delle multe disciplinari (da 3 a 4 ore).

 

METALMECCANICI

Il contratto dei metalmeccanici è un passaggio fondamentale di questa tornata contrattuale non solo perché riguarda ancora tantissimi operai, ma anche perché da sempre questa categoria è la più organizzata e capace quantomeno di difendere i propri diritti. Il contratto, lo ricordiamo, non riguarda la più grande azienda del settore, la Fca, che Marchionne nel 2012 portò fuori da Confindustria proprio per avere la libertà di firmare un contratto peggiore di quello previsto per tutti gli altri metalmeccanici. Già all’epoca era evidente che Marchionne avrebbe fatto scuola per tutto il settore (e non solo), ed infatti questo rinnovo dei metalmeccanici sembra proprio voler colmare la distanza assumendo il “modello-Marchionne” come standard. L’accordo deve ancora essere raggiunto (il prossimo incontro è fissato per il 21 gennaio), per cui qui analizziamo la piattaforma proposta dalla Fiom, già molto moderata in partenza visto che l’obiettivo dichiarato è quello di tornare a firmare un accordo unitario anche con gli altri sindacati Fim e Uilm.

La prima richiesta dei padroni è stata la restituzione secca di 75 euro per la bassa inflazione sul modello della trattativa lampo dei chimici. Per venire incontro alle necessità dei sindacati, che avrebbero grosse difficoltà a presentare un accordo che prevedesse una riduzione esplicita dei salari, Federmeccanica sembra disposta ad accordarsi per un recupero indiretto del salario da realizzare attraverso due punti:
1. Assorbimento di tutti gli aumenti a coloro che hanno una retribuzione, esclusa quella ad obiettivi, al di sopra di una soglia di garanzia, probabilmente equivalente ai minimi tabellari.
2. Dilatazione dei tempi di erogazione delle tranche di aumento.

Niente restituzione, dunque, ma l’aumento sarà comunque misero, quando non del tutto nullo. La Fiom richiede, infatti, un aumento pari al 3% che però andrà ad assorbire l’elemento perequativo. Se prendiamo il salario di un 5° livello (ovvero 1774 e lordi) il 3% corrisponde a 53 euro, mentre l’elemento perequativo corrisponde a circa 37 euro mensili. La Fiom si presenta al tavolo della trattativa proponendo quindi per il 2016 un aumento salariale di 16 euro lordi mensili… Nel caso di un 1° livello (1.297 euro lordi) il 3% corrisponde a 39 euro, quindi parliamo di 2 euro lordi di aumento, se si sottrae il valore del perequativo.
Ma non è finita qui: le aziende pretendono la cancellazione di ogni automatismo residuo nel ccnl. In primo luogo le imprese chiedono di cancellare gli scatti di anzianità in cambio di un sistema di premi: in sostanza significa eliminare l’ultimo pezzo di salario fisso per riconoscerlo a loro discrezione. Ma anche sulla effettiva erogazione salariale le imprese pongono il tema della cancellazione di ogni presunto automatismo: premi e salari si possono riconoscere solo rispetto ad obiettivi di produttività.
Riduzione dei salari e aumento dell’orario lavorativo sono i due capisaldi di tutti i nuovi contratti e anche quello dei metalmeccanici non fa eccezione. Infatti anche sugli orari la proposta Fiom appare fortemente negativa, con l’introduzione della 4^ squadra fino a 18 turni e della 5^ oltre i 18 turni che, più che “rafforzare i livelli occupazionali” come si propone a parole, avrà come effetto la normalizzazione del lavoro sabato e domenica con le conseguenti ricadute su tempo libero, salute, riposo e salario. Del resto su questo tema basterebbe vedere proprio come sta andando alla Fca di Marchionne dove in molti stabilimenti si lavora su 20 turni3.

Per prevenire eventuale dissenso si predispongono clausole di “raffreddamento del conflitto” attraversol’istituzione di un sistema negoziale tra sindacati e azienda per la risoluzione delle controversie. Un panegirico che significa un sindacato ancor più legato e impossibilitato a lanciare uno sciopero quando lo ritiene necessario.
Poi l’immancabile accordo sulla sanità integrativa che a parole dovrebbe “qualificare il sistema sanitario nazionale”, ma nei fatti sarà l’opposto: l’ennesima elemosina grazie alla quale Federmeccanica risparmierà tantissimo sui salari diretti (come abbiamo visto) e qualche privato del settore sanitario farà altri profitti.
Infine sembra particolare l’esplicito incoraggiamento all’utilizzo del part time. Il ricorso al part time(anche forzato visto che grazie al Jobs Act le tutele del contratto sono del tutto saltate) regala all’azienda un rubinetto con il quale regolare al meglio la quantità di forza lavoro in relazione alla domanda, così da massimizzare gli utili senza rischi e a discapito del lavoratore che dovrà arrivare a fine mese con mezzo stipendio.

Ma persino queste proposte così moderate avanzate dalla Fiom paiono essere eccessive agli occhi dei padroni: nell’ultimo incontro del 2015 Federmeccanica ha ribadito la volontà di non corrispondere alcun aumento per il 2016 e solo aumenti irrisori destinati a pochissimi lavoratori per il 2017. Una proposta tanto misera da provocare la reazione persino del segretario generale della Uilm, Rocco Palombella: “il vero obiettivo è la riforma del modello contrattuale e  lo scopo è di cancellare il contratto nazionale e in parte, anche  quello aziendale, dando gli aumenti solo a chi dicono loro facendo venire meno l’ elemento di solidarietà che è dentro gli aumenti  salariali per tutti”4.

 

COMMERCIO

A Marzo 2015 la triade sindacale ha sottoscritto il rinnovo del contratto per il settore commercio. Un rinnovo che riguarda oltre 500 mila lavoratori impiegati nei settori della piccola e grande distribuzione. Il nuovo contratto ricalca il precedente accordo firmato dalle sole Cisl e Uil nel 2011, con la Cgil che quindi ha deciso di accodarsi alla piattaforma degli altri due sindacati confederali, rinunciando alle velleità di lotta, in verità mai messe in atto, espresse col rifiuto a firmare il ccnl in maniera unitaria nel 2011. In pratica vengono confermate le novità all’epoca introdotte per rendere gratuita alle aziende la possibilità di sfruttare il decreto “Salva Italia”, varato da Monti nel 2011 per liberalizzare gli orari e i giorni di apertura degli esercizi commerciali: anche in questo rinnovo infatti si conferma l’obbligatorietà del lavoro domenicale, equiparandolo ad un normale giorno feriale, e quindi confermando il non pagamento degli straordinari e la precettazione in queste giornate. E ciò nonostante in questi anni di sperimentazione si sia visto come: a) gli acquisti non sono aumentati (del resto gli stipendi dei lavoratori rimangono fissi o calano, quindi…) ma sono solo stati redistribuiti nell’arco delle settimana; b) l’occupazione non è aumentata perché i piccoli esercizi sono stati schiacciati dai colossi (anche grazie alle liberalizzazioni) e i grandi non hanno assunto, ma semplicemente sfruttato di più chi era già in organico. Un rinnovo per altro comunque depotenziato dal fatto che a partire dal 1 gennaio 2014 i colossi del settore (Ikea, Auchan, Carrefour e altri) sono usciti da ConfCommercio per confluire in FederDistribuzione, che dopo due anni è ancora priva di contratto nazionale e contro cui proprio a fine 2015 i sindacati hanno lanciato diverse giornate di sciopero.
Anche in questa trattativa si era partiti dalla richiesta di restituzione di una quota salariale dovuta alla bassa inflazione. Richiesta evidentemente sparata per alzare il prezzo dell’accordo che infatti si conclude con nessuna restituzione, ma un aumento misero e grossi sacrifici in termini di orario per i lavoratori.

Dal punto di vista salariale gli aumenti sono di appena 85 euro parametrati al IV livello, in cinque rate (36 euro di media mensili). Mente l’una tantum che doveva risarcire l’anno e mezzo di ritardo nel rinnovo sparisce: un regalo che, secondo l’opposizione interna alla CGIL, vale 255 euro per un quarto livello!5
In cambio di questi spiccioli i padroni ottengono l’inserimento della “clausola di flessibilità”, che consente all’impresa di obbligare il lavoratore a lavorare 44 ore settimanali per 16 settimane, senza neanche pagargli lo straordinario. Le ore saranno poi recuperate nell’arco dei dodici mesi successivi, quando sarà ritenuto opportuno dall’azienda. Ma come sempre sono previste deroghe al ribasso: a livello aziendale o territoriale sarà poi possibile concordare orari di 48 ore per 24 settimane in un anno.

L’allungamento dell’orario (festivo e notturno) non costituisce solo un attacco alle condizioni di lavoro, ma proprio alla vita, alle relazioni personali, agli affetti, a tutto il nostro tempo libero come abbiamo giàcommentato qualche tempo fa.

Inoltre viene sottoscritto una sorta di demansionamento in ingresso, alla faccia delle promesse con cui la Cgil si impegnava a lottare contro il Jobs Act durante la fase dei rinnovi contrattuali: in pratica si potranno assumere disoccupati e lavoratori senza stabilizzazione dopo l’apprendistato, con un contratto di 12 mesi, di cui 6 mesi con un sottoinquadramento di 2 livelli e altri 6 mesi di 1 livello. Il sottoinquadramento potrà essere prolungato per altri 24 mesi in caso di trasformazione in contratto a tempo indeterminato. Inoltre per quanto riguarda l’apprendistato il tasso di conferma scema dall’80 al 20% e il tempo entro cui deve avvenire tale conferma si dilata da 2 a 3 anni.

 

TRASPORTI

Il contratto collettivo del settore trasporti autoferrotranvieri (mobilità TPL) riguarda oltre 116mila lavoratori. Proprio in quanto contratto dei lavoratori del trasporto pubblico locale, ci pare importante non solo per quel che riguarda le specifiche condizioni di lavoro, ma anche perché queste ultime si traducono poi nella qualità del servizio erogato agli utenti. E’ evidente, infatti, che l’allungamento dei turni e dell’orario settimanale inevitabilmente finirà per influire su stanchezza, attenzione, concentrazione, efficienza degli autisti, tramutandosi in maggiori disagi e rischi per i passeggeri. Per questo è importante solidarizzare con gli autisti, non solo in quanto altri lavoratori ma anche in quanto utenti del servizio pubblico.
Vediamo allora nel dettaglio cosa cambia col nuovo contratto. Innanzitutto diciamo che un contratto collettivo mancava dal 2008, con gli stipendi fermi agli accordi del 2005, se si esclude l’aumento una tantum di 700 euro nel 2013. Tanta attesa però non è sfociata in un contratto migliore e risarcitorio per i mancati aumenti di questi anni. Anzi.

Cominciamo proprio dal salario. Per quanto riguarda i mancati aumenti degli 8 anni senza ccnl, l’accordo prevede di saldare l’arretrato con la miseria di 600 euro una tantum (400 a gennaio 2016 e 200 ad aprile) che, sommati ai 700 già presi nel 2013, fa 1300 euro. Se li dividiamo per i 112 mesi di senza aumenti (8 anni con 13a e 14a) significa un aumento di 11,6 euro al mese lordi. Una miseria che per altro le aziende hanno potuto pagare con anni di ritardo.
Non va meglio sugli accordi che varranno da qui in avanti. Col nuovo contratto, infatti, i sindacati si accontentano di 100 euro al parametro 175, di cui 35 euro erogati alla firma, 35 euro a luglio 2016, l’ultima tranche di 30 euro ad ottobre 2017. In pratica 23 euro medi che solo nel 2017 diventano 67, quando ormai mancheranno solo 3 mesi dalla scadenza dell’accordo. Tradotto vuol dire un caffè al giorno: ma un caffè non basterà a reggere i turni sempre più lunghi che verranno richiesti agli autisti.

L’altro grande attacco, infatti, riguarda gli orari di lavoro. Innanzitutto viene prevista l’estensione del periodo del conteggio degli straordinari da 17 a 26 settimane (metà anno!). In pratica ogni 6 mesi si contano le ore lavorate e lo straordinario verrà pagato solo se si superano le 39 ore di media (con un limite massimo che non dovrebbe eccedere le 48 ore di media a settimana, ma in realtà si tratta di un limite derogabile). Quindi sarà possibile lavorare 13 settimane per 50 ore e altre 13 per 28 ore: un vero e proprio lavoro a chiamata! E un modo per non pagare lo straordinario: ti chiamo quando mi serve e anche se fai straordinario oltre le 8 ore giornaliere non ti pago la maggiorazione, ma ti faccio compensare quando non mi serve il tuo lavoro. Per agevolare questo sfruttamento l’orario massimo settimanale viene aumentato a 50 ore e lo straordinario totale annuale a 300 ore. In realtà anche questo limite è più alto perché viene esplicitamente prevista la derogabilità in peggio del contratto. Ad esempio in casi particolari (grandi eventi come Expo e Giubileo o in caso di difficoltà aziendali) sarà possibile aumentare l’orario di 60 minuti alla settimana e non conteggiare questo straordinario nel monte delle 300 ore.
Ma non è tutto: se non si raggiungeranno altri accordi aziendali per saturare ulteriormente l’orario, i manager potranno unilateralmente ridurre i tempi accessori (ad esempio il tempo necessario per raggiungere un punto di cambio turno) di 5 minuti a turno. Sembra poco, ma è mezzora la settimana, 26 ore annue regalate all’azienda e un gran disagio in più per gli autisti.
Infine viene prevista la saturazione dell’orario a 39 ore effettive per tutti e, se l’orario effettivo di lavoro fosse minore, viene previsto l’obbligo di lavoro supplementare “volontario”6.

In sostanza gli autisti mettono a completa disposizione il loro monte ore semestrale per essere chiamati alla bisogna, lavoreranno di più e verranno pagati sempre una miseria.

Pieno accordo tra sindacati e azienda sul welfare aziendale, la gallina dalle uova d’oro per i sindacati, che finanziano le proprie burocrazie, e per le aziende che, investendo qualche spicciolo, ottengono in cambio enormi risparmi sui salari. In questo caso i lavoratori saranno obbligati a versare 90 euro al fondo pensione “Priamo”, gestito da CGIL, CISL e UIL insieme alle aziende del settore. Un fondo cui dovranno aderire tutti i lavoratori, anche coloro che non sono iscritti al sindacato, e che ha rendimenti molto incerti.

 

http://clashcityworkers.org/

30/12/2015

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