Senza giardino

Passavano spesso dalla piazza, ma non amavano quella specie di sepolcro bianco, così bianco che era impossibile non vederlo anche nelle notti di nebbia più fitta.

Un gradino alto, come un sedile scomodo, e l’ala, l’ala spezzata del povero eroico aviatore, riconsegnato alla vita eterna in un calco di bronzo, costretto a starsene per sempre lì, in piedi, condannato a non aver pace né riposo. Che razza di monumento.

Troppo retorico, troppo bianco in quel paese, soffiato, come tanti della Romagna, in tinte delicate, in tonalità pastello disposte a spegnersi, a farsi da parte quando è buio, per dire alla gente: è ora, potete farvi i fatti vostri, finalmente. Potete sfilare nei portici poco illuminati e andare al diavolo, o a puttane.

Piazza Baracca no, un’isola nel fortunale, un faro che toglie intimità, e obbliga a esserci. Ma ci passavano sempre lo stesso per avere comunque in tasca un pugno di riserva, un pugno per lo stomaco nel silenzio, del loro normale disagio quotidiano. Qualcosa da dire.

Il mare non era lontano. Bologna nemmeno, e potevano chiedersi litigando dove era meglio andare. Anche se essere proprio nel cuore della scelta rendeva spesso difficile prendere una decisione, qualunque decisione.

Quella sera poi, a buttarli giù, c’erano le musiche di Natale e le canzoni di Natale, le canzoni che qualche commerciante intelligente faceva diffondere dagli altoparlanti piazzati chissà dove, ma piazzati bene, talmente bene che era impossibile non sentirli.

Atopia. Non siamo a Lugo, non siamo in Romagna, non siamo in Italia: non siamo in nessun luogo perché non c’è più nessun luogo in cui si può vivere, siamo tutti in un set, dobbiamo sentirci vivere in un varietà di mezza sera, ci sarà una telecamera da qualche parte, si accenderà un faro prima o poi e ci inquadreranno e ci faranno qualche domanda: si può partire dall’ala bianca e spezzata del povero eroico aviatore per arrivare in fretta ai regali di Natale, quel bel niente impacchettato e pieno di nastri che rovinano le forbici. Così aveva detto il fioraio. Ad arricciare tutti quei nastri le forbici duravano una settimana, poi non tagliavano più.

Ma secondo voi le forbici devono tagliare o arricciare i nastri? Che matti ci sono in questo paese. Si erano presi i fiori ed erano andati via ridendo. I fiori secchi, con un bel nastro rosso ben arricciato, che avevano voluto comprare per la sorella di Gancio. Bisognava convincerla in qualche modo ad andare a quella festa di Capodanno. Lei non ne voleva sapere, non erano alla sua altezza.

Chiesero un parere ad Aino, che suonava la chitarra seduto sul gradino più scomodo, con una bottiglia grande di birra vicino, chiuso il più possibile in un eskimo andato a male.

– Ma non hai freddo, Aino, a stare qui tutto il giorno a suonare?

– Nick Drake. Non ho freddo se suono Nick Drake…

– E se bevi la birra – gli risposero.

Aino sembrava che stesse lì da quasi un anno, nello stesso angolo, tutti i giorni tante ore al giorno, a suonare quella chitarra scordata, a canticchiare a bassa voce, a ripetere le stesse storie con la sua pronuncia di ragazzone tedesco mal ridotto, mal riuscito. A lui piaceva quella piazza, quel monumento. L’ala bianca spezzata.

– Bella bellissima – diceva.

– Sempre Nick Drake – disse Cipriano, – non sai suonare qualcosa di più allegro?

Allora Aino posò la chitarra e disse di sì. Potevano stare zitti e ascoltare: quello era più allegro di Nick Drake. Stettero zitti un minuto, due, perché con Aino non si scherzava. Se si arrabbiava davvero, diventava violento. Chissà quanta birra aveva già in corpo a quell’ora. Stettero zitti e sentirono un ronzio che prendeva forma, un soffio che diventava riconoscibile fino a sembrare una musica, una musica dolce; un’onda sempre più forte, più chiara. Gli altoparlanti dei commercianti. Canzoni americane di Natale. Bing Crosby, gli archi di Ray Conniff, come se il rock’n’roll non fosse mai stato inventato.

– Va bene così, Ciprihano? – chiese Aino aspirando un’acca inesistente.

– Nick Drake – dissero gli altri due, – Nick Drake -, ma Aino non aveva più voglia di suonare e cominciò a raccontare di quando a Los Angeles aveva conosciuto Nick Drake e di quando in Svizzera aveva offerto uno spino a Frank Zappa. Non c’era più niente da fare. Provarono a fermarlo coi fiori, chiedendogli qualcosa dei fiori. Vanno bene per invitare una ragazza a una festa di Capodanno? Aino bevve un lungo sorso di birra, prese il mazzo, lo guardò e lo buttò via.

– Tu non capisci niente. Lo sai cosa vuol dire il mio nome?

E si lanciò in un’etimologia alcolica ed immaginaria del suo nome. Voleva dire, “Aino”: senza giardino. “Enrico” voleva dire “ricco di giardino, “Aino” voleva dire: senza giardino.

– Mio padre mi ha voluto chiamare così, e io non ho giardino, non ho casa, non ragazze né feste. Io sono libero.

– Sei un gran poveraccio di un cazzo, Aino, tu non hai proprio un cazzo di niente.

– Io non ho giardino, sono libero. I fiori non sono niente, non puoi comprare niente coi fiori secchi del giardino, non la libertà…

Gli lasciarono mille lire e andarono a recuperare il loro mazzo di fiori, mentre lui aveva ricominciato a suonare e a soffiare via la musica degli altoparlanti. Sempre Nick Drake, però: certo, un po’ triste.

Gancio si infilò nella macchina di Cipriano e gli mise subito sotto gli occhi la bottiglia di whiskey. Meglio di niente. Di sua sorella neanche l’ombra. Aveva avuto una valanga di inviti e forse avrebbe girato quattro o cinque feste, sarebbe andata al mare o a Bologna, ma con loro no, niente da fare.

L’aria si era scaldata negli ultimi giorni, e tutti i vecchi del paese, genitori compresi, andavano ripetendo come ossessionati che quella era aria da neve, che sarebbe nevicato presto, nel giro di qualche giorno. Cipriano partì di malumore, spingendo sul gas e maledicendo le donne, ma non sapeva bene da che parte andare per far venire le undici. Chiese a Gancio un sorso sperando che le idee gli si chiarissero. Cominciò a ragionare davvero solo al quinto bar, quando riuscì miracolosamente a trovare le parole per spiegare a Gancio quello che pensava di sua sorella. Diceva cose che a Gancio facevano male, anche se riusciva ad ascoltarle per amicizia. Parlava veloce e fitto, ma ogni tanto si incantava e ripeteva una frase del genere: «Non può trattarmi così, non può… Non può trattarmi così, dopo quello che abbiamo fatto insieme…»

In quell’ultimo bar, all’improvviso, scoppiarono delle voci dal fumo della sala; un tizio alto e biondo si alzò in piedi e buttò il suo bicchiere contro il muro. Il bicchiere si ruppe e il liquido scuro cominciò a scorrere sulla parete, rigandola con righe intrecciate e irregolari. Guardando quelle linee Gancio fu costretto a vedere anche un’ombra che si spostava velocemente; si girò e si trovò vicino al barista che teneva un uomo per il bavero del montone e poi lo spingeva, lo spingeva verso l’uscita, e con le ginocchia gli dava dei calci in mezzo alle gambe. L’uomo del bicchiere aveva perso gli occhiali, qualcuno li pestò. In un attimo furono fuori dal bar e tutti uscirono con loro nel parcheggio, per non perdere il finale, il finale della scena. Tutti, tranne Gancio e Cipriano che rimasero dentro, zitti. Dietro al loro tavolo un televisore immenso proponeva un numero di magia: il mago, attorniato da ballerine, stava facendo uscire dei fiori secchi da un bastone.

Si erano accorti in ritardo di quanto tempo era passato. Filarono via veloci con la macchina verso il centro, dando sorsi alla bottiglia mezza vuota. Arrivarono in paese a mezzanotte meno cinque e parcheggiarono davanti a casa di Amos, dove doveva esserci la loro festa. Sui campanelli un post-it giallo diceva che li avevano aspettati anche troppo, che andavano forse di qua, forse di là, forse al mare o a Bologna, dove c’erano delle feste piene di ragazze, e dove forse c’era anche la Carla, la sorella di Gancio, la più bella del paese che se li prendeva tutti e li lasciava tutti in mezzo alla strada. Poi scoppiarono delle bottiglie in un silenzio innaturale, come una guerra vicina e irraggiungibile per potersi appena immaginare la paura, la solitudine e il freddo. Non era la guerra, era solo la notte di Capodanno, ma con la paura non si scherza e quando viene viene, anche se non si sa perché. Soprattutto. Era un viottolo quasi di campagna quello dove stava Amos, con case piccole e basse. Guardarono verso il cielo. Prima di quel blu cupo e stellato che prometteva neve, volando come sempre basso con gli occhi, videro tante luci azzurre dietro le tende, sentirono delle voci, un ronzio continuo. Bing Crosby o roba del genere. La stessa sensazione di un’orchestra che a sipario chiuso accorda gli strumenti per affrontare un’ouverture. Si trovarono perfettamente, miracolosamente soli, senza amici, senza donne, senza mondo, senza giardino. Ma con quelle stelle, più lontane e misteriose delle luci azzurre delle tende. Rimaneva sempre il loro whiskey. Se lo passarono.

– Buon anno Cipriano – disse Gancio.

Saranno state le due, per una notte di Capodanno non è tardi, è appena l’inizio. Avevano bevuto molto. Così Cipriano propose di tornare per l’ennesima volta in centro e adesso guidava lento, non aveva fretta, non voleva andare in nessun posto, non aveva nessun posto dove andare.

Prima la punta dell’ala, l’ala bianca spezzat, poi delle voci troppo forti, delle urla e dei rumori strani. Mentre si avvicinano a Piazza Baracca i loro occhi furono feriti da dei lampi vaganti, tra la terra e il cielo, luci bianche, fortissime, che si muovevano vorticosamente lacerando la compattezza della notte. Che poi si spensero tutte insieme. E le risate e il rumore di due o tre macchine che partivano sgommando. Fu lì che l’effetto di tutto quel liquore passò come per magia: erano svegli, sveglissimi, mai stati così svegli e all’erta. Gancio aprì il finestrino per fare entrare l’aria, l’aria fredda della notte che però non era così fredda come avrebbe dovuto essere, che prometteva neve. Si fermarono davanti ai gradini. Cipriano frenò dolcemente anche se il cuore gli batteva forte perché aveva già capito e pensava:

– Non possono fargli questo, non possono…

La bottiglia della birra era rotta, qualcuno l’aveva impugnata dalla parte dell’imboccatura e l’aveva spezzata. Per farne un’arma. Aino era seduto ancora lì, chiuso il più possibile nel suo eskimo andato a male. Dalla guancia destra gli scendeva una striscia rossa, lunga e complicata, fatta tutta di gocce che s’inventavano dei viaggi irregolari, intrecciati, che arrivavano alla sua bocca, a mescolarsi con delle lacrime. La bocca tremava e si beveva tutto, sangue, lacrime, resti di birra. Aveva un’occhio sfondato e uno zigomo nero. Vicino a lui la chitarra. Il manico lontano dalla cassa, e le corde che non ce la facevano più a tenere insieme quel disastro. La cassa era schiacciata, bucata da un tacco femminile. Aino piangeva, senza urlare. Piangeva di paura ma senza rumore, come fanno forse quelli che vivono in un mondo in guerra e non urlano solo per non far capire che non sono ancora morti, solo perché gli altri non tornino a finirli. faceva proprio fatica a non singhiozzare, ma non singhiozzava, piangeva e basta. Trovò anche la forza di dire – Buon hanno -, con quel cazzo di accento tedesco insopportabile che in tutti i turisti della riviera sembra così arrogante e in lui sembrava sempre così fragile, così gentile.

Claudio Lolli

31/12/2017

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