Scuola, lavoro e Costituzione

Perché investire nella scuola (nel modo appropriato) significa investire in maggior democrazia.

Senza la scuola, intesa come «comunità fatta di partecipazione, di reciprocità, di consapevolezza condivisa, semplicemente non esiste la società e non può esistere la democrazia”. La scuola, come disse Piero Calamandrei, è un organo vitale della democrazia in quanto è il complemento necessario del suffragio universale . La democrazia, infatti non si esaurisce nel riconoscere semplicemente il diritto di voto a tutti; se fosse così dovremmo riconoscere che tale sistema rischia di essere una democrazia apparente, in cui la strumentalizzazione dell’élite di un paese è altamente probabile; non sarebbe una democrazia effettiva ma “un caso di autocrazia e oligarchia in cui i protagonisti possono muovere la folla come un’arma“, in cui la mediocrità della gran parte è la strada per l’interesse e il potere di pochi, una democrazia dogmatica. In una democrazia non apparente ma progressiva e critica “il computo dei voti non è l’espressione del dominio della mediocrità, ma la manifestazione terminale di un lungo processo di formazione delle opinioni collettive in cui tutti hanno la possibilità di esercitare la loro influenza, massimamente coloro che hanno maggiori e migliori energie da destinare alla cura delle cose pubbliche”.

In questo “lungo processo di formazione” i cittadini diventano non soggetti passivi ma soggetti attivi, partecipi dell’organizzazione politica, capaci di iniziativa che fanno sentire la loro voce, non attraverso l’essere oggetto di sondaggi, ma diventando reale forza politica, prima attraverso l’acquisizione delle conoscenze e dei saperi necessari, poi attraverso lo scambio, il confronto, la discussione e la condivisione delle opinioni. Risulta evidente che in questo processo di formazione deve svolgere un ruolo essenziale l’istituzione scuola. È attraverso di essa che le nuove generazioni possono acquisire quelle conoscenze che permette loro di essere dei cittadini non in senso formale ma in senso sostanziale. “Le idee e le opinioni non nascono spontaneamente nel cervello di ogni singolo: hanno avuto un centro di formazione, di irradiazione, di diffusione, di persuasione” ; così, se fin dalla sua nascita nella scuola elementare , attraverso le nozioni di scienze naturali e le nozioni di diritti e doveri del cittadino si contrastano rispettivamente “la concezione magica del mondo e della natura che il bambino assorbe dall’ambiente impregnato di folclore e le tendenze alla barbarie individualistica e localistica, che è anch’essa un aspetto del folclore” – diffondendo così una concezione del mondo più moderna e in cui le leggi civili e statali sono un prodotto dell’attività umana, che sono cioè stabilite dall’uomo e che dall’uomo possono essere mutate per i fini del suo sviluppo collettivo – così oggi, attraverso uno studio critico e più consapevole delle varie discipline, la scuola può contribuire in modo decisivo a contrastare sia il senso comune, che vede solo l’apparenza dei fenomeni senza interrogarsi sulle dinamiche che sono dietro quei fenomeni, sia per contrastare quelle che sono oggi le idee dominanti, prodotte da una minoranza e fatte però diventare artificialmente anch’esse senso comune; idee che, falsificando la rappresentazione della realtà, mirano non all’interesse collettivo e alla tutela dei beni comuni, ma ad occultare determinati privilegi e contemporaneamente a nascondere i reali problemi e le contraddizioni che la società si trova a subire.

Ad esempio, l’introduzione del Diritto e dell’Economia in tutti gli indirizzi delle superiori, se studiate criticamente potrebbero mettere in luce il fatto che il tanto decantato libero mercato è una “mistificazione ideologica, con la quale il neoliberismo cerca di confermare la propria legittimità sociale, in un mondo nel quale la concorrenza sui prezzi è stata cancellata da tempo dalla travolgente diffusione dell’organizzazione e di pratiche oligopolistiche e lobbystiche” – e di cui ne abbiamo avuto una chiara esperienza di recente, in occasione degli aumenti dei prezzi delle risorse energetiche; potrebbero altresì diffondere la consapevolezza che le attuali pratiche di marketing e della pubblicità, diversamente dagli inizi, quando si limitavano ad esaltare le qualità del prodotto, oggi attraverso la loro trasformazione in targeting, non puntano semplicemente ad interagire con i gusti e i desideri del consumatore, ma piuttosto ad agire in modo da generarli e condizionarli direttamente, dando vita a quello che Shoshana Duboff ha giustamente definito il “capitalismo della sorveglianza”; potrebbero far riflettere su quali effetti provoca, sul reale processo decisionale nell’odierna democrazia rappresentativa, il fatto che ormai da tempo lo Stato nazionale ha perso gran parte della sua sovranità nel decidere gli obiettivi e gli strumenti della politica economica, perché questa sovranità è stata ceduta a organi sovranazionali della UE (le cui scelte però -più che essere influenzate dalla volontà popolare sembrano direttamente influenzate dalle lobby delle multinazionali) o perché fortemente influenzata dal contesto internazionale. Lo studio critico dell’economia potrebbe infine far diffondere la consapevolezza che ormai la grande finanza internazionale non serve più l’economia reale, ma sé stessa, con i nuovi protagonisti dell’economia che “fanno soldi semplicemente scambiando soldi” e trasformando così il capitalismo odierno in un enorme casinò.

Con una scuola che si pone all’altezza del compito che la Costituzione le attribuisce, si dà la possibilità alle nuove generazioni, non di ricevere un sapere preconfezionato, dogmatico e puramente nozionistico ma quella conoscenza e quella capacità critica che aiuta a comprendere la complessità della realtà odierna, che rappresenta la premessa necessaria per una qualsiasi prospettiva di cambiamento. Cioè di contribuire ad attuare quella che Piero Calamandrei chiama “vera democrazia”, cioè un sistema sociale nella quale “ogni cittadino deve essere in grado di esplicare senza ostacoli la sua personalità, contribuendo alla vita della comunità”, dove “non basta garantirgli teoricamente le libertà politiche ma dove occorre anche metterlo in condizione di servirsene praticamente”

In definitiva, investire maggiori risorse nella scuola pubblica significa contribuire ad aumentare la partecipazione democratica, cosa oggi diventata estremamente necessaria vista l’attuale crisi della democrazia rappresentativa. Ề necessario, quindi, investire nella scuola nel suo complesso e in particolare su quei soggetti che rappresentano il fulcro sulla quale far leva per poter realizzare un vero e proprio sviluppo del sistema dell’istruzione pubblica: gli insegnanti. Questo richiede però che si abbia una chiara consapevolezza dei peculiari caratteri del lavoro dell’insegnante, che, come tutte le attività che implicano dei “servizi alla persona”, presenta degli aspetti peculiari e contraddittori che il lavoro con connotazioni più materiali non ha.

Cos’è quella particolare attività produttiva che chiamiamo lavoro? perché è diventato sempre più difficile riprodurlo?

Per acquisire questa consapevolezza è però prima necessario aver chiaro cos’è il lavoro salariato, quali sono state le condizioni che nelle fasi storiche recenti hanno permesso la sua riproduzione e il suo sviluppo e perché oggi invece, nonostante la Costituzione affermi che è “il fondamento della Repubblica”, esso stia attraversando una crisi profonda che ha ripercussioni sull’intera società e dalla quale è diventato sempre più complicato uscirne. Secondo la visione di alcuni economisti più critici, questa è la conseguenza inevitabile del fatto che l’attività produttiva per come è venuta a configurarsi fino ad ora, non è più in grado di mediare un nuovo sviluppo. I nuovi bisogni che sono alla base di questo possibile nuovo sviluppo, per loro natura, non si presentano attraverso una nuova domanda, cioè non si esprimono in una nuova spesa. Essi, perciò, secondo questa impostazione, non possono essere soddisfatti riproducendo ed espandendo ulteriormente lavoro salariato, ma attraverso forme di attività superiori.
I bisogni, e la corrispondente attività produttiva che li soddisfa, assumono inevitabilmente una particolare forma sociale a seconda del grado di sviluppo raggiunto. Il bisogno espresso attraverso una domanda (denaro) è il bisogno di una generica attività nella quale è precluso qualsiasi elemento personale di chi la eroga e che perciò può essere erogata da chiunque ne abbia le capacità e persino da un congegno automatico che costa meno ed è anche più efficiente. Quindi, il bisogno formulato in forma monetaria e che può generare lavoro, se da un lato esso riproduce la reciproca dipendenza materiale dall’altra riproduce la reciproca indifferenza personale.

Il bisogno che viene formulato nell’ambito dei rapporti comunitari contiene invece la conferma del produttore in un suo particolare rapporto personale con colui il cui bisogno deve essere soddisfatto. Ad esempio, il figlio che chiede al padre di accompagnarlo con la sua auto: quest’ultimo non agisce in base al principio del tornaconto personale, descritto a suo tempo da A. Smith; la persona che si rivolge invece al conducente del taxi, si trova difronte un soggetto che fa valere il principio del tornaconto, infatti pretenderà di essere pagato. Nel prima caso non possiamo certo sostenere che il padre, mentre accompagna il figlio, “sta lavorando”, nel caso del tassista diremo invece certamente che “sta lavorando”. Così come per il genitore che gioca con il proprio figlio non dirà che questo per lui è “tempo di lavoro”, mentre se si rivolge a una baby sitter, e questa gioca con il bambino, questo per lei è sicuramente “tempo di lavoro”. La persona che compera offrendo denaro esprime il fatto che il suo bisogno nega l’esistenza di una comunità con colui che soddisfa il bisogno; con l’offerta di pagamento egli dichiara implicitamente che non c’è nessuna ragione personale che può spingere l’altro a fare per lui ciò che lui gli chiede di fare. Tra chi chiede e chi da c’è indifferenza reciproca mediata da un rapporto di denaro.

Il bisogno che permette di produrre lavoro non è il bisogno di una particolare attività di uno specifico essere umano ma di una astratta attività impersonale che, data questa caratteristica, può essere automatizzata e fatta svolgere a congegni meccanici o elettronici. In questo rapporto per chi eroga l’attività essa è un costo (e pretende perciò un pagamento) così come per chi paga che percepisce il prezzo come un costo (e pretende perciò l’attività). Vi è perciò una tendenza intrinseca alla riduzione dei costi e di conseguenza alla riduzione del lavoro.

Con l’organizzazione capitalistica della produzione le imprese di questa minimizzazione dei costi (e al contempo della massimizzazione dei ricavi) ne fanno il fulcro della loro pratica. Esse tendono pertanto (attraverso l’innovazione tecnologia) a rendere superflua parte della forza lavoro occupata (riduzione dei costi) e ad impiegarla in altri settori produttivi per massimizzare i ricavi. Quando però emerge una carenza strutturale della domanda esse, per evitare i costi che non si ripagherebbero (perdite) si asterranno dal fare nuovi investimenti con la conseguenza sul piano sociale di una disoccupazione crescente. Le imprese, infatti, in quanto soggetti privati con scopi privati, mettono in moto lavoro solo se garantisce loro una ricchezza oggettiva maggiore («plusvalore») di quella che viene consumata nel processo produttivo. Il denaro speso da loro non è usato come reddito ma come capitale, cioè per riprodursi (come capitale) e «figliare» altro denaro. Se gli investimenti non garantiscono questo maggiore plusvalore (i profitti) non vengono perciò messi in atto, anzi, nella fase di crisi, vengono ridotti, con l’inevitabile ulteriore aumento della disoccupazione.

Lo sviluppo garantito dallo Stato sociale

Attraverso l’intervento dello Stato, riconoscendo da un lato i diritti sociali inseriti nella carta costituzionale e attuando dall’altro lato le politiche keynesiane della spesa pubblica, viene garantita un’altra fase di grande sviluppo. Lo Stato con la spesa pubblica (in deficit) permette alla società di produrre al di là del rapporto di denaro, al di là del rapporto di scambio: compra forza-lavoro e risorse per soddisfare bisogni collettivi, espressi non nella forma della domanda ma in quella dei diritti sociali. E’ da sottolineare inoltre che, in questo modo, lo Stato agisce in maniera non solo redistributiva: usa il surplus generato dal settore privato, altrimenti inutilizzato, per finalità produttive alternative – cioè per soddisfare qui bisogni necessari che altrimenti, se lasciati all’interazione privata della domanda e dell’offerta, rimarrebbero del tutto insoddisfatti in quanto non garantirebbero un profitto – e nello stesso tempo riesce a far tornare risorse nel ciclo attraverso il quale si crea nuova ricchezza (moltiplicatore del reddito). Si può perciò affermare che “così si presenta una prima rozza forma di lavoro che è un’attività superiore rispetto al puro e semplice lavoro salariato capitalistico e alla semplice produzione di merci, appunto perché viene messa in moto da un intermediario (lo Stato) che, nonostante evochi l’attività attraverso il denaro, la fa poi erogare non già per imporre il pagamento di un valore equivalente, ma per la conferma dei cittadini come titolari di quelli che vengono considerati diritti sociali” e che sono inseriti nella prima parte della nostra Costituzione.

Si è trattato in pratica di un vero e proprio rivoluzionamento del modo di produrre e della creazione di nuove forze produttive. E tra queste va inclusa certamente quella particolare forza-lavoro, detta “classe media” costituita in gran parte dagli impiegati pubblici, i quali per più di un trentennio dopo la Seconda guerra mondiale hanno rappresentato gli unici produttori aggiuntivi rispetto alla struttura occupazionale del dopoguerra. Sono questi ultimi, specie nel settore della sanità e dell’istruzione, che hanno sperimentato, con l’enorme espansione del terziario dei servi, il lavoro non dominato dalle cose ma dalla consapevole mediazione fra persone. Una forza produttiva nuova, prodotta dal sistema del Welfare che di fatto ha accresciuto le capacità produttive sociali, e di cui una parte è stata definita da alcuni sociologi “ceti medi riflessivi”, proprio per mettere in evidenza l’approccio critico di questa classe ai problemi che con lo sviluppo la società è chiamata ad affrontare. I “lavoratori della conoscenza”, parte rilevante di questi “ceti medi riflessivi”, sono dunque il prodotto diretto dello sviluppo dello Stato sociale.

La Crisi dello Stato sociale.

Con l’affermarsi dello Stato sociale si è realizzato un enorme progresso ma, una volta che quel cambiamento ha prodotto i suoi effetti positivi, siamo entrati in una dimensione nuova dalla quale emergono problemi nuovi, conseguenti allo sviluppo realizzato, e che richiedono soluzioni nuove. Con lo sviluppo, proprio perché la domanda (cioè la richiesta di un bene o un servizio tramite una spesa in denaro) cresce meno che proporzionalmente rispetto al reddito, l’effetto moltiplicativo sul reddito della spesa pubblica si riduce (il moltiplicatore si riduce a livelli irrisori). Il deficit diventa perciò strutturale facendo aumentare il debito e aumentare del peso relativo della spesa pubblica sul PIL. Riemerge così la disoccupazione e comincia ad emergere la lamentela che «i soldi non ci sono» e viene ripetuta la litania “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità”.

In un primo momento le nuove problematiche sono state affrontate con le stesse ricette (keynesiane) [Es: il programma di governo del Premier laburista H. Wilson in Inghilterra, il programma del governo Mitterand in Francia, in Italia la legge 285/1977] che non producono più i risultati abituali. Da lì in poi viene attuata una sorta di restaurazione neoliberale con una serie di misure a carattere regressivo che hanno contribuito ad aggravare la disoccupazione e a precarizzare il lavoro.

La contraddizione insita nello sviluppo del lavoro salariato nel settore dei servizi.

Tra i vari cambiamenti strutturali intervenuti vi è sicuramente la distribuzione del lavoro tra i vari settori. Mentre l’insieme della forza lavoro impiegata nell’agricoltura e nell’industria copre ormai solo meno di un quarto della forza lavoro totale, e va sempre più calando, nel settore dei servizi copre ormai dal 70% all’80%. Ma cosa significa “fornire servizi”? Il lavoratore del settore dei servizi non produce cose destinate poi successivamente ad altri, ma svolge un’attività che mentre si svolge soddisfa immediatamente bisogni. Il valore d’uso cioè non è incorporato in un bene ma è direttamente contenuto nell’attività. In ogni caso, nel momento in cui recedono i rapporti di comunità e si diffonde il rapporto mercantile, tale attività per poter essere erogata da soggetti estranei alla comunità e assumere pertanto la forma sociale di lavoro, è necessaria la formulazione di una domanda da parte di coloro che li richiedono. Sono nate così le varie professioni salariate di insegnante, medico, infermiere, nurse, ecc. In questo modo si afferma la tendenza ad eliminare l’impronta personale di chi li eroga e del fatto che è l’attività di un particolare individuo, finendo per trattare il servizio come un qualsiasi procedimento impersonale a carattere industriale.

Ma i servizi non sono tutti uguali. Se questa spersonalizzazione in una prima fase non crea particolari problemi perché riguarda attività in cui l’elemento impersonale e materiale è prevalente (il bigliettaio, la cassiera, la dattilografa, il postino, ecc,) diventa problematica e contraddittoria per quelle attività in cui è invece prevalente la componente personale (il terapeuta, l’insegnante, l’educatore, il medico, ecc.,), in cui cioè è essenziale, per soddisfare il bisogno in modo efficace, la risposta umana e particolare del singolo soggetto che la eroga. Il primo tipo di attività, proprio perché ha connotazione prevalentemente materiale, subisce lo stesso destino dell’agricoltura e dell’industria; la tendenza cioè a ridurre i costi del processo produttivo farà sì che quelle attività siano via via sostituite da macchine (la macchinetta distributrice di biglietti sostituirà il bigliettaio, la cassa automatica la cassiera, la fotocopiatrice la dattilografa, il telefax o la posta elettronica il postino). Per il secondo tipo di attività la spersonalizzazione ha un esito inevitabilmente contraddittorio perché la sua caratteristica intrinseca che la rende capace di soddisfare il bisogno è proprio quella della particolarità e soggettività di chi la eroga. Si finirebbe per trattare come non umana un’attività che è invece essenzialmente umana, un’attività costituita da un insieme ricco e complesso di forze non riducibile a qualcosa di semplice ed astratto e coerente con la ricchezza e la complessità del bisogno verso cui è diretta. Il terapeuta così non può essere sostituito dal farmaco psicotropo, l’insegnante non può essere sostituito da un’applicazione (e come sappiamo tutti, in alcuni casi, nemmeno da un altro insegnante perché “gli insegnanti non sono tutti uguali”), il medico non può essere sostituito da un robot, ecc..

Cercare di soddisfare il bisogno semplificando e spersonalizzando tale attività crea un corto circuito all’interno del rapporto, facendo sì che l’attività alla fine sia inadeguata a soddisfare il bisogno. E’ per questo che da qualche decennio anche nel settore dei servizi è diventato molto complicato riprodurre il lavoro, così come è diventato illusorio tentare di rendere più “efficiente” ed adeguato il servizio ricorrendo a forme di incentivi che vanno a premiare il cosiddetto “merito” del singolo.

Del resto, la contraddittorietà e l’inadeguatezza di un’attività che viene resa impersonale e oggettiva prescindendo dalla particolarità dei soggetti in relazione risulta evidente proprio nella relazione educativa tra docente e alunno. Il processo di apprendimento, fatto di acquisizione e rielaborazione di saperi al fine di contribuire anche allo sviluppo del pensiero critico, è possibile infatti solo in un rapporto di comunità, in cui le relazioni tra i soggetti risultano vive e feconde se sono dirette ed immediate, in cui la strumentazione tecnologica può essere sì un utile supporto, sussunto alla relazione stessa, ma non può certo sovrastare, o addirittura sostituire, la relazione stessa (diversamente da come qualcuno ha ipotizzato durante i mesi della DAD). Anzi proprio durante la DAD, l’idea che la trasmissione delle conoscenze sia solo un fatto tecnico nella quale la soggettività delle persone non gioca nessun ruolo essenziale ha mostrato tutti i suoi limiti.

Bisogna prendere coscienza invece di quanto la ricerca scientifica ha già da tempo acquisito e cioè che non esiste livello dell’apprendimento nel quale la soggettività non giochi un ruolo essenziale e immediato e che quindi non si può ridurre l’apprendimento all’acquisizione di una tecnica; esso è sempre ed inevitabilmente un particolare rapporto tra chi ha prodotto conoscenza, chi media il contatto e chi impara. Per evitare lo svuotamento di senso delle varie discipline e la pietrificazione dei saperi nei manuali scolastici, la trasmissione delle conoscenze, che vede coinvolte le nuove generazioni e quelle che sono portatrici del sapere accumulato, deve avvenire pertanto in un rapporto dinamico fondato sulle reciproche individualità, cioè sulle particolari esperienze dei soggetti coinvolti.

Le azioni sindacali prioritarie.

Se si tiene conto di queste considerazioni, l’azione sindacale non può non essere orientata a contrastare quei provvedimenti (come, ad esempio, quello relativo al cosiddetto “docente esperto” e i prossimi che la nuova denominazione del ministero prefigura) che essendo finalizzati a premiare economicamente, secondo l’ideologia del merito e del tornaconto personale, i pochi docenti “bravi”, finiscono per provocare quel corto circuito relazionale di cui sopra. Questi provvedimenti, infatti, essendo basati sulla competizione tra singoli che operano nell’indifferenza reciproca, entrano in contraddizione con quella che dovrebbe essere la “comunità educante”, producendo gravi conseguenze negative proprio sul piano della soddisfazione dei bisogni, alla quale l’apprendimento è finalizzato.

Se questa analisi è corretta, l’azione sindacale per essere adeguata (e in coerenza con la seconda azione del primo documento congressuale CGIL), deve perseguire in primis una riduzione e una redistribuzione del lavoro (che per il lavoratore della conoscenza è in buona parte il lavoro fatto al di fuori delle ore di insegnamento frontale) senza diminuzioni di salario, attraverso una forte riduzione del numero di alunni per classe. In questo modo si potrebbe liberare spazio per una attività più libera e più coerente con la soggettività di chi la eroga e con i bisogni di coloro a cui è diretta.

Nello stesso tempo (coerentemente con la prima azione prioritaria del primo documento congressuale CGIL) cercare di conseguire un consistente aumento dei salari in quanto questi, essendo la forma sociale che permette di partecipare all’appropriazione della ricchezza prodotta, permettono alla forza-lavoro della conoscenza di riprodursi e svilupparsi al livello adeguato delle attuali condizioni socioeconomiche. In coerenza con quanto stabilisce la Costituzione che all’art. 36 afferma che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Saverio Catalano

Sindacalista della CGIL di Lecco

29/12/2022

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