Sardegna e Croazia si spopolano

spopolamento sud

Lo spopolamento visto da Emiliano Deiana

Ieri, alla Fondazione Sardegna, c’è stata una lunga giornata di dibattiti sullo “spopolamento” di alcuni paesi della Sardegna. Si è presentato il bellissimo (e necessario) lavoro di Sardarch intitolato Spop. Se volete un consiglio: cercatelo e compratelo.
Io (e altri sindaci) eravamo stati invitati a dibattere col Presidente della Regione Pigliaru e con quello della Fondazione Sardegna Cabras. Certamente, nei rispettivi campi di azione, le due persone – forse – con maggiore potere, oggi, in Sardegna.
Era un po’ come se Don Romualdo fosse invitato a Castel Gandolfo a parlare con Bergoglio e Ratzinger. Una cosa così: fatte le giuste proporzioni.
Cioè, Don Romualdo potevamo essere noi. Bergoglio e Ratzinger, loro.
Vabbè, il paragone è un po’ così: ma ci siamo capiti.
Il fatto è che, per motivi sicuramente validissimi, non c’era nè Bergoglio e nè Ratzinger (questo un po’ ce lo immaginavamo che Benedetto XVI e Francesco non ci fossero). Cioè, non c’erano nè Pigliaru nè Cabras. Meglio ancora: Cabras ha parlato di mattina. L’incontro istituzionale e il dibattito coi paesi morituri era alle 18.
Ma non ci siamo persi d’animo e abbiamo provato – insieme ai sindaci di Nughedu San Nicolò, Villa Verde, Padria, Sini (c’erano pure altri colleghi in altre “sezioni”) – a dire la nostra.
Vediamo un po’ di riassumere.
Magari – dopo un po’ – stanca essere il paese-mozzarella. Il paese con la data di scadenza appiccicata sul groppone. Sarà pur vero che ci sono 31 paesi in una situazione più critica degli altri, ma non si spopola solo Villa Verde o Nughedu Santa Vittoria o Ardauli o Cheremule. Si spopola TUTTA la Sardegna.
Lo spopolamento si declina in altre parole: emigrazione, disoccupazione, denatalità, invecchiamento della popolazione.
Dovrà pur finire – anche – lo Storytelling di ‘staminchia di alcuni imbrattacarte che si emigra per far esperienza. Su 100.000 che emigrano 5/6 emigrano per fare lo scrittore maudit nelle periferie delle grandi capitali coi soldi di mamma e babbo. Gli altri emigrano per bisogno. Per il bisogno di lavorare. Perché in questa terraccia che calpestiamo non c’è lo straccio di una prospettiva. Nemmeno la più miserabile e infima.
Se in Sardegna (e in Italia) il tasso di natalità decade; se l’età media in Sardegna si attesta sui 46 anni mentre nel Maghereb è di 21 anni: ci sarà un problema?
Se in Sardegna, col 99% di zone rurali, si perdono un paio d’anni a discutere di “città metropolitane”; se in Sardegna, col 99% di aree rurali, l’unica forma di fiscalità di vantaggio l’abbiamo chiamata “zona franca urbana” ci si renderà conto che – forse – si è perduta la connessione con la realtà?
Cioè, che ci costringono a vivere in una dimensione parallela? A discutere (e ad azzuffarci) su questioni inutili o utili solo a pochi?
Chi dice di possedere la ricetta per “mitigare” lo spopolamento è un cialtrone. Tutte le politiche devono essere per forza di cose “sperimentali”. Nella sperimentazione, forse, ciò che va bene in Gallura non va bene nel Barigadu. Potrebbero servire sperimentazioni differenti su problemi simili.
Naturalmente è un cialtrone anche chi dice “farò”, “faremo”. Sempre declinato al futuro.
È l’adesso che conta.
Noi, nei paesi, la dobbiamo pure far finita di fare i “necrofori” delle nostre comunità. Intuire (e attuare) che le politiche di sviluppo non possono essere “comunali”, ma territoriali (le funzioni associate e le fusioni comunali, invece, non sono una soluzione, ma uno strumento da maneggiare con cura).
Nei paesi dobbiamo strapparci di dosso la data di scadenza e sovvertire l’ordine delle cose. Sovvertirlo a livello culturale, politico, umano.
La smettiamo di dire cosa può fare la “regione” per noi? E diciamo cosa possiamo fare NOI per la Sardegna?
La smettiamo di offrire – NOI – solo il Grande Sagrificio? E ci mettiamo in cammino a offrire il meglio che c’è in termini culturali, ambientali, produttivi e paesaggistici?
Ci riesce a farla dentro di noi la rivoluzione? O pensiamo che la faranno Bergoglio e Ratzinger per noi? Magari, come diceva Flaiano, utilizzando la loro mobilia per le barricate?
Ecco. Un po’ di pensieri sparsi in una domenica delle salme.

E infine una provocazione a chi dice che i servizi possono essere chiusi dove ci sono poche persone. Che non può esserci – chi cazzo lo ha mai chiesto? – un ospedale per ogni paese.
Da Pattada a Sassari ci sono 78 km. Oggi hanno chiuso il punto nascita dell’Ospedale di Ozieri. Le partorienti del Monte Acuto e del Logudoro migrano verso l’urbe.
Sogniamo. Facciamo che un pazzo chiude il punto nascita di Sassari e tiene aperto quello di Ozieri.
Cosa succederebbe in Sardegna? Cosa direbbero a Sassari? Direbbero che una partoriente di Sassari non può farsi 78 km per andare a partorire a Ozieri.
O sbaglio?
E perché dovrebbe essere normale che una partoriente di Pattada faccia 78 km di strade devastate per andare a partorire a Sassari?
La domanda l’ho fatta. Datevi la risposta. (scritto nel 2016)

——————————————————————————–

PAESI, AREE INTERNE E SPOPOLAMENTO

Emiliano Deiana ~ Sindaco di Bortigiadas e Presidente di Anci Sardegna

In Sardegna, in questi mesi, si è rinforzato il dibattito sui paesi, sulle aree interne e sullo spopolamento.

Se ne parla sui quotidiani, sulle televisioni, sui Social Network; ne parlano i sindaci, gli amministratori, gli intellettuali, gli artisti, gli architetti, gli economisti, i sociologi, gli antropologi. Anche la Giunta Regionale ha aperto, non senza ritardi, degli spiragli di ragionamento e ha esplicitato la volontà di invertire radicalmente la direzione di marcia delle politiche regionali: vedremo se alle parole seguiranno fatti e atti conseguenti.

Tutto questo “parlare” non è stato inutile; non è stato un esercizio di stile, la messa in scena di buone intenzioni e migliori sentimenti.

Tutto questo “parlare” ha fatto crescere la consapevolezza (e l’autoconsapevolezza nelle comunità) del dramma sociale, umano, storico, politico e culturale che vive la Sardegna. Un dramma che se non vi si pone rimedio farà precipitare la nostra terra in un evo di difficile comprensione e di ancor più difficile interpretazione.
Lo spopolamento non è un fatto ineluttabile; è, semmai, il prodotto di scelte politiche precise che, se guardate con una certa freddezza e distacco, si potrebbero pure definire scientifiche. Con una certa dose di livida freddezza si sono abbandonate le aree rurali della Sardegna al loro destino fatto di denatalità, invecchiamento della popolazione, disoccupazione, emigrazione, depauperamento dei servizi pubblici essenziali: se Stato e Regione avessero speso un decimo dei fondi destinati alle fallimentari politiche industriali per i paesi avremmo di sicuro costruito una Sardegna più giusta, più umana, più autentica.

Se da un lato amministratori locali, intellettuali, scrittori, poeti, artisti hanno fatto sentire la loro voce questa voce si è scontrata col muro di silenzio dei partiti politici incapaci di interpretare il sentimento diffuso che in Sardegna – sul tema – sta germogliando. Un sentimento, una consapevolezza che sta crescendo come una “matrica”, un lievito benefico che fa dire – in luogo della lamentazione – che i paesi, le aree interne della Sardegna, i margini, le periferie (a dispetto della “politique politicienne”) ce la faranno, ce la faranno a sopravvivere all’incuria, all’abbandono, alla dimenticanza, all’arroganza di certo, decrepito, potere.

Serve, per questo, una politica commossa per i paesi e per le aree interne; di più: serve una politica che si emoziona ai paesi e che costruisce alleanze fra le 377 comunità della Sardegna; una politica che favorisce l’alleanza fra le periferie rurali e le periferie urbane: i luoghi, cioè, dove si annidano oggi le nuove e le vecchie povertà.
Tutte le politiche di contrasto allo spopolamento sono, per definizione, politiche sperimentali. Non c’è nessuno – si diffidi sommamente di chi dichiara di avere la “ricetta” giusta – che abbia in tasca “la” soluzione.

Occorre, a mio avviso, una comprensione unitaria del fenomeno e servono soluzioni diversificate anche sui diversi territori: ciò che va bene in Gallura potrebbe non andar bene nel Goceano e viceversa.

Non c’è una sola medicina da inoculare alle comunità più deboli: non bastano i soli servizi pubblici locali, ma è fondamentale non disperderli o riguadagnarli: scuole, ospedali, trasporti, sicurezza pubblica; non è sufficiente solo una politica dell’accoglienza dei migranti, ma migranti possono rappresentare un elemento di crescita per le comunità; non bastano le politiche di contrasto alla denatalità, ma senza bambini non c’è futuro; la zona franca integrale forse non è un obiettivo perseguibile, ma studiare nelle aree più deboli delle zone franche rurali è fattibile e necessario per creare nuova occupazione e nuove imprese.

Le politiche di contrasto allo spopolamento devono utilizzare la tecnica del mosaico: ogni tessera al suo posto, ma al servizio di un disegno complessivo: condiviso e democratico.

Tuttavia, per comporre il mosaico, serve un nuovo umanesimo; un umanesimo che si commuove a salvare un paese, a salvare una comunità perché salvando un paese si sta salvando un pezzo fondamentale di Sardegna.

Per combattere lo spopolamento non serve una politica sifilitica, senza sentimenti, senza valori umani riconoscibili, elitaria, accucciata in attesa della prossima tornata elettorale, rannicchiata in posizione fetale. Serve una politica che si connette – anche sentimentalmente – col popolo e diviene forza di popolo perché sta dentro le comunità e le vive. Ne vive i drammi e le gioie e dice, con speranza, che i paesi non sono il passato della Sardegna, ma saranno il futuro. Un futuro da sperimentare adesso. Prima che sia davvero troppo tardi. ((scritto nel 2017)

——————————————————-

L’Europa orientale si sta spopolando ma nessuno se ne accorge 

Slavenka Drakulić

Quando a dicembre un’europarlamentare croata è diventata la nuova vicepresidente della Commissione europea per la democrazia e la demografia, molti sono rimasti perplessi, compresi i croati. Dubravka Šuica, ex sindaca di Dubrovnik, non è particolarmente famosa per il suo contributo nei due settori di cui dovrà occuparsi in futuro.

La nomina di Šuica appare ancora più paradossale se consideriamo che la Croazia è uno degli stati europei più colpiti dalla crisi demografica in corso in molti stati dell’Europa centrale e sudorientale. Il fatto che Šuica sia stata incaricata di affrontare il problema al livello europeo farebbe pensare che abbia fatto qualcosa di meritevole in questo campo al livello nazionale. E invece no. Al contrario, è come se Šuica non avesse mai sentito parlare di tutti i giovani croati che partono per l’Irlanda e la Germania, dei piccoli centri spopolati in Slavonia (dove una casa costa quanto un’automobile usata) o delle scuole vuote in tutto il paese, con quaranta classi scomparse soltanto nel 2019. Possiamo almeno presumere che sia a conoscenza dei dati ufficiali e non ufficiali sul calo della natalità (1,4 figli per donna) e sulle 200mila persone che hanno lasciato la Croazia nell’ultimo decennio?

È possibile che Šuica voglia risolvere la crisi mettendola in cima alle priorità europee mentre la Croazia occupa la presidenza di turno per i primi sei mesi del 2020? Sfortunatamente nulla lascia pensare che sia così.

In un articolo pubblicato di recente, il giornalista ed esperto di questioni balcaniche Tim Judah attira l’attenzione su alcune preoccupanti proiezioni demografiche: nel 2050, con il 22 per cento di abitanti in meno, la Croazia sarà un paese povero con una popolazione anziana e nessuno che possa sostenerla economicamente. Una magra consolazione è che la Croazia non è l’unica a trovarsi in cattive acque. Oggi più di venti milioni di persone, circa il 4 per cento della popolazione dell’Unione europea, vivono in uno stato diverso da quello in cui sono nate, e la percentuale continua a crescere. Nei prossimi decenni la Bulgaria perderà circa il 39 per cento della sua popolazione, seguita dalla Romania (30 per cento) e dalla Polonia (15 per cento). Tra i paesi che non fanno parte dell’Ue, Bosnia Erzegovina e Serbia perderanno circa un terzo della popolazione, l’Albania il 18 per cento.

Un fenomeno diverso dai precedenti
Lo spopolamento non è un fenomeno nuovo nella regione. All’inizio del diciannovesimo secolo si è verificata un’emigrazione di massa verso gli Stati Uniti, mentre tra la fine degli anni sessanta e gli anni settanta centinaia di migliaia di gastarbeiter (ospiti-lavoratori) hanno lasciato la Jugoslavia per spostarsi in Germania e in altri paesi dell’Europa occidentale, salvando in questo modo l’economia jugoslava. Anche se molti di loro non hanno mai fatto ritorno, l’equilibrio era preservato da un alto tasso di natalità. Ora la situazione è cambiata. Con le guerre dei primi anni novanta la Croazia ha perso più di 300mila abitanti tra vittime del conflitto, profughi ed emigranti. L’ultima ondata migratoria ha fatto il resto, portando la popolazione sotto i quattro milioni di abitanti.

Tuttavia il nuovo flusso migratorio intraeuropeo è diverso dai precedenti. Per la prima volta nella storia, infatti, quest’area del continente europeo assiste a una reale fuga dei cervelli. In precedenza a emigrare erano solitamente operai poco qualificati, mentre oggi sono i lavoratori più abili, dal famigerato “idraulico polacco” che ha terrorizzato la Francia qualche anno fa agli elettricisti, tecnici esperti e informatici di oggi. Il 32 per cento di questi cittadini europei in movimento (così vengono chiamati) è in possesso di una laurea, una percentuale senza precedenti. Oggi Romania e Bulgaria soffrono di una fortissima carenza di medici e infermieri specializzati. Il problema è talmente serio che un ex ministro romeno ha proposto di introdurre una legge che impedisca di emigrare per più di cinque anni.

Gli emigranti, tra l’altro, non partono più da soli, ma portano con sé le famiglie. Un chiaro segnale della loro intenzione di non tornare indietro. Anche le motivazioni sono diverse: secondo una serie di studi e ricerche le cause che spingono gli emigranti a partire non sono soltanto di natura economica, ma anche sociale, a cominciare dalla volontà di sfuggire alla corruzione e all’ingiustizia per crearsi un futuro migliore.

L’occidente compensa il calo della forza lavoro con l’immigrazione, mentre la Polonia accoglie molti ucraini. Per i piccoli paesi dell’est, invece, il problema è più serio: qui l’etnonazionalismo prevale e la paura della scomparsa di una nazione è molto forte. Per le persone che hanno vissuto il 1989 come la nascita di uno stato etnicamente omogeneo, gli immigrati dai paesi extraeuropei non sono un’opzione. Di conseguenza emerge la tentazione di limitare l’emigrazione. Il caso citato del ministro romeno non è affatto isolato: circa metà degli ungheresi e dei polacchi condivide la sua proposta, come sottolineano Stephen Holmes e Ivan Krastev nel loro recente libro The light that failed.

Finora le strategie statali si sono rivelate inefficaci perché i governi nazionalisti, sostenuti dalla chiesa cattolica e da quella ortodossa, continuano a fare appello al patriottismo della popolazione anziché soddisfare le necessità basilari dei giovani istruiti (come posti di lavoro e mutui agevolati) in modo da convincerli a restare in patria. In definitiva il problema non è così complesso: le persone resterebbero nel proprio paese se pensassero di avere un futuro per sé e per i loro figli. Ma questa è l’ultima preoccupazione dei governi, che preferiscono mentire e infrangere le promesse, alimentando in questo modo la sfiducia nella classe politica che a sua volta diventa l’ennesimo motivo per emigrare.

Davanti al calo delle nascite, un esempio di riforma efficace è quello della Finlandia, dove il ministro della sanità e degli affari sociali Aino-Kaisa Pekonen ha annunciato all’inizio del mese l’introduzione di un congedo parentale retribuito di sette mesi per ogni genitore. Ma un approccio simile non è proponibile in Europa orientale. In Croazia il governo ha creato recentemente un nuovo ministero della demografia, le politiche sociali e la gioventù per affrontare la crisi, ma il problema è che il ministero, anche mettendo a punto una serie di iniziative efficaci, non avrebbe i soldi per realizzarle.

In questo contesto la nuova vicepresidente per la democrazia e la demografia non può fare altro che ripetere le solite promesse vuote. Ci vorrà del tempo prima che Šuica e la Commissione europea si accorgano della rivoluzione demografica in corso nella vera Europa.

(Traduzione di Andrea Sparacino) – in collaborazione con VoxEurop.

12/3/2020 www.labottegadelbarbieri.org

 

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *