Salario-salute e profitto

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Esiste un nesso evidente tra quanto sostenuto dal presidente di Confindustria, Carlo Bonomi in una lettera dello scorso 28 agosto ai presidenti delle associate confederate e la proposta che Boeri ha avanzato in un articolo pubblicato solo un paio di giorni prima sul quotidiano La Repubblica. Il punto centrale, in entrambi i casi, è il superamento del contratto nazionale e la riformulazione del salario di fronte ai mutamenti che il post-pandemia porterà nei rapporti di lavoro. La tesi, nell’articolo di Boeri come nella lunga lettera interna di Bonomi, è la necessità di adeguarsi a quei mutamenti nel mondo del lavoro che renderebbero anacronistica la contrattazione nazionale e che – scrive Boeri – “agiscono tutti nella direzione di rafforzare il ruolo della contrattazione azienda per azienda”. Contratti sì – rilanciano dalle parti di Viale dell’Astronomia – ma adeguati ai mutamenti tecnologici, dei mercati, dei modi di produzione e di distribuzione. Si parla, potremmo dire, di adeguare la contrattazione ai cambiamenti impressi sulle forze produttive e nei rapporti di lavoro. In che modo? Secondo Boeri “la pandemia ha aggiunto una nuova dimensione di eterogeneità nei rapporti di lavoro, quella del rischio di contagio. Anche i salari – continua Boeri – non possono che tenerne conto”. Come? Secondo l’economista bocconiano “Ci devono essere livelli di sicurezza minimi che devono essere presidiati, azienda per azienda, e, al di sopra di questi livelli minimi, è inevitabile che il salario finisca per incorporare compensazioni per il rischio di contagio”.

Quali debbano essere i “livelli di sicurezza minimi” Boeri non ce lo dice. Eppure qui è in gioco la salute dei lavoratori e allora, quando si parla di livelli di sicurezza minimi che incorpori l’idea di compensazioni del rischio contagio, si sta dicendo che alle aziende può essere data la possibilità di
accettare il rischio di infettare e di monetizzare quel rischio. Ovvero, si sta dicendo di accettare coscientemente che ci siano lavoratori esposti al rischio di ammalarsi di Covid-19, quindi di poter contrarre una malattia potenzialmente molto grave per la salute ed in molti casi mortale. Detto fuori da qualsiasi fraseologia che ne edulcori la portata, Boeri propone un salario variabile in base al rischio di infettarsi. Non bastava il salario variabile dipendente dal profitto e dalla produttività aziendale, ora si arriva al salario variabile dipendente dalla capacità o dall’intenzione di un’azienda di mettere in pratica misure di prevenzione e protezione che tutelino i lavoratori da una malattia dai risvolti spesso gravi ed invalidanti per la salute e che può condurre alla morte. Il classico conflitto salute-lavoro Boeri lo risolve con la proposta di una sorta di diritto delle aziende ad infettare, compensata (si fa per dire) da una monetizzazione del rischio di malattia e morte.

Con un tempismo da record, Bonomi e Boeri hanno lanciato questa idea solo pochi giorni dopo la pubblicazione di uno studio con il quale Alberto Bisin e Piero Gottardi, in una malsana logica neoliberista e tra decine di righe di complessi calcoli elaborati a tavolino, hanno provato a dimostrare la necessità di “mercati competitivi per i diritti di infezione”. I due economisti hanno riconosciuto che si tratta di un “azzardo morale”, ma ciò non li ha fatti desistere dal proporre un meccanismo per “implementare allocazioni efficienti” in un contesto di “attività produttrici di esternalità” (cioè di conseguenze di quella attività su altri soggetti, in questo caso l’infezione) che “inducano gli agenti e le imprese a consumare e produrre in modo efficiente”. Bisin e Gottardi hanno definito, così, “i prezzi di equilibrio dei diritti di infezione”, cioè i prezzi che le imprese dovrebbero pagare per acquistare il diritto di infettare i lavoratori, di far loro rischiare una polmonite interstiziale o addirittura la morte per Coronavirus (ma il modello, affermano, è estendibile). E’ il libero mercato, bellezza! Qui si massimizza il profitto e il costo qualcuno deve pagarlo. Qui la salute non è un diritto ma una possibilità; non un diritto garantito ma solo uno dei fattori della produzione che deve trovare l’ottimale allocazione al fine di minimizzare i costi e massimizzare i profitti. Come Boeri, Bisin e Gottardi ci stanno dicendo che la salute e la vita stessa dei lavoratori può essere monetizzata. E’ un concetto affatto originale: la monetizzazione del rischio, cioè l’idea di convertire la nocività del lavoro in compensi monetari arriva da lontano. Una soluzione che, come è facile intuire, non ha mai portato alcun beneficio reale ai lavoratori.

Nel 1947, l’accordo aggiuntivo del contratto collettivo dei chimici stabiliva che “agli operai normalmente addetti alle lavorazioni nocive, pericolose o svolgentesi normalmente in condizioni ambientali particolarmente gravose (…) venga corrisposta una speciale indennità proporzionata alla nocività, pericolosità o particolare gravosità ambientale di lavoro”: la speciale indennità corrispondeva ad un massimo di 12 lire l’ora per le attività più nocive (l’indennità minima era stabilita in 5 lire). Ma a testimonianza di quanto fosse radicata l’idea della possibilità di scambiare la salute per quattro soldi è l’accordo Fiat siglato l’1 luglio 1969, che, ad esempio, stabiliva una “paga di posto” di 16 lire orarie per gli operai addetti alla verniciatura, un’attività che soprattutto a quel tempo risultava particolarmente nociva. Una “indennità di polvere” ed un litro di olio era invece il compenso con il quale gli operai della Eternit venivano compensati per accettare la prospettiva di crepare un giorno o l’altro di mesotelioma. Per tutti quei lavoratori lo scambio tra salute e lavoro, una vera e propria compravendita mediata dal ricatto salariale, era una necessità per raggiungere un livello retributivo minimo per poter avere cura della propria famiglia e magari provare a immaginare un futuro migliore per i propri figli.
Se osserviamo bene questo piccolo richiamo storico, ci accorgiamo facilmente di un macroscopico legame con la fase attuale: allora come oggi, le basi per poter avanzare una indennità di rischio sono legate al ricatto salariale ed anche gli effetti che si dispiegano a seguito di tale ricatto sono molto simili.

Il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, nella sua lettera ai presidenti delle associate, pone una premessa a sostegno della sua proposta di abbandonare lo scambio tra salario e orario di lavoro e cioè che – è la sua tesi – se guardiamo solo a questo scambio, l’indice Ipca (indicatore di riferimento per gli aumenti retributivi) “indica oggi salari stagnanti se non in regresso”. E’ un refrain di questi anni di Confindustria. Ma ciò che più conta è che il presidente degli industriali italiani, con un fare quasi paternalistico in questo passaggio, sta dicendo che oggi lo scambio salario-orario di lavoro non basta per garantire il mantenimento dei livelli retributivi. Ed è qui che si inserisce con prepotenza la proposta di Boeri dello scambio salario-salute per mantenere gli attuali livelli salariali. La proposta, ripulita dai termini che si addicono ad un aclassismo specioso e riportata allo stato grezzo, afferma che per mantenere gli attuali livelli di vita (che tra i lavoratori non è mai da nababbi) occorre cedere la tutela della propria salute (già non del tutto garantita, come si evince dai numeri degli infortuni e delle malattie professionali).

Un valore a questo scambio è stato già dato proprio nel corso dell’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia da Coronavirus. Nel decreto legge Cura Italia dello scorso 17 marzo, il governo aveva stabilito una maggiorazione in busta paga (per un massimo di 100 euro da parametrare ai giorni di lavoro effettivamente svolti) per i lavoratori che avevano lavorato in quello stesso mese, quale indennità di rischio Covid-19. Non solo uno scambio miserabile dal punto di vista economico, ma pure ignobile nel corso di una gestione dell’emergenza con molte falle e troppe attenzioni rivolte soprattutto alle pretese degli industriali di mantenere attive le produzioni per non perdere commesse e garantire i profitti, come dimostrano importanti inchieste giornalistiche. Il risultato è che si è assistito ad una diffusione del contagio del virus SARS-CoV-2 particolarmente ampia dove più ampia è stata l’attività lavorativa, dove le attività produttive hanno continuato ad andare avanti, approfittando e aggirando la rete di per sé a maglie larghe di un lockdown stabilito grossolanamente sui codici Ateco, approfittando anche (come ampiamente riportato dai giornali), in centinaia di migliaia di casi, della cassa integrazione Covid per pagare dipendenti effettivamente al lavoro.

Da quanto finora detto si possono sviluppare temi molteplici e intrecciati, estraendoli dal particolare per giungere al generale: dalla vita spezzata di un lavoratore pendolare di una fabbrica di Alzano Lombardo fino alla natura ed al ruolo dello Stato in una società dominata dagli interessi del capitale. Possiamo, però, intanto dire che in una logica liberista che fonda la sua visione di società sull’accumulazione dei profitti, la salute e la vita stessa dei lavoratori possono cinicamente essere valutate in un macabro calcolo costi/benefici, considerarle esternalità a cui dare un prezzo di mercato; che entro un quadro del genere, a dispetto del dettato costituzionale che assegna alla Repubblica il compito di tutelare “la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, il diritto alla salute è, come tutti gli altri, mai acquisito una volta per tutte ma continuamente esposto ai rapporti di forza esistenti storicamente tra le classi, ovvero ai rapporti di produzione.

E allora, è in questo ambito che i soggetti politici, sindacali e sociali di classe devono trovare elementi unificanti, non solo di resistenza per non arretrare sul fronte dei diritti ma di contrattacco per un avanzamento nelle condizioni di lavoro e di vita da considerare ambiti indissolubilmente legati, come proprio le irresponsabilità nella gestione dell’emergenza Covid-19 hanno reso più che mai evidente. In questi ultimi mesi il nesso tra rapporti di produzione e rapporti di riproduzione sociali, tra produzione e società è emerso da sotto le ceneri di un conflitto soffocato da una narrazione interclassista e aclassista. Contrarre il virus nei luoghi di lavoro (che capiti ad un infermiere, a un camionista o a un metalmeccanico) significa portarlo nei luoghi di affetto e in generale nella società che ne paga i costi sociali; si è reso palese come gli spazi della vita lavorativa e quelli della vita affettiva e sociale sono effettivamente intrecciati. L’emergenza Coronavirus ha mostrato che la qualità della vita di lavoro si ripercuote immediatamente nella vita sociale fuori dai luoghi di lavoro non solo a Taranto o a Casale Monferrato, ma ovunque e sempre, che si tratti di un reparto di ospedale, di un cantiere, di un terreno agricolo o di una catena di montaggio.

Le proposte di Bonomi e Boeri prendono soltanto spunto dall’emergenza Covid-19 ma quelle idee hanno già una visione generale (esplicita anche nel paper di Bisin e Gottardi), coinvolgendo tutti i lavoratori salariati. Allora proviamo ad essere pragmatici leggendo quelle proposte e chiediamoci: per quale cifra scambieremmo la nostra salute? Quanti euro vale il rischio di ammalarsi di tumore respirando sostanze nocive, di contrarre il Covid-19 intubando un paziente o viaggiando su un treno regionale affollato, di subire danni all’udito o di affaticare a tal punto ossa e muscoli da non riuscire più nemmeno a stringere le dita della mano e spesso, in ognuno di questi casi (pochi tra molteplici esempi che si potrebbero fare), vedersi tagliati fuori dal mondo del lavoro e ridotti drasticamente gli anni di vita sana? Chi si caricherà dei costi e della fatica di cura di quanti si ammaleranno dopo essere stati costretti ad accettare il rischio di malattie contratte sul lavoro e chi, invece, ne trarrà profitto? Domande che lette insieme trovano risposte tra i rapporti di produzione e rimandano alla necessità di cercare in quell’ambito proposte per lotte che non durino il tempo di un autunno, sempre meno caldo e sempre più solo piovoso (parafrasando, ahimé, la ex segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso).

Bonomi e Boeri mostrano come il salario sganciato dai parametri aziendali e legato alla possibilità di “assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36 della Costituzione) è oggi il terreno di scontro principale e, nemmeno troppo paradossalmente, è proprio la formulazione della loro proposta che ci indica che quello è il terreno unificante per la classe lavoratrice e da cui emerge l’irriducibile antagonismo tra chi deve lavorare per campare e chi campa (spesso sontuosamente) con la ricchezza prodotta dai lavoratori. “La salute non si vende” è lo slogan che negli anni 70 del ’900 ha animato la lotta per migliorare le condizioni di salute nei luoghi di lavoro e di vita (contemporaneamente) attraverso il rifiuto dello scambio salario-salute; con quello slogan si è detto che il miglioramento delle condizioni materiali non poteva avvenire in cambio del rischio di ammalarsi: nessun diritto di infettare, di far respirare amianto o vernici o di procurare dolorose patologie muscolo-scheletriche poteva essere accettato.

Bisognerebbe recuperare quell’esperienza con tutto il suo significato politico, sindacale e sociale e cioè che non può essere accettata alcuna proposta che riproponga lo scambio salario-salute; che non si può accettare di socializzare i costi di una produzione che già in periodi non emergenziali produce ogni anno migliaia di malattie e infortuni legati al lavoro e che oggi è resa ancora più insidiosa con il rischio di portare a casa, tra i nostri cari, un virus pericoloso e spesso mortale; che non sono più accettabili tagli allo stato sociale ed al Servizio sanitario nazionale in particolare, mentre i costi di cura di chi si ammala nei luoghi di lavoro insicuri sono a carico delle famiglie e della collettività, spingendo, in questo modo, ancora più in basso il pavimento dei diritti ed il livello del salario reale e di quello sociale; che non è accettabile che tutto questo avvenga, tra l’altro, mentre i profitti accrescono i partimoni di pochi e le disuguaglianze continuano ad allargarsi.

Recuperare l’esperienza di lotta per la salute e il salario (contemporaneamte) significa non solo riappropriarsi della consapevolezza dell’antagonismo di classe e della tutela della salute quale
diritto fondamentale ed inalienabile, ma anche di riprendere in mano i temi del comando e dell’organizzazione del lavoro e del salario minimo. Scavando nella storia del movimento operaio e osservando oggi i terreni di lotta dei lavoratori più incisivi e più interessanti, non si può che osservare che è su quel campo che si gioca la partita. Dalle lotte contro lo scambio salute-salario degli anni ‘70 del Novecento, fino a quelle contro il presunto conflitto ambiente-lavoro a Taranto; dalle rivendicazioni (in Italia e a livello internazionale) dei riders per essere riconosciuti come lavoratori dipendenti che è anche, quindi, lotta per il salario, fino all’imponente sciopero per il salario minimo dei lavoratori in India, sono numerosi gli esempi che ci dicono che la partita da giocare è quella per avere contemporaneamente salario e migliori condizioni di lavoro quale condizione minima e necessaria per migliorare le condizioni di vita per la stragrande maggioranza delle persone, dentro e fuori i luoghi di lavoro. Una partita aperta, che sarà certamente persa solo se si rinuncerà a giocarla.

Carmine Tomeo

Collaboratore di Lavoro e Salute

Articolo pubblicato sul numero di ottobre del mensile Lavoro e Salute

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