Salute mentale e sanità pubblica: contraddizioni e prospettive di un lavoro di frontiera

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di Riccardo Ierna

I commissari della Nobiltà… esprimevano
il timore che la verificazione de’ poteri in comune
tirasse con sé la deliberazione in comune.

A. Manzoni, La rivoluzione francese del 1789, III

La salute mentale è connessa alla possibilità di dominare conoscitivamente e operativamente la propria condizione esistenziale e i processi che la determinano. La salute mentale non si identifica quindi con un codice di norme di comportamento né con la pura e semplice assenza di malattia.
Si tutela, non espandendo strutture e servizi psichiatrici, ma trasformando profondamente le condizioni e i significati della vita associata in modo da realizzare rapporti umani e modelli socioculturali che pongano il benessere dell’uomo quale valore primo e fondamentale.
Si costruisce anche nell’ambito della lotta collettiva e individuale contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e contro tutti quegli ostacoli, materiali e culturali, che impediscono il pieno e critico dispiegarsi della personalità umana.

Dall’art. 2 del Regolamento dei CIM di Perugia, 1974 (1)

Oggi, a parte salute mentale, non troverete nessuna di queste parole nelle linee guida che regolano il funzionamento di un qualunque centro di salute mentale del nostro paese. Da tempo, infatti, la dimensione politica e sociale sono letteralmente scomparse dalla programmazione dei servizi sanitari pubblici italiani. Poco prima del varo della legge 180, poi confluita nella legge 833/78 che istituiva il servizio sanitario nazionale, la regolamentazione dei servizi, almeno in quelle aree territoriali dove la deistituzionalizzazione aveva funzionato, fu l’espressione e il prodotto di una reale compartecipazione di tutte le componenti sociali interessate al problema psichiatrico e più in generale alla questione sociale ad esso connessa (2). Successivamente, l’aziendalizzazione del servizio sanitario nazionale e la riforma costituzionale sulle autonomie regionali, hanno inferto un duro colpo ai principi della riforma sanitaria riducendola, di fatto, a un sistema di decentramento amministrativo e di pluralismo autonomistico delle prestazioni sanitarie. Cosi, oggi, i servizi di salute mentale rispondono all’ideale di un economicismo che è perfettamente funzionale alla logica neoliberale dei paesi occidentali e che tratta la salute mentale come una merce fatta di prestazioni da erogare, piuttosto che un progetto di rifondazione sociale dei rapporti umani e di costruzione materiale dell’esercizio dei diritti delle persone svantaggiate e sofferenti che popolano la nostra società. Pensare, infatti, di poter dominare oggi conoscitivamente e operativamente la propria condizione esistenziale e i processi che la determinano, vivendo in una società capitalistica che fa della rappresentazione mediatica del soggetto, la propria rete virtuale di gestione della performance individuale e che è essa stessa coproduttrice di disagio, appare francamente utopistico se non addirittura fuorviante. Cosi come sembra piuttosto improbabile che la salute mentale contemporanea non rimanga codificata in una serie di norme comportamentali, visto il continuo proliferare di disturbi diagnosticabili o non ancora diagnosticati dai manuali statistici e diagnostici, identificati da condotte e da azioni che turbano l’ordine pubblico, l’apprendimento scolastico, i ritmi di lavoro e la tranquillità sociale. D’altra parte è piuttosto evidente che in una società cosi iconicamente “performante”, cioè tesa ad ottenere dalle persone la migliore prestazione in termini di consumo e di produzione – e oggi anche di riproduzione sociale – non può esserci posto per chi soggettivamente non ce la fa, per chi esprime una sofferenza mentale profonda che si riverbera in una condizione esistenziale spesso insopportabile. Ne sono oggi espressione drammatica le condizioni delle fasce più giovani della popolazione, intrappolate nelle diverse forme di dipendenza patologica, nelle condotte antisociali, o nella chiusura autistica verso qualsiasi stimolo che non provenga dalla tecnologia moderna dei social network.

Situazioni sulle quali il servizio di salute mentale spesso non fa in tempo a intervenire, o se interviene lo fa a livello di una gestione puramente farmacologica di contenimento comportamentale o psicologico – cioè come lavoro ex post di riduzione del danno – quella che oggi impropriamente viene definita prevenzione secondaria. Ma le forme governamentali moderne hanno trovato anche il modo di riciclare la produzione di queste vite infami (3), regolandone il flusso, non potendole più contenere in asili o istituti concentrazionari, cominciando a oggettivarle come persone dopo averle oggettivate come corpi. I welfare moderni, infatti, sono riusciti a combinare il meglio dell’assistenzialismo ereditato dal vecchio stato sociale, con il peggio della nuova cultura neoliberale dell’efficientismo individuale, creando un ibrido mostruoso che di fatto ha azzerato i diritti sociali e camuffato i diritti civili delle persone con disturbo mentale. E’ evidente, infatti, la apparente contraddizione oggi manifesta tra una gestione puramente assistenziale del disturbo mentale attraverso le strutture della cosiddetta area riabilitativa, che si limita a intrattenere o al massimo a gestire il tempo indefinito dell’utente nel servizio, con l’attivazione di forme di cogestione e coproduzione dei servizi mutuate da modelli già sperimentati da anni nell’area anglosassone, si pensi al movimento della recovery (4), in cui si sperimentano forme democratiche di compartecipazione, di autonomia e di negozialità dell’utenza nell’organizzazione e nel funzionamento di queste istituzioni. Una compartecipazione, un’autonomia e una negozialità solo apparenti si diceva, perché difficilmente esigibili nel rapporto con un sistema aziendale, quello delle ASL, fondato sul contenimento delle spese, sul far quadrare i bilanci e sull’erogazione continua di prestazioni sanitarie.

Ma altrettanto apparenti come processi di erosione del potere psichiatrico, perché giocati sempre all’interno di una gestione delle organizzazioni del nuovo welfare – si pensi alle forme di associazionismo e di cooperazione sociale del Terzo Settore – guidata da operatori e dirigenti di vecchia generazione. Cioè da un vecchio sistema di regolazione dei poteri in cui l’utente rimane l’ultimo anello della catena decisionale che si gioca sulla “testa” del suo percorso esistenziale e sociale e che paradossalmente lo mantiene dentro quello stesso circuito istituzionale da cui dovrebbe uscire e affrancarsi. D’altra parte oggi sembra essere venuto meno anche quell’effetto di controbilanciamento e di verifica dei poteri (5) che in passato ricoprivano nei loro ruoli istituzionali gli amministratori, le organizzazioni sindacali e la politica. I primi ormai lontani dai servizi ed espressione spesso degli interessi dei vari schieramenti politici e istituzionali. I secondi fortemente ridimensionati, depotenziati nel loro ruolo rappresentativo e in difficoltà nella contrattazione generale sul lavoro e i diritti dei lavoratori. La terza fortemente impegnata nell’approvvigionamento di consensi elettorali e distante dai problemi reali del paese. In un tale scenario, a cui fa da sfondo un processo di depoliticizzazione spinta delle professionalità sanitarie, il ritorno dello specialismo e la deresponsabilizzazione sulla cosa pubblica – la salute (compresa quella mentale) come bene comune – della attuale classe dirigente, è difficile poter dire quale salute mentale è oggi possibile.

Per quello che posso vedere dal mio piccolo osservatorio a me pare che oggi la salute mentale si trovi in regioni insospettate del continente sociale. Più a livello extraistituzionale che intraistituzionale. Più nel solco di un lavoro di frontiera che non nei freddi e ormai impoveriti luoghi istituzionali.

Nella mia esperienza di operatore calato nei servizi oggi intravedo in alcune iniziative della cittadinanza, rintracciabili territorialmente nel riutilizzo e nella rivalorizzazione di alcuni spazi dismessi o abbandonati, nella fondazione di laboratori urbani e di centri di aggregazione giovanile, di accoglienza e di coinvolgimento attivo delle fasce più esposte alla marginalità sociale, di articolazione dell’analisi politica sulle condizioni sociali ed esistenziali della popolazione, ma anche di forme di imprenditorialità sociale e di cooperazione comunitaria o di autogestione e mutualismo organizzativo, delle forme embrionali di prevenzione primaria della salute mentale territoriale.

Vedo cioè la possibilità concreta di un ritorno al controllo popolare di temi e problemi che sono oggi saldamente nelle mani delle dirigenze amministrative e dei tecnici della salute. A me pare questa una strada promettente per trasformare profondamente le condizioni e i significati della vita associata in modo da realizzare rapporti umani e modelli socioculturali che pongano il benessere dell’uomo quale valore primo e fondamentale. A patto che anche i tecnici, gli amministratori e la politica si facciano garanti di questi processi sociali, uscendo dai loro narcisismi e da un ruolo ormai consolidato di potere e di sapere, e tornino a lottare contro lo sfruttamento e contro tutti quegli ostacoli, materiali e culturali, che impediscono il pieno e critico dispiegarsi della personalità umana. Cioè impedendo che il loro potere istituzionale e la delega che continuano a ricevere dal sociale, ne faccia i nuovi funzionari del consenso al servizio del capitale e delle politiche neoliberali che dicono di combattere.

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1 Si veda: “Regolamento dei Cim della Provincia di Perugia”, pubblicato in “Annali di Neurologia e psichiatria”, anno
LXVIII, fasc. 3-4, 1974.
2 In particolare sull’esperienza perugina di deistituzionalizzazione dell’ospedale psichiatrico si veda: Guaitini G. (a cura di), Le assemblee popolari sulla politica psichiatrica dell’Amministrazione provinciale di Perugia, Amministrazione provinciale di Perugia, 1974.
3 Il riferimento è al lavoro di Michel Foucault. Si veda in particolare: M. Foucault, La vita degli uomini infami, Il
Mulino, Bologna, 2009.
4 Sul tema della recovery si veda: A. Maone, B. D’Avanzo, Recovery: nuovi paradigmi per la salute mentale, Raffaello
Cortina Editore, Milano, 2015 e F. Lucchi (a cura di), Coproduzione e recovery, Erikson, Trento, 2017.
5 F. Fortini, Verifica dei poteri, Il Saggiatore di Arnaldo Mondadori Editore, Milano, 1965.

Riccardo Ierna
Psicologo, Psicoterapeuta

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