Salario minimo: facciamolo!

Lunedì 17 febbraio 2020 si è tenuta la prima riunione tra la ministra del Lavoro e delle Politiche sociali, Nunzia Catalfo, e i tre sindacati Cgil, Cisl e Uil sulla riforma previdenziale e sul salario minimo. Alla fine della riunione, la ministra Catalfo ha dichiarato che “la maggioranza è vicina a un accordo sul salario minimo per dare valore erga omnes alla parte salariale dei contratti collettivi firmati dai sindacati maggiormente rappresentativi”. L’ottimismo della ministra è stato in parte smentito dal vertice di giovedì 20 febbraio con i rappresentanti dei partiti della maggioranza per discutere del provvedimento per introdurre il salario minimo orario per legge. Il nodo da risolvere riguarda il livello del salario minimo. Nell’incontro con  sindacati si era ipotizzato un valore pari al 60% della mediana dei minimi tabellari già oggi esistenti nei contratti collettivi di lavoro, il che si traduce in un valore tra i 7,50 e i 7,80 euro lordi l’ora. Nell’incontro di giovedì 20 febbraio, invece, la ministra ha riproposto la soglia dei 9 euro lordi l’ora, suscitando tuttavia le perplessità di alcuni alleati di governo (in particolare, LeU che si colloca sulle posizioni critiche dei sindacati) e l’opposizione netta di Renzi (il che non stupisce) oltre che delle associazioni padronali.

Per meglio comprendere la questione, proponiamo una breve scheda, esito anche di uno scambio di idee all’interno del collettivo di intervento sulla precarietà GigaWorkers. (In omaggio, aggiungiamo un piccolo cameo da San Precario: Animal precario: facciamolo!)

Una mappa del salario minimo

Quasi tutti i paesi dell’Unione europea garantiscono un salario minimo ai propri lavoratori, tranne Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Svezia e Italia.

Il paese con il salario minimo più basso è la Bulgaria, con 1,24 euro l’ora (286 euro mensili). Il primato per quello più alto spetta invece al Lussemburgo, con 11,12 euro per ogni ora di lavoro (2017 euro al mese).

Il 1 aprile 2016 il Regno Unito ha annunciato che entro il 2020 aumenterà il salario minimo a 9 sterline l’ora (11,23 euro). Sarà uno dei più grandi aumenti del salario minimo legale che un governo ha varato nel mondo occidentale e che porterà il Regno Unito a superare il salario minimo più alto attuale del Lussemburgo. Occorrerà verificare se l’aumento del salario minimo sarà la compensazione/giustificazione al post-Brexit, che, al momento attuale, sembra più favorire i potentati finanziari a scapito dei lavoratori.

I paesi Ue si possono dividere in 3 scaglioni: paesi che hanno retribuzioni minime nazionali fino a 500 euro, paesi che hanno un salario minimo mensile tra i 500 e i 1.000 euro e paesi che hanno un salario minimo al mese di oltre 1.000 euro.

Salario minimo inferiore a 500 euro

In questo gruppo vi sono Bulgaria, Lituania, Romania, Lettonia, Ungheria, Croazia, Repubblica ceca e Slovacchia. In questi paesi le retribuzioni minime vanno dai 261 euro in Bulgaria ai 480 euro in Slovacchia.

Salario minimo tra i 500 e i 1.000 euro

In questo gruppo vi sono 7 paesi membri dell’Ue (considerando anche il Regno Unito, pronto alla Brexit): Germania, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Irlanda e Lussemburgo. Si va dai 1.401 euro del Regno Unito ai 1999 euro del Lussemburgo.

Ricordiamo che negli Stati Uniti il salario minimo federale è pari a $7,25, ma in alcuni stati è superiore (ad esempio, il salario minimo della California è pari  a $12,00), per un salario minimo effettivo di $11,80 (maggio 2019) . In Canada è pari a $CAN 11,06 ($ 8,32).

Le ragioni del salario minimo

Sul tema del salario minimo, la letteratura economica si divide tra i sostenitori del libero mercato (gli economisti mainstream) e quelli che invece sostengono la necessità di una regolazione del rapporto di lavoro, considerando la compravendita di forza-lavoro uno scambio particolare e comunque ineguale (economisti eterodossi).

I primi affermano che l’introduzione di un salario minimo sarebbe un elemento di rigidità nel mercato del lavoro con effetto di aumentare l’offerta di lavoro e ridurne la domanda, con la conseguenza di creare disoccupazione. L’approccio liberista al riguardo è noto e non mi soffermo più di tanto, se non per ribadire che la ricetta di politica economica liberista per ridurre la disoccupazione è la riduzione dei salari (o tramite precarizzazione o tramite riduzione del potere d’acquisto in presenza di aumento dei prezzi). Il principio è la libera contrattazione tra le parti, in un contesto in cui lo scambio di lavoro viene considerato uno scambio tra pari.

Da notare che una logica simile, seppur da un diverso punto di vista,  giustifica anche la contrarietà dei sindacati confederali all’istituzione del salario minimo legale, sulla base della convinzione che quest’ultimo sarebbe un elemento di perturbazione nella libera contrattazioni tra parti sociali (non tra pari), favorendo un appiattimento del salario verso il basso.

La realtà economica sembra andare invece in direzione opposta. Nei paesi in cui esiste il salario minimo, il livello medio salariale per la stragrande maggioranza dei lavoratori risulta più elevato. E’ il caso degli Stati Uniti, dove il 90% delle retribuzioni orarie risulta superiore (Vanek-Smith, Stacey; Garcia, Cardiff (May 16, 2019).

Laddove invece non c’è un salario minimo, di solito le retribuzioni sono inferiori. È il caso dell’Italia. Al riguardo, occorre sottolineare due fatti conclamati. Il primo fa riferimento al fatto che oggi in Italia meno del 50% della forza lavoro è in grado di far valere, in modo effettivo e reale, i minimi dei contratti nazionali. Questo 50% non ha alcuna protezione contro il dumping salariale, soprattutto in quei settori dove la condizione precaria è maggioritaria (in particolare nei settori del terziario immateriale – dalla logistica alta, all’informazione, all’editoria, alla comunicazione, alla ricerca, alla sanità, ecc,), dove non a caso si denuncia, a parole, “la svalorizzazione del lavoro”. Il secondo fatto è che proprio per la mancanza di un limite inferiore alla caduta dei salari individualmente contrattati abbiamo assistito a una costante riduzione dei redditi di lavoro, che hanno intaccato, con deroghe, forme di concertazione al ribasso, ecc, anche i salari contrattuali. Non è forse il caso di sperimentare un inversione di rotta? Non viene in mente che un salario minimo potrebbe rinforzare il contratto nazionale invece che delegittimarlo come la dirigenza sindacale pensa?

Più in particolare, la fondazione Di Vittorio ha analizzato i contratti delle principali categorie. Ha trasformato le retribuzioni mensili in retribuzioni orarie, individuando in 9 euro lordi il livello possibile del salario minimo (sulla media europea). Ne risulta che se si considera solo il salario orario mensile, quasi tutti i contratti (eccetto i bancari e pochi altri) sono sotto la soglia dei 9 euro. Per un dipendente di un’azienda chimica oggi il salario minimo è 8,8 euro; per un operaio metalmeccanico 7,58; un commesso del commercio 7,64, fino ai 6,20 euro di un addetto della vigilanza privata o ai 6,51 delle pulizie, 5,80 per le badanti (Colf). Se invece si valuta il salario medio su base annua — comprensivo appunto di ferie, tredicesima e quattordicesima (escluso il tfr) — la paga oraria della maggioranza delle categorie i 9 euro li supera già. Si va dai 9,88 euro dei metalmeccanici ai 10,49 del commercio, dai 9,07 dei multiservizi ai 12,47 per l’alimentare passando per gli 11,63 euro dei chimici.

Ciò vale, tuttavia, se effettivamente questi contratti venissero rispettati e applicati a tutti i/le lavoratori/trici.

Secondo i dati Inps e Istat, considerando il salario orario, tutto compreso (ferie, tredicesima, ecc.),  ben il 22% dei dipendenti (2,9 milioni di persone) guadagna di meno. Parliamo del 38% dei lavoratori dell’agricoltura e del 10% degli addetti dell’industria. Poi il 34% nei servizi, il 52% degli artigiani e il 59,5% degli apprendisti. Oltre al 100% delle colf.

Il che significa che non a tutti vengono applicate le regole contrattuali, come avviene spesso nelle piccole imprese, laddove non esiste contrattazione di II° livello, e per i contratti precari che fanno deroga.

La ricerca della Fondazione Di Vittorio considera solo i lavoratori subordinati. Se si dovessero tenere conto anche le collaborazioni, le partite Iva, e l’etero-direzione di alcuni contratti di lavoro autonomo (vedi i riders) e i soci di cooperativa (vedi logistica), la situazione sarebbe drasticamente peggiore.

È quindi  evidente che in Italia vi è una questione salariale, nel senso che i salari sono troppo bassi e la causa principale sta, oltre che nella precarizzazione eccessiva del lavoro, nell’assenza proprio di un salario minimo legale.

L’Istat stima anche il costo che le imprese dovrebbero sostenere per adeguare gli stipendi ad un minimo di 9 euro l’ora. Si tratta di 3,2 miliardi, una cifra sopportabile se si pensa che le prime 10 imprese italiane più profittevoli (da ENI, a Enel, Luxottica, Ferrari, Costa Crociere, Poste Italiane, ecc.) hanno maturato nel 2018, secondi i dati Mediobanca, circa 26 miliardi di utili.

Se si tiene conto che questi 3,2 miliardi verrebbero spesi per oltre il 95%, si assisterebbe ad una crescita della propensione media al consumo con un benefico effetto sul moltiplicatore del reddito e sulla domanda interna, oggi in fase stagnante. Sarebbe lo stesso effetto che si otterrebbe con i reddito minimo, in un  combinato disposto che potrebbe favorire la ripresa economica italiana (oggi fanalino in Europa, anche per questi motivi).

Le considerazioni fin qui effettuate non hanno tenuto conto di altre ragioni che giocano a favore dell’introduzione di un salario minimo. Da un lato, vi è una questione di equità e di migliore distribuzione del reddito, dall’altro, il fatto che l’introduzione di un salario minimo migliorerebbe le condizioni di vita di quei segmenti di lavoro che oggi sono sottoposti a maggior sfruttamento e ricattabilità: in particolare, le donne, i migranti e i giovani precari.

L’introduzione di un salario minimo, infatti, dovrebbe entrare a pieno titolo nelle rivendicazioni sociali del movimento Nudm insieme al reddito di autodeterminazione, sia come strumento per ridurre l’elevato gender gap che caratterizza ancora oggi le retribuzioni italiane, sia per consentire una maggior autonomia economica, in sintonia e sinergia con l’obiettivo del reddito di autodeterminazione contro la violenza maschile, economica e finanziaria.

Stesso discorso vale per i giovani e i migranti, le categorie oggi più ricattabili (con le donne), a causa della precarietà lavorativa e di vita.

Riteniamo sacrosanta, di conseguenza, la battaglia per l’introduzione di un salario minimo legale. Tuttavia, non bisogna nascondersi che possono sorgere alcune criticità se tale battaglia non è impostata in modo corretto. In particolare, ci riferiamo a tre aspetti:

1.  Il livello del salario minimo non può essere inferiore ai 10 euro lordi calcolate sul numero di ore effettivamente lavorate. Il suo calcolo deve tener conto anche del valore delle prestazioni lavorative non subordinate (partite Iva, collaborazioni, prestazioni d’opera, ecc.). Ciò significa che alcuni contratti nazionali devono essere rivisti al rialzo. Particolare attenzione deve essere data al contratto delle colf e badanti, dal momento che un adeguamento salariale potrebbe avere effetti pesanti sulle famiglie. La cura degli anziani, in particolare, dovrebbe rientrare nel novero dei servizi sociali che molto spesso lo Stato ha tralasciato, favorendone la privatizzazione a costi eccessivi e scaricando sulle famiglie (soprattutto meno abbienti) l’onere della cura. Ora se è del tutto legittimo che il salario cresca per la cura non lo è se tale aumento viene scaricato sulle spalle dei famigliari. Il superamento di questo trade-off può essere ottenuto tramite l’erogazione di un reddito a carico dello Stato per coniugare il diritto ad un salario decente e il diritto a ricevere cure e assistenza in caso di bisogno. Si tratta di un alibi che spesso viene utilizzato dagli stessi sindacati per opporsi all’introduzione del salario minimo.

2. La battaglia per un salario minimo non può essere solo riferita ai lavoratori/trici subordinati/e. Esso deve coinvolgere tutto il mondo del lavoro a prescindere dalla tipologia contrattuale esistente. Pertanto, diventa sempre più impellente la necessità di andare oltre il concetto di “salario”, se per salario si intende (come lo intende il punto di vista economico) la remunerazione di un’attività di lavoro dipendente. Il rischio è quello di creare una nuova fattura tra lavoro dipendente e lavoro indipendente, soprattutto in un contesto dove la bassa remunerazione del lavoro tende a essere più diffusa tra i segmenti del mercato del lavoro che risultano giuridicamente e fiscalmente indipendenti, autonomi, ecc. Per questo è auspicabile che si cominci a parlare di “compenso minimo orario” come strumento di ricomposizione del lavoro.

3. Infine, punto non secondario, l’introduzione di un compenso minimo è fondamentale per favorire l’introduzione di un reddito minimo incondizionato. Se il primo, il salario, è la remunerazione di un’attività di lavoro più o meno certificata (e spesso sottopagata), il secondo – il reddito – è la remunerazione di quella produzione di valore che oggi non viene riconosciuta ma svolta in condizioni di gratuità. La battaglia per entrambi è unica e interdipendente. E deve essere fatta insieme. E’ anche questo uno dei motivi di intervento concreto sulla frammentata realtà precaria che viene svolta dal collettivo GigaWorkers.

Andrea Fumagalli

6/3/2020 effimera.org

 

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