Se, se, se ……… Ichino dicesse la verità. Il “quadro” è questo. L’unica consolazione è rappresentata dal fatto che manca poco all’accertamento della verità. Sapremo, allora, chi è “portatore di verità” e chi, invece, continua a “manipolare la verità”; mentendo sapendo di mentire!

Sarebbe veramente molto bello, roba da non crederci, se quello che Pietro Ichino sostiene nel suo ultimo editoriale: “Se la vecchia sinistra guardasse dentro la riforma del lavoro”, rappresentasse la verità.

Certo, conoscendo bene il soggetto e lo strenuo impegno che incessantemente dedica a sostegno delle ragioni e degli interessi di “altri” – non certo dei lavoratori – esiste il concreto rischio di “coltivare illusioni”!

In sostanza, come da (monotona) prassi, ormai consolidatasi, il maggiore dei fratelli Ichino – non quello che ieri prospettava il superamento dei c.d. “scatti di anzianità” e un (significativo) aumento delle tasse d’iscrizione all’Università, mentre oggi propone programmi scolastici “a la carte”, attraverso i quali “Ciascuno studente costruisca il proprio mix ideale di conoscenze umanistiche, scientifiche e tecniche” – si produce nell’esaltazione della “delega per il lavoro” di Renzi.

Di qui, una serie di (rosee) ipotesi di riforma del MdL.

A cominciare dalla riforma dell’art. 2094 del c.c. (peraltro opportuna e auspicabile; da anni richiesta dalla Cgil) e dall’incremento delle assunzioni a tempo indeterminato, fino ad arrivare a un’assicurazione contro la disoccupazione veramente “universale”; addirittura, “allineata” agli standard europei!

Il punto dolente è che Renzi mostra di avere tutt’altro disegno. D’altra parte, la stessa filastrocca di Ichino si svolge tutta all’insegna del cauto esordio: “ Ipotizziamo che la riforma rechi nuove norme capaci di ……….. ”. Un’apoteosi della speranza, quindi, più che una meditata analisi!

Solo speranze che, purtroppo, di là dalle indulgenti ipotesi dell’ex senatore Pd, sembrano destinate a naufragare di fronte alla realtà degli effetti concreti del Jobs (acronimo di: Jumpstart Our Businesses) Act.

In questo senso, alcuni tra i più autorevoli studiosi ed esperti della materia – da considerare almeno allo stesso livello di Pietro Ichino – hanno affermato, senza necessità di ricorrere ad alcuna cautela, di ritrovarsi di fronte a: “Le pillole amare del Jobs Act” (Andrea Fumagalli, “Internazionale”, del 21 novembre 2014), se non agli: ” Effetti nefasti del Jobs Act” (Luciano Gallino, “La Repubblica”, del 18 novembre 2014).

Gallino, in particolare, ritiene che la prima (nefasta) conseguenza del Jobs Act sarà la liquidazione di fatto dei Ccnl, in attesa di una legge – pare rinviata a gennaio – “Che ne sancisca sul piano formale, la definitiva insignificanza rispetto alla contrattazione aziendale e territoriale”. Già nel corso degli ultimi venti/venticinque anni, “A causa dell’indebolimento del “peso” della contrattazione collettiva, la quota “salari” sul Pil è precipitata; dal 62 per cento del 1990 al 55 del 2013”!

A parere di Gallino, “Questo spostamento di reddito dal lavoro ai profitti e alle rendite ha pure contribuito alla contrazione della domanda interna”.

Mi chiedo: ma seriamente Renzi pensava di dare impulso alla domanda interna con la “regalia” degli 80 € a una minoranza di lavoratori italiani (solo i subordinati) che, colmo dell’ironia e, direi, danno dopo la beffa, gliene restituiranno ben di più in sede di dichiarazione dei redditi?

Tornando al Jobs Act: Gallino sostiene che, in virtù delle norme previste, aumenteranno le disuguaglianze tra gli stessi lavoratori – oltre che tra questi e le classi possidenti – perché “La possibilità di accordi locali anche in tema di salari produrrà lo scontato effetto di un’ulteriore riduzione degli stessi”; altro che le ipotesi di Ichino!

Tra l’altro, restando al tema, “Alle disuguaglianze di reddito tra un’azienda (più florida) e l’altra, a parità di lavoro, si aggiungeranno quelle territoriali, quelle che un tempo il cnl doveva servire a superare, stabilendo quanto meno una base salariale per tutti”.

A questo riguardo, qualcuno ricorda le c.d. “gabbie salariali”? Se non direttamente con quelle vigenti negli anni ’60, ci si può rinfrescare la memoria anche attraverso i contenuti del famoso “Libro bianco” di Maroni, Sacconi e Biagi.

Infatti, solo chi si rifugia tra le comodità delle “ipotesi”, per evitare di affrontare “il merito” della realtà, può, infatti, dimenticare che quel testo del 2001 – ancora opportunamente, a mio parere, da considerare “limaccioso”, come lo definì all’epoca il Segretario Generale della Cgil – conteneva un preciso riferimento all’esigenza di realizzare salari differenziati su basi territoriali.

Inoltre, secondo Gallino, il Jobs Act, in continuità con i precedenti governi, che “Hanno consentito un ricorso indiscriminato al precariato, evitando di impegnarsi in qualsiasi azione che assomigli a una politica industriale e contribuendo a mantenere le imprese italiane nella condizione di ultime della classe, offre alle stesse un aiuto per mantenersi in tale posizione”. “Si può, infatti, essere certi – altro che le “ipotesi” di Ichino – che ove la legge permetta loro di pagare salari da poveri, quattro imprese su cinque utilizzeranno tale facilitazione e non spenderanno un euro in più per ricerca, sviluppo e investimenti, rinnovo degli impianti e innovazioni”.

Fumagalli, invece, considera “uno specchietto per le allodole” il c. d. “Contratto di lavoro a tutele crescenti”. Tra l’altro, poiché “Non si dice se tale tipo di contratto andrà a eliminare quelli in essere, esso si aggiungerebbe alla normativa già esistente; finendo per rappresentare uno dei tre principali segmenti cui, attraverso il Jobs Act (atto I e atto II, secondo la sua definizione), si tenta di ridurre il MdL italiano”.

In sostanza, Fumagalli immagina che i tre segmenti sarebbero rappresentati:

1)    Dal contratto a termine (CTD) <acausale>, che “Diventerebbe il contratto <standard> per tutti/e, dai 30 anni alla pensione. Tale contratto, basato su un rapporto individuale, ricattabile e subordinato deve diventare il contratto di riferimento, in grado di sostituire per obsolescenza il contratto a tempo indeterminato. A tale contratto si aggiungerebbe il contratto a tutele crescenti (presentato a mò di pannicello caldo), che verrebbe applicato a coloro che presentano livelli di professionalità medio-alti”.

2)    “Per i giovani con minore qualifica, l’ingresso nel mercato del lavoro diventa l’apprendistato, ora trasformato, in seguito alle <innovazioni> introdotte dal Jobs Act (atto I) in semplice contratto d’inserimento a bassi salari (- 30 per cento) e minori oneri per l’impresa”.

3)    “Per i giovani under 29 che invece hanno qualifica medio-alta (master di I e II livello), entra in azione il piano <Garanzia giovani>, che, utilizzando i fondi europei del progetto 2020, intende definire una piattaforma per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, in cui si delineano tre percorsi d’inserimento al lavoro – servizio civile (gratuito), stage (semi gratuito) e lavoro volontario (altrettanto gratuito) – in attesa di poter essere poi assunti con il CTD o, prossimamente, con il Contratto a tutele crescenti”!

Senza dimenticare, aggiungo, la possibilità di ricorrere ancora alla parasubordinazione e al lavoro autonomo; da anni divenuti la “foglia di fico” di rapporti di lavoro che andrebbero, più correttamente, ricompresi tra il lavoro subordinato.

Personalmente, oltre che condividere le fosche previsioni (per i lavoratori) di Fumagalli, ritengo che il contratto di lavoro a tutele crescenti – nella versione Ichino, più ancora che nella Boeri/Garibaldi – meriti di essere considerato, più che uno specchietto per le allodole, una “trappola” tra quelle delle peggiori e più riprovevoli specie. Fosse anche per uno solo dei seguenti motivi:

1)    Non elimina alcuna delle tipologie contrattuali oggi vigenti grazie al “gran bazar” rappresentato dal 276/03;

2)    Si aggiunge, per poi sostituirlo completamente, all’attuale contratto di lavoro a tempo indeterminato;

3)    Rifuggendo dalle ipotesi e dai ”Come li vorrei”, conoscendo, anzi, vizi e virtù del datore di lavoro “medio” italiano, direi che esso prefigura un nuovo tipo di rapporto di lavoro a tempo determinato. Inteso non più nel senso della predisposizione “all’origine” di una data di scadenza – come nei rapporti a termine “classici” – quanto nel senso che al datore di lavoro è riconosciuta la facoltà, in assenza delle tutele di cui all’art. 18, di interrompere il rapporto in qualsiasi momento lo ritenga opportuno, senza alcuna conseguenza, se non quella dell’indennizzo. Un’altra, evidente e massiccia, dose di “precarietà” gratuita!

Il “quadro” è questo. L’unica consolazione è rappresentata dal fatto che manca poco all’accertamento della verità. Sapremo, allora, chi è “portatore di verità” e chi, invece, continua a “manipolare la verità”; mentendo sapendo di mentire!

 Renato Fioretti

Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

25/11/2014

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