Senza rivolta il pacifismo è sconfitto

La guerra definisce l’ambiente ideale per produrre nuovi fascismi e per cancellare ogni istanza di liberazione. Basterebbe questo per lottare per la «pace costituente» di cui parla Raúl Sánchez Cedillo con Pablo Iglesias

E sta Guerra No Termina En Ucrania. Il titolo del nuovo libro di Raúl Sánchez Cedillo suona senz’altro come una prospettiva cupa sulle ricadute internazionali della guerra russa.

Nel libro – che è uscito in spagnolo e tedesco e presto verrà tradotto in inglese – il filosofo e attivista descrive l’ascesa di una nuova logica politica che chiama «regime di guerra». Sánchez Cedillo individua parallelismi tra il bagno di sangue in Ucraina e la competizione interimperialista che portò alla Prima guerra mondiale, compreso il suo effetto nel generare il fascismo. L’autore mette in guardia anche contro una visione «apocalittica» del conflitto, insistendo invece sul fatto che abbiamo bisogno di un’azione collettiva e globale per la pace.

Il cofondatore di Podemos, Pablo Iglesias, che ha definito Sánchez Cedillo «uno dei più importanti analisti politici in Spagna», lo ha intervistato sul libro, sul significato del «regime di guerra» e sul motivo per cui la sinistra fatica a reagire in questa fase.

Cosa ti ha portato a scrivere questo libro?

Stavo scrivendo alcuni articoli sull’invasione russa dell’Ucraina e alcuni editor di Katakrak – l’editore spagnolo – hanno suggerito di espanderli in un libro. Era estremamente importante per me scrivere di un conflitto che, con ogni probabilità, segnerà il resto del secolo, anche se non sappiamo ancora esattamente come. Ma di una cosa possiamo essere certi: senza un’insurrezione politica e sociale di vasta portata in Europa, le cose andranno male.

Buona parte del problema è che nulla può essere escluso davvero. C’è un’escalation militare tra i blocchi che hanno non solo armi nucleari, ma anche enormi depositi di mezzi convenzionali e biologici per causare danni, capaci di distruzione su scala inimmaginabile. Più a lungo durerà questa guerra, più favorirà ulteriori sviluppi di autoritarismo e/o fascismo. Come se non bastasse, tutto ciò sta accadendo nel bel mezzo di una crisi energetica, in un momento di crescita delle migrazioni in risposta alle condizioni meteorologiche estreme causate dal riscaldamento globale, e mentre le persone fuggono da guerra, fame, desertificazione e carenza di acqua potabile.

Potrebbe sembrare che io stia cadendo nel panico catastrofico frutto del pregiudizio eurocentrico. Dopo decenni passati a guardare le guerre svolgersi da una distanza di sicurezza, gli europei adesso devono rapidamente fare i conti con una guerra scoppiata nel mezzo del nostro continente: non solo una guerra convenzionale, ma ibrida che comprende guerra dell’informazione, sabotaggio infrastrutturale e, circa sessant’anni dopo la crisi dei missili cubani, il ritorno della retorica nucleare. Ma questa posizione catastrofista non è la mia posizione. Niente affatto.

È già da tempo che il sistema mondiale capitalista è entrato in quella che Giovanni Arrighi e Beverly Silver hanno definito una fase di caos sistemico. Dal loro punto di vista, questa trasformazione è stata messa in moto dal progressivo declino dell’egemonia statunitense dopo il 1945, un declino che non implica in alcun modo una perdita effettiva della posizione egemonica. Gli Stati uniti hanno il più grande disavanzo delle partite correnti del mondo. Dagli anni Ottanta hanno subito un crollo non solo della produzione industriale (manifattura), ma anche dello sviluppo umano, misurato dagli indicatori globali.

Allo stesso tempo, rimangono la più grande potenza militare del mondo senza paragoni. Gli Stati uniti gestiscono 750 basi militari in circa ottanta paesi. Determinano lo sviluppo dell’umanità attraverso il dominio del dollaro come valuta commerciale e di riserva più importante del mondo, e attraverso i ruoli che la Federal Reserve americana e Wall Street possono svolgere come i maggiori destinatari di avanzi delle partite correnti dei grandi paesi esportatori. Quando consideriamo queste realtà, diventa chiaro che l’esistenza degli Stati uniti come stato-nazione dipende in ultima analisi dal mantenimento di questa egemonia a tutti i costi.

Come se ciò non bastasse a causare il caos sistemico, dobbiamo anche considerare le turbolenze intorno al «picco del petrolio» e la caduta della redditività dell’estrattivismo energetico. Da un lato, è sempre più evidente che le risorse critiche, tra cui energia, cibo e materie prime, sono limitate. D’altra parte, lo spirito del capitalismo contemporaneo è modellato dal rifiuto psicopatico di questo fatto, incarnato in personaggi come Elon Musk, Mark Zuckerberg e Jeff Bezos.

A mio avviso, la vulnerabilità del sistema sanitario che si è manifestata durante la pandemia di Covid-19, insieme ai crescenti estremi climatici, rendono necessario andare oltre il concetto di Arrighi e Silver e parlare di una fase di caos ecosistemico. Che momento perfetto per lo scoppio di una guerra tra potenze nucleari, che coinvolga non solo i paesi europei ma l’intero pianeta! Questo è il motivo per cui il titolo del libro sostiene che questa guerra non finirà in Ucraina.

Il fatto brutale dell’invasione imperialista della Russia non può essere separato dal contesto più ampio. Ed è per questo che è ridicolo, se non irresponsabile, credere che l’intera faccenda possa essere intesa come una violazione delle Carte delle Nazioni unite e della Convenzione di Ginevra. Se consideriamo gli attori coinvolti e i loro rispettivi alleati, così come la stessa storia dell’Ucraina, dobbiamo presumere che quello che si sta svolgendo è l’inizio di una guerra mondiale dal centro dell’Europa, nel mezzo di una crisi sistemica ecologica e capitalista. Quindi, c’erano motivi urgenti più che sufficienti, credo, per scrivere questo tipo di libro.

Nel libro parli di un «regime di guerra». Cosa significa?

Mi riferisco fondamentalmente al dispiegamento di una divisione amico-nemico nelle operazioni governative, sia nazionali che internazionali. In altre parole, il regime di guerra viene applicato ai rapporti tra partiti e forze politiche, tra governi e lotte politiche e sociali, nei media e nei social network, e nel dominio della libertà di espressione, dei diritti di riunione e di manifestazione politica.

Nelle attività di governo e politiche, questa divisione amico-nemico implica l’elaborazione e la diffusione di narrazioni che accusano un nemico costruito come responsabile dell’aggravarsi della crisi sociale e delle sue conseguenze. Questo «nemico» è persino ritenuto responsabile di dure misure politiche che colpiscono intere popolazioni, che vanno dai tagli di bilancio e la soppressione dei salari alla sospensione degli obiettivi climatici, all’aumento dei finanziamenti militari e persino all’intervento militare.

Nel caso della Russia, ha meno senso parlare di un regime di guerra in questa forma. Dopo il crollo dell’Unione sovietica e il colpo di stato di Boris Eltsin, la lunga guerra in Cecenia è servita a consolidare il potere degli oligarchi e dei siloviki (ex membri delle forze di sicurezza e difesa sovietiche). Dopo l’annessione della Crimea e il sostegno alle «Repubbliche popolari» nel Donbass, è più corretto parlare di modifiche a un regime autoritario e militarizzato esistente che si sta rafforzando.

Per quanto riguarda i paesi dell’Unione europea, invece, l’instaurazione di un regime di guerra interrompe un periodo di incertezza rispetto all’ordinamento dominante. Ciò è sorto nel corso della pandemia e di fronte all’imminente crisi climatica, ma anche in relazione ad alcuni movimenti politici negli Stati uniti, tra cui Black Lives Matter, l’ondata femminista iniziata nel 2018, e movimenti di sindacalizzazione tra coalizioni multirazziali di lavoratori nelle società di logistica di vendita al dettaglio, servizi e piattaforme. In un certo senso, questa congiuntura recente può essere paragonata agli anni successivi alla crisi del 2008. Il neoliberismo e il suo regime di finanziarizzazione e creazione di profitti dal crescente indebitamento della classe media e operaia non apparivano più come inevitabili.

Ma rispetto agli anni successivi al 2008, la situazione oggi è più acuta. Gli effetti economici, sociali e psicologici della pandemia; i criminali ritardi nella decarbonizzazione; e, non meno importante, la crescita della destra razzista e nazionalista nei paesi membri dell’Ue minaccia non solo le istituzioni dell’Ue ma anche l’esistenza stessa dell’Unione europea. Tutto ciò ha dato impulso a politiche orientate al benessere sociale come il Green Deal europeo, il Recovery and Resilience Facility e i fondi NextGenerationEU, nonché le normative a livello Ue per i contratti di lavoro a tempo determinato, i salari minimi e il falso lavoro autonomo (lo status di libero professionista per le persone che sono di fatto dipendenti di aziende, pratica comune nei settori della logistica e dei servizi).

Esiste una relazione tra la posizione pro-militare, pro-confronto degli stati della Nato e nuovi annunci di soluzioni «dall’alto» alle contraddizioni sociali. Se non individuiamo questa connessione, non saremo in grado di resistere alla nuova ondata di austerità e autoritarismo promossa in nome di un progetto europeo che è stato preso in mano da oligarchi finanziari, corporativi, politici e mediatici. Questi attori danno la priorità alla guerra e allo stato di eccezione permanente rispetto a un New Deal per il presente, a qualsiasi tentativo di dialettica riformista tra movimenti sindacali, femministi, migranti, ambientalisti e Lgbtq che richiederebbe l’abbandono dell’accumulazione di capitale finanziario.

La risposta militarista dell’Ue all’invasione russa dell’Ucraina ha ridotto quasi a zero la probabilità di un vero percorso riformista nell’Ue. Al contrario, possiamo osservare un processo di federalizzazione fiscale, economica, militare e diplomatica [ad esempio rafforzare l’integrazione] nell’Ue. Ciò non cambia la struttura del potere finanziario e corporativo. Piuttosto, utilizza la Commissione europea per coordinare quel potere in modo centralizzato contro le tendenze centrifughe scatenate da una nuova ondata di austerità, essa stessa conseguenza dell’aumento dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve e della Banca centrale europea. Quest’ultima può essere intesa solo come una mossa oligarchica per porre fine a tutte le follie post-neoliberiste e socialiste che hanno preso forza nella depressione post-pandemia e con la necessità di decarbonizzazione.

In questo senso, non possiamo sottovalutare la strategia a lungo termine del Cremlino. C’è un’evidente affinità tra gli imperialisti reazionari del Cremlino e una parte della destra razzista e suprematista in Europa e negli Stati uniti. Ciò fa pensare che la destra trarrà vantaggio dall’esplosione di contraddizioni in atto, e ciò non sarà impedito dai valori ipocriti sostenuti dall’Ue. Come sappiamo, l’Ue non ha problemi a collaborare con la destra polacca – la cui posizione sul genere e sui diritti Lgbtq non è diversa dalla sua controparte russa, nonostante il suo ruolo storico di opposizione al Cremlino – o con attori del calibro del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.

Dedichi la prima parte del libro all’esame delle origini dell’attuale guerra nel contesto post-sovietico. E lì scrivi di discorsi che normalizzano le dinamiche di guerra in contesti sia militari che civili. Puoi dire di più su questo?

Nel discorso russo e bielorusso, ma anche in quello che nel libro chiamo «neostalinismo zombie» (in spagnolo rojipardo, ovvero rossobruno, riferito alle formazioni autoritarie di sinistra), l’invasione russa è considerata l’inevitabile esito della crescente aggressione da parte della Nato dal 2004. Secondo questa rappresentazione, il discorso di Vladimir Putin alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco nel febbraio 2007 serve come prova che il governo russo ha sempre avuto intenzioni pacifiche e che ha dato un avvertimento sufficiente su ciò che sarebbe potuto accadere se la Nato non avesse posto fine alla sua espansione e, se non fosse stato raggiunto un nuovo accordo sulla sicurezza che avrebbe garantito la neutralità di tutti i paesi confinanti con la Federazione Russa.

In questi discorsi, tutto segue un piano strategico degli Stati uniti per soffocare la già minima autonomia diplomatica ed economica dell’Ue, per indebolire un serio contendente nell’arena geopolitica globale e per aprire la strada al confronto strategico con la Cina. Naturalmente, questo discorso ha varie espressioni. Ad esempio, l’allucinato sostegno dell'[ex presidente boliviano] Evo Morales a Putin come «leader antimperialista», che in un certo senso si adatta a una sorta di realpolitik classica, dovrebbe essere distinto dal continuo cambiamento di forma delle posizioni rossobrune – che, per intenderci, incarnano un fascismo «di sinistra».

Questi ultimi rappresentano una convergenza degli affetti più risentiti, reazionari, razzisti e patriarcali dello stalinismo residuo tra generazioni vecchie e giovani, da un lato e, dall’altro, le posizioni nazional-rivoluzionarie e neo-comunitarie di persone come i il rappresentante francese dell’estrema destra, Alain de Benoist; il pensatore italiano di estrema destra «marxista» Diego Fusaro; e l’anticomunista russo Aleksandr Dugin, che è stato chiamato «il cervello di Putin».

Questa convergenza è caratterizzata da un’idea di civiltà che rappresenta la controparte simmetrica dei valori sposati da Ue e Stati uniti: la difesa della nazione, della tradizione, della classe operaia bianca e delle sue presunte radici linguistiche e culturali, della famiglia borghese e nozioni patriarcali di genere e sessualità, e l’idea che i migranti siano «masse» manipolate da «élite globaliste» che mirano a distruggere la nazione e la sua immaginaria classe operaia nazionale. C’è un legame terrificante tra l’anticomunismo palese di Putin, dei suoi oligarchi e siloviki, e lo stalinismo pro-polizia, militarista, patriarcale e paranoico del campo auto-identificato «antimperialista».

Rispetto a quello che Putin chiama il «collettivo occidentale», vediamo il rovescio della medaglia di quanto ho appena descritto. Come scrisse Bill Clinton sull’Alleanza atlantica poco dopo l’inizio della guerra: abbiamo fatto del nostro meglio per integrare la Russia nel club delle nazioni democratiche, ma si è rivelato impossibile. La Nato è un’organizzazione militare per la difesa delle democrazie liberali in Europa, e solo una potenza totalitaria potrebbe essere contraria alla sua espansione.

Dall’inizio della guerra in Europa ci sono stati tentativi di forgiare un nuovo blocco di potere tra il neoliberismo e l’eurocentrismo neocoloniale. Si tratta di un tentativo di riunire le formazioni borghesi-conservatrici e di orientamento atlantico dell’estrema destra – tra cui Giorgia Meloni e il partito spagnolo Vox – insieme ai socialdemocratici tradizionali e ai verdi contro le sfide emancipatrici provenienti dalle lotte socialiste, comuniste e anticoloniali, ma anche contro l’estrema destra filo-russa. Non è una sorpresa. La storia mostra che gli estremi dittatoriali vincono sempre in guerra e che esiste un’intimità dimostrabile tra neoliberismo, colonialismo e fascismo. Alla fine, i fascismi sono sempre la «soluzione provvisoria» preferita per i possidenti.

Scrivi che è la Prima guerra mondiale, non la Seconda, il confronto storico che ci permette di capire il presente politico e la guerra attuale. Perché?

L’uso di analogie di questo tipo comporta sempre problemi e trappole, quindi bisogna stare attenti. Per cominciare, le nostre orecchie dovrebbero drizzarsi quando sentiamo entrambe le parti dell’attuale guerra chiamarsi reciprocamente nazisti e totalitari. Putin è stato raffigurato come un Hitler dei giorni nostri, mentre Zelenskyj presumibilmente guida un governo che ha ereditato la sua ideologia dai nazisti e viene utilizzato da degenerate «élite globaliste» per sfondare e assediare la Russia.

Questa cannibalizzazione propagandistica della Seconda guerra mondiale rende difficile riconoscere alcuni aspetti del presente che diventano evidenti quando consideriamo la Prima guerra mondiale come confronto. Penso al conflitto tra blocchi imperialisti su un paese chiave, anch’esso indebolito da una guerra civile nel contesto di una guerra per l’indipendenza, che nella Prima guerra mondiale era la Serbia; lo sfondo di uno stato egemone, la Gran Bretagna, entrata in un periodo di declino; e la presenza di una potenza semiperiferica che lottava per un posto al centro del sistema mondiale, la Russia.

Ci sono ulteriori aspetti della Prima guerra mondiale che sono utili punti di riferimento per comprendere l’attuale guerra in Ucraina: l’arroganza morale con cui entrambe le parti trattano la guerra come una crociata di civiltà, e la simultanea frivolezza – o, per citare la caratterizzazione di Christopher Clark di le élite politiche nel 1914, il «sonnambulismo» – con cui chi è al potere promuove apertamente l’agitazione militare e chiede la vittoria incondizionata. Un’altra somiglianza può essere vista nell’attuale rappresentazione delle posizioni pacifiste come disfattiste e schierate con l’avversario. Logiche come questa erano operative anche durante la Prima guerra mondiale, nelle sospensioni superficiali del conflitto politico interno in nome della difesa nazionale. Le «tregue civili» dell’union sacrée in Francia e del Burgfrieden in Germania si basavano su partiti di sinistra che abbandonavano l’internazionalismo e la politica di classe, pur accettando di non opporsi al governo o chiamare a scioperare.

D’altra parte, l’analogia tra l’attuale guerra in Ucraina e la Seconda guerra mondiale basata su una lotta tra democrazia e fascismo o autoritarismo non regge. Purtroppo, dobbiamo riconoscere che le tendenze fasciste possono essere viste da entrambe le parti, in parti uguali.

La seconda parte del tuo libro descrive una correlazione tra il regime di guerra e le nuove forme di fascismo. Potresti approfondire?

Non c’è solo una correlazione, c’è una specie di causalità. O, almeno, una specie di effetto moltiplicatore o accelerante. È una premessa del libro e ne spiega anche l’urgenza. Nella Prima guerra mondiale per la prima volta intere economie e popolazioni si trasformarono in macchine da guerra finalizzate alla guerra militare e sociale. Trincee, armi chimiche, carri armati, proiettili e «tempeste d’acciaio» hanno segnato una fusione di energie sorte nella cultura politica europea e nella sua soggettività conservatrice, coloniale, patriarcale e militarista.

La traumatica «esperienza» della guerra e le conseguenze della sconfitta (nei casi della Germania e dell’Austria-Ungheria) catalizzano le passioni mortali e delle narrazioni di quella che è nota come la «rivoluzione conservatrice». Da qui nascono le forme fasciste. C’è un’intima relazione tra la guerra, le moderne macchine belliche e i loro effetti sui corpi e sulla soggettività. Nelle macchine da guerra, che possono essere di natura sia militare che sociale, c’è sempre il rischio che la guerra diventi assoluta. Gilles Deleuze e Félix Guattari lo hanno definito un «buco nero». Quando accade, diventa una sorta di emblema morale, fonte di valori, consegnare e incontrare la morte, anticipare e volere la catastrofe.

La guerra contemporanea è ibrida, non lineare e senza restrizioni. L’instaurazione di regimi di guerra crea un vasto ecotopo in cui possono prosperare i fascismi legati alle macchine militari, sociali e mediatiche/informative. Basterebbe questo come motivo sufficiente per fermare questa guerra. Il paradosso della propaganda di guerra è che pretende di combattere il totalitarismo e il fascismo mentre crea condizioni in cui nuove forme di fascismo possono fiorire.

Sostieni che il pacifismo dovrebbe diventare la forza chiave in un movimento sociale e politico in Europa. Ma oggi non vediamo nulla che si avvicini alle proteste contro la guerra esplose in tutto il continente nel 2003. Pensi che questo cambierà?

C’è qualcosa di inquietante e orribile nell’apatia del mainstream nei confronti dell’attuale escalation della guerra, sia prima che dopo l’invasione russa. Includo qui l’entusiasmo pro-militare della sinistra liberale sia in Europa che negli Stati uniti, che propaga il valore guerrafondaio della civiltà con arroganza morale. Questi fenomeni devono ancora essere analizzati. In Spagna, il movimento pacifista è stato a lungo una soggettività forte in quella che può essere definita la sinistra sociale, e quindi la sinistra politica. La lotta contro l’adesione alla Nato nei primi anni Ottanta ha dato vita a Izquierda Unida, la principale coalizione di partiti di sinistra nel paese.

Ancora più importante, questa lotta ha coinvolto le giovani generazioni nella politica del movimento sociale che, a partire dal 1989, ha intrapreso la campagna per porre fine al servizio militare obbligatorio. Infine, il movimento contro la guerra in Iraq è stato eticamente trasformativo per molti cittadini spagnoli. Ciò ha spianato la strada al governo Zapatero (di centro-sinistra) e al movimento democratico radicale noto come 15-M, che a sua volta ha portato, tra le altre cose, all’ingresso della sinistra nell’attuale governo di coalizione spagnolo. Allora perché non ora? E perché non in Spagna?

Permettetemi di sottolineare alcune cose che dovrebbero essere considerate, non separatamente ma nella loro interconnessione: la natura brutale dell’invasione russa e la sua performance mediatica; l’eccellente macchina di propaganda ucraino-statunitense e i suoi tentacoli sui social media; e il fatto che nessun partito di sinistra in Spagna, a eccezione di Podemos, parli della militarizzazione in corso nell’Ue. L’Ue, ovviamente, è il fornitore dei fondi che impediscono il collasso sociale.

Ci sono due fattori di fondamentale importanza. Per prima cosa, l’invasione russa ha spezzato la spina dorsale della sinistra. Ha diviso la sinistra e accelerato la trasformazione militarista sia delle fazioni filo-atlantiche che filo-russe. E in secondo luogo, questa vulnerabilità può essere compresa solo se teniamo presente la profonda depressione e l’angoscia che la gestione capitalista della pandemia di Covid-19 ha causato nella psiche globale, soprattutto rispetto a come percepiamo il valore della vita. Ora possiamo vedere la frustrazione, la vendetta e la paranoia che ne derivano, ma anche i tentativi di riconnettersi, guarire il corpo e salvare l’amore per il bene comune e la cooperazione contro l’assolutismo dei profitti, della proprietà e del potere capitalisti.

Lo sfondo di questo regime di guerra emergente è un capitalismo planetario i cui governanti guardano ora ai limiti della terra e della sua biosfera, un capitalismo pronto a intensificare ulteriormente l’austerità fiscale, con risultati che renderanno la vita difficile da sopportare per la maggior parte degli esseri umani. In questo contesto, la guerra si presenta ancora una volta come soluzione di contraddizioni sociali e politiche, come mezzo per imporre «l’ordine» sia all’interno che all’esterno. La resistenza alla guerra è inevitabile e penso che crescerà nei mesi a venire. Ma questo non significa che la resistenza si svilupperà come controforza offensiva.

La storia ci insegna che senza rivolta il pacifismo ha sempre perso la partita. Per questo propongo la «pace costituente» come orientamento politico pratico: un punto d’incontro in cui la resistenza contro la guerra, la disobbedienza, l’abbandono e il sabotaggio sono legati alle lotte sindacali, femministe, Lgbtq, anticoloniali, antifasciste ed ecologiste, come così come alle lotte per la salute pubblica e l’istruzione. Questo potrebbe essere un movimento molteplice ma convergente verso una rivolta capace di realizzare nuove forme di potere popolare. Il nostro obiettivo in Spagna è costruire una democrazia antifascista ed emancipatrice, rompendo i legami tra guerra, austerità, concentrazione della ricchezza e autoritarismo. Puntiamo a una repubblica confederale, qualcosa che è diventato possibile immaginare nel corso del movimento 15-M – qualcosa di nuovo e fattibile, non nostalgico. Qualcosa che le sinistre sociali e politiche finora non sono riuscite a creare.

Raúl Sánchez Cedillo è l’autore di Esta Guerra No Termina En Ucrania (Katakrak, 2022).

Pablo Iglesias è cofondatore di Podemos. Questo testo, tratto da Ctxt, è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.

29/3/2023 https://jacobinitalia.it

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