Sharing economy, il Medioevo ipertecnologico

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Togliamoci dai piedi quanti cacciano uno strilletto entusiasta ogni volta che si affaccia una nuova tecnologia, di modo che il rumore non ci distragga da quel dobbiamo intanto vedere, misurare, analizzare e infine capire. Togliamoci insomma dai piedi tutti quelli che ammanniscono una versionecolta” dell’istinto da gregge caratteristico di quanti fanno la fila per comprare l’ultimo modello della cosa che hanno già in tasca.

La sharing economy è stata fin qui probabilmente il tema più sfruttato da questi pubblicitari (forse) involontari del capitalismo reale: condividere un bene privato, farne fonte di utilità comune, guadagnarci entrambi qualcosa (io che lo metto a disposizione in termini di reddito, colui che lo usa in termini di risparmio)… cosa ci potrebbe essere di più progressista, evolutivo, quasi comunista?

Quel che scompare in questa immagine idilliaca (e falsificata) della sharing economyè il terzo soggetto, quello che non condivide proprio nulla e anzi prende da entrambi i “condivisori”: il proprietario della piattaforma che mette in comunicazione proprietario stabile e consumatore occasionale, aggirando ogni regolazione del mercato esistente (norme di sicurezza, salario, tasse, ecc).

Diciamolo subito: una reale e generalizzata condivisione dei beni (automobile, casa sfitta o temporaneamente vuota, fino al cibo cucinato e via immaginando) avrebbe colossali ricadute positive sullo stile di vita dell’umanità intera, con sostanziale riduzione della produzione di merci e di tutte le conseguenze a contorno (uso delle risorse non riproducibili, spreco, inquinamento, ecc). Le metropoli, solo per dirne una, diventerebbe luoghi più vivibili se il traffico automobilistico fosse drasticamente ridotto, se ogni automobile viaggiasse quasi piena. Il numero di abitazioni necessarie crollerebbe se quasi nessun appartamento fosse mai vuoto. La quantità di mobili, elettrodomestici, pentolame, ecc, sarebbe una frazione dell’attuale. Le relazioni sociali sarebbero meno stranianti se si cenasse quasi ogni giorno con altri, sconosciuti e sempre nuovi. E i costi complessivi scenderebbero in misura altrettanto drastica.

L’intoppo è tutto nella proprietà privata dei mezzi di produzione, distribuzione, circolazione e quindi anche di condivisione. Un intoppo che perverte il possibile in impossibile, il sufficiente in scarso, il benessere di tutti in povertà della maggioranza assoluta-

Il caso della sharing economy, per le numerose connessioni teoriche di questo modello di business, ha costretto persino un analista da quotidiani finanziari (Guido Salerno Aletta, su Milano Finanza) ad affrontare di petto il nodo principale, inducendolo a titolare il suo articolo La socializzazione dei beni del proletariato. Il capitalismo non sa più dove prendere quote di profitto, e le cerca in quello che ci ha già venduto (che dunque ha chiuso il ciclo dalla valorizzazione), chiedendoci anche del lavoro supplementare.

Clienti e “produttori” di questa sfera economica sono infatti quasi esclusivamente consumatori poveri, al massimo ceto medio che si va impoverendo. Gente costretta a cavar fuori qualche spicciolo in più da quel che ha già (auto, casa, capacità culinarie, ecc, in condizioni ovviamente tali da non provocare rifiuto nel potenziale “cliente”; insomma, un “usato presentabile”) e gente che deve risparmiare molto sulle proprie necessità (spostamenti, abitazione, ecc), per lavoro o per vacanza. Quel che si fa gratis tra amici, diventa a pagamento tra sconosciuti…

Il caso di partenza è naturalmente rappresentato dalla dura protesta dei tassisti, che ha messo davanti agli occhi di tutti una linea evolutiva del capitale che diventa socialmente devastante grazie alla virtù principale del capitalismo; o sviluppo tecnologico accelerato.

La conclusione a cui giunge Aletta può risultare sorprendente, ma ha certamente molte ragioni:

Mentre tra i comuni mortali trionfa la deprofessionalizzazione, la deidenfificazione e la decostruzione organizzativa, l’apice opposto diviene sempre più concentrato, stabile e pervasivo: feudalesimo, duro e puro.

Com’è possibile che l’avanzamento tecnologico produca un ritorno al Medioevo? Bisogna smettere di farsi distrarre dall’oggetto (la tecnologia, appunto) e concentrarsi sulle relazioni sociali generate dall’intreccio tra modo di produzione capitalistico e tecnologia. Sono questi rapporti sociali ad essere rimodellati (quasi) nei termini del mondo medioevale:

Oggi, in un assetto capitalistico e di libertà d’impresa, con la sharing economy tutto ciò che è privato, esclusivo ed individuale ritorna ad essere messo in comune, attraverso i nuovi strumenti di infeudamento rappresentati dalle piattaforme informatiche che organizzano le relazioni, dalle regole inviolabili alle pretese economiche, misurate in percentuale sul valore della prestazione o del lavoro svolto. E’ una forma di mezzadria esercitata addirittura sul bene altrui, una gabella, tale e quale quella pretesa dalla aristocrazia terriera di una volta.

E siamo al punto. Nella sharing economy capitalistica il mezzo di produzione è rappresentato dalla piattaforma che mette in rapporto, a livello mondiale, chi ha un bene da affittare e chi ha bisogno temporaneamente di quel bene. Più precisamente, quella piattaforma non produce alcun bene. È una struttura di informazione che lucra sulla reciproca non conoscenza tra i soggetti interessati (esattamente come le piattaforme per appuntamenti!), esigendo una percentuale arbitrariamente fissata. Persino le informazioni non sono prodotte dal gestore della piattaforma, ma dall’affittuario (numeri di telefono, mail, foto del bene, ecc). In questo senso, ha molto in comune con il signore medioevale, che pretendeva lavoro e una percentuale del prodotto su terreni formalmente “in comune”, sottoposti però  al proprio controllo militare.

Ma il progresso tecnologico non passa invano. Dunque la tragica relazione medioevale tra signore e servo non si ripete come farsa contemporanea. Per un verso i “signori delle piattaforme” sono infinitamente meno numerosi e fantascientificamente più irraggiungibii. Il loro potere non si fonda sulla forza ma sulla connessione: se te la taglio, tu perdi l’utilizzabilità del tuo bene come fonte di reddito e tu l’opportunità di godere a un prezzo inferiore a quello praticato sul “mercato regolato”, secondo le leggi dei singoli Stati. Teoricamente, la concorrenza tra “signori delle piattaforme” potrebbe produrre alternative sullo stesso terreno (auto,casa, ecc), dunque prezzi ancora più bassi (probabilmente non più tali da incentivare all’affitto temporaneo); nella pratica, è facile vedere una tendenza al monopolio mondiale (uno per l’auto in metropoli, uno per gli spostamenti a medio lunga percorrenza, uno per le case, uno per i b&b, ecc), appena limitato da altri monopoli territorializzati decisi da uno Stato (la Cina o l’India, per esempio).

La sharing economy, insomma, si comporta come una gestione semi-ottimale dei consumi individuali, a valle delle fasi di produzione, circolazione e vendita; in forma insomma privatistica e parassitaria (beni e soldi implicati nello scambio sono di altri, non delle piattaforme). Ha dunque conseguenze sistemiche oggettive – involontarie – definibili come deflazionistiche, perché riducono la quantità di beni che diventa indispensabile acquistare, dunque anche gli ordinativi futuri. Meno auto, meno case (hai voglia a costruire stadi, imbecille!), meno letti, meno armadi, meno pentole…

Sia detto solo per accenno, ma questa spinta deflazionistica, di oggettiva decrescita, si manifesta e si esercita nello stesso momento in cui le tecnologie dell’automazione produttiva stanno investendo tutti i comparti dell’economia globale. Centinaia di milioni di posti di lavoro sono già stati cancellati o stanno per esserlo (50 milioni solo in Europa, nel prossimi 8 anni).

Allacciate le cinture, perché da questo mondo proprio non potete esodare…

Dante Barontini

27/2/2017 http://contropiano.org

 

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La socializzazione dei beni del proletariato

Guido Salerno Aletta

da Milano Finanza, 25/02/2017

C’è una ombra minacciosa che incombe stavolta sui tassisti, e che scompiglia il campo anche tra i fautori delle liberalizzazioni: l’irrompere delle piattaforme della sharing economy. Per ora l’hanno scampata. Ai tempi del governo Monti, il problema era rappresentato solo dal numero eccessivamente esiguo delle licenze.

La diga degli strumenti amministrativi di regolazione del mercato, sembrava franare per via di un emendamento parlamentare al consueto decreto-legge milleproroghe: di qui la rivolta. C’è stato un accomodamento: insieme alla nuova normativa volta ad impedire pratiche di esercizio abusivo del servizio di taxi e del servizio noleggio con conducente (NCC), si continueranno a contrastare anche i comportamenti “comunque non rispondenti ai principi ordinamentali che regolano la materia”. Così recita testualmente l’accordo siglato tra le organizzazioni rappresentative delle categorie ed il Ministero delle infrastrutture.

In pratica, si dovrebbe vietare ancora il comportamento di coloro che, usando la propria automobile e con il supporto di una piattaforma informatica e di telecomunicazioni che mette in contatto domanda ed offerta di trasporto di persone, una normalissima app scaricabile su tutti gli smartphone, si mettono a fare i “tassisti fai da te”: dove, come e quando vogliono.

Non è più, semplicisticamente, una guerra che vede vincenti i pochi privilegiati tassisti, e perdenti i consumatori, a cui verrebbero estorte tariffe molto più elevate rispetto al prezzo di mercato cui si tenderebbe se venisse rilasciato un numero maggiore di licenze. Premono sul mercato i tanti privati che hanno a disposizione una automobile e sono disponibili ad offrire il servizio ad un prezzo notevolmente più basso, utilizzando una delle tante piattaforme già diffusissime su internet.

Si ripropone, in forma molto diversa dal passato, quello che è stato per anni il vantaggio competitivo dei radiotaxi rispetto ai conducenti che attendevano il cliente o la chiamata telefonica alla colonnina istallata nei posti di stazionamento. Allora, il conflitto era tutto interno alla categoria, visto che la tecnologia avvantaggiava i radiotaxi: potevano accettare un nuovo servizio mentre erano impegnati a concludere un’altra corsa, o comunque transitavano nelle vicinanze. Stavolta il passaggio è dirompente, perché la tecnologia apre l’offerta del servizio anche a coloro che non hanno alcuna licenza, ma sono semplici privati che si rendono disponibili per l’occasione.

La sharing economy è un fenomeno che travalica il semplice utilizzo delle tecnologie, poiché modifica i rapporti tra produttori e consumatori, associando i consumatori tra di loro, ovvero trasformandoli temporaneamente in nuovi produttori.

Il fenomeno dilaga: dal trasporto urbano in alternativa al taxi, alla ospitalità domestica in alternativa agli alberghi, fino alla preparazione dei pasti in casa che sostituisce la ristorazione tradizionale. Mettere in affitto il proprio appartamento quando si va in vacanza, o comunque qualche camera con una certa continuità, ovvero rendersi disponibili nel tempo libero per condurre una persona da un posto all’altro con la propria auto, ovvero preparare nella propria cucina un pranzo a pagamento, implica la messa a disposizione sul mercato di un bene, di una attività o di un tempo altrimenti destinato alla fruizione esclusivamente personale, familiare, o al più amicale.

Ciò comporta la formazione a livello sociale di un nuovo capitale produttivo attraverso la semplice trasformazione della destinazione d’uso di ciò che in precedenza aveva una funzione privata, creando una offerta sul mercato ulteriore rispetto a quella tradizionale. Stavolta, anche un atteggiamento luddista è impraticabile, perché non c’è un telaio automatico che sostituisce il lavoro, ma l’irrompere sul mercato, attraverso piattaforme su internet, di una nuova offerta di lavoro e di servizi tendenzialmente sterminata.

Si ripropone, all’inverso, il processo che portò alla formazione della proprietà privata, con la rivoluzione inglese e francese, attraverso la eliminazione del sistema medievale basato sulle terre comuni e sul lavoro servile a favore del feudatario. Allora si rivendicò la proprietà individuale della terra, che rappresentava la principale condizione della produzione insieme al lavoro umano, come strumento di indipendenza economica e quindi libertà effettiva. Oggi, in un assetto capitalistico e di libertà d’impresa, con la sharing economy tutto ciò che è privato, esclusivo ed individuale ritorna ad essere messo in comune, attraverso i nuovi strumenti di infeudamento rappresentati dalle piattaforme informatiche che organizzano le relazioni, dalle regole inviolabili alle pretese economiche, misurate in percentuale sul valore della prestazione o del lavoro svolto. E’ una forma di mezzadria esercitata addirittura sul bene altrui, una gabella, tale e quale quella pretesa dalla aristocrazia terriera di una volta. La piattaforma funziona solo se una intera comunità accetta: l’impoverimento della classe media, con l’abbandono del consumismo individualista a favore della più frugale fruizione collettiva, è dunque la condizione indispensabile che porta a far attecchire questo nuovo paradigma. Mentre tra i comuni mortali trionfa la deprofessionalizzazione, la deidenfificazione e la decostruzione organizzativa, l’apice opposto diviene sempre più concentrato, stabile e pervasivo: feudalesimo, duro e puro.

Per fornire servizi affidabili, le “piattaforme” devono imporre controlli, effettuare verifiche, stabilire condizioni. Non c’è nulla di democratico, né di solidale, né tanto meno di equo in queste nuove forme di organizzazione oligopolistica del mercato, sempre più pervasive, prepotenti ed irrispettose di qualsiasi regola. E, quel che è peggio, viene meno la distinzione ancora più fondamentale ed antica, tra i tempi di vita e di lavoro, tra otium e negotium. Questo processo si innerva nella stagnazione, con la caduta dei redditi, dei consumi e dei traffici, che riporta come già nel Medio Evo alla creazione di sistemi di potere basati sullo scambio tra sottomissione e beneficio, rispetto a cui ogni altra regola civile è recessiva.

Siamo dunque alla terza fase della trasformazione di internet. Già le piattaforme di ricerca di informazioni, dove il denaro non circola a ritroso rispetto alla fornitura del servizio reso, come avviene in ogni circuito economico ordinato, hanno sconvolto il mondo dell’informazione e dell’editoria, tuttora senza modelli di business sostenibili. Siamo passati poi alle piattaforme di e-commerce che stanno cambiando completamente il modo con cui si distribuisce e si produce. Emergono ora le piattaforme della sharing economy, che cambiano il modo in cui beni e servizi vengono offerti e acquistati, in cui produttori e consumatori si scambiano continuamente ruolo ed identità. Pochi grandi gruppi hanno ormai in mano segmenti interi della vita della popolazione mondiale, con una progressione inscalfibile basata sul modello di business in cui “paga la terza parte e comunque si risparmia”.

Le tensioni di piazza di questi giorni, con i taxi fermi e qualche tafferuglio, sono il segnale di come una vicenda tanto nota, quanto trascurata, possa essere strumentalizzata politicamente, scompigliando priorità e piattaforme programmatiche.

C’è un unico principio, ora, che occorre ristabilire, anche nella web economy: il rispetto delle normative che disciplinano l’accesso al mercato, la fornitura dei servizi corrispondendo il giusto compenso a chi ha la titolarità dei diritti, il rigore della fiscalità. Non si possono chiedere da una parte sempre più controlli sanitari e di igiene nei ristoranti, e lamentarsi se non rilasciano la ricevuta fiscale, per poi lasciare che fiorisca il mercato parallelo delle trattorie domestiche. Lo stesso vale per gli alberghi, che sono imprese soggette alla fiscalità generale ed alla esazione di tributi speciali, come la tassa di soggiorno: chi fa concorrenza, mettendo a disposizione la propria casa, offre un prezzo assai vantaggioso perché non ha né oneri organizzativi, né fiscali. Nel frattempo, le piattaforma di servizio macinano utili a miliardi, pagando le imposte dove fa più comodo, come constatiamo tutti i giorni, con le fatture delle compagnie aeree low cost, delle società di autonoleggio, e di qualche produttore di smartphone che vengono emesse comunque in Irlanda. Con il risultato che il pil di Dublino cresce ed a Roma la cassa del fisco si svuota.

Ogni arretramento è fatale, irreversibile, come si è visto nel settore dell’editoria: il problema non è solo economico, per il mancato pagamento del giusto compenso agli editori ed agli autori che porta al fallimento di un’intera industria. Emergono con sempre maggiore frequenza le polemiche sulla post-verità, e la preoccupazione sulla diffusione delle notizie false e su quelle verosimili.

 O c’è il rispetto delle regole da parte di tutti, quelle fiscali in primo luogo, o subentra la prepotenza del mercato, con i feudatari del web che distruggono le forme organizzate della produzione e ci riportano al feudalesimo. Cominciando ad attaccare le categorie professionali che vengono considerate privilegiate, un passo alla volta.

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Scèringhecònomi

Dopo avere letto l’articolo di un giovane lettore su Uber e sharing economy in cui mi si cita, ho voluto aggiungere due parole pedanti sul tema, che propongo nel seguito ai lettori.

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Il dibattito sulla sharing economy si rappresenta mediaticamente lungo l’asse dialettico vecchio-nuovo, conservazione-rivoluzione, paura-sfida. I critici di questo modello sarebbero arroccati e impauriti, nemici del futuro. L’idea della novità è prima di tutto nel nome, dove un rodato processo di ridenominazione esterofila innesca una percezione di progresso legata al doppio filo della presunta arretratezza nazionale e della presunta modernità angloamericana. È poi nell’elemento telematico, il web che ancora a distanza di vent’anni mantiene viva l’aspettativa di una rivoluzione antropologica di cui non si ha traccia. È infine in una più generale e mai sopita speranza di adattare i modi di produzione alle politiche macroeconomiche in corso, di trovare una quadra che possa avverarne le promesse di benessere e che ci salvi dall’umiliazione di rinnegarle e di rinnegare, con esse, un investimento politico e ideale che ha conquistato i cuori dei più.

Sicché non stupisce che la sharing economy susciti la simpatia dei consumatori. Stupisce invece, e anzi suscita pena, che tra i suoi cantori più infoiati si annoverino anche accademici ed economisti. Al di là delle esigenze di marketing, dove tutto ha da proporsi nei panni del nuovo per meritare la dignità del mercato, dove starebbe la novità? Economicamente si tratta di un’operazione di abbattimento dei prezzi via abbattimento dei costi. Nell’estendere l’attività di trasporto di persone a chiunque possegga un’automobile (Uber, blablacar) e alberghiera a chiunque abbia una casa o una camera da letto (Airbnb) si monetizza lo scarto regolatorio tra settori professionali e non professionali. Tutto qui. Si investe cioè sul principio che ciascuno a casa propria, sulla propria automobile e forse domani nella propria cucina (airrestaurant.com?) o con la propria cassetta dei farmaci (airhospital.com?) possa più o meno fare quel che gli pare, mentre se decide di offrire quei servizi ad altri, a pagamento, debba soddisfare certi requisiti.

È certo possibile che alcune regolazioni siano eccessive, infondate o anche vessatorie. O che siano legate al passato. In quei casi andrebbero cambiate. Ma la loro ratio fondamentale e al di là delle applicazioni particolari è quella di estendere garanzie e standard di qualità non negoziabili a tutti e non solo a chi se li può permettere. Quegli standard sono poi la linea del fronte tra paesi sviluppati e terzo e quarto mondo, dove pure si possono affittare elicotteri e limousine mentre la popolazione viaggia sui carretti per un soldo arrugginito, e dove si può soggiornare nei resort a cinque o più stelle mentre la popolazione dorme negli slum. Ecco il progresso. Se una casa Airbnb costa meno è perché, ad esempio, non deve avere l’impianto antincendio di un albergo. Ciò che non si riceve in sicurezza lo si risparmia in quattrini, eventualmente lo si baratta con una vasca idromassaggio o un pianoforte a coda in soggiorno. Ecco la rivoluzione virtuosa. Se poi – udite udite – un esercizio paga meno tasse, può praticare prezzi più bassi. Ecco l’innovazione. È un gioco a somma zero: tanto ti tolgo, tanto ti do. Con anzi un possibile retrogusto di impoverimento medio, come osserva il mio lettore: di chi compra, che rinuncia alla ricchezza reale di determinate tutele in cambio di un piccolo risparmio monetario, cioè virtuale, e di chi vende, che rinuncia al pieno godimento di un bene per non doverlo cedere. Un’alternativa – o un’anticamera – soffice all’ipoteca e alla liquidazione.

Resta naturalmente un punto irrisolto. Se il vantaggio regolatorio e fiscale dellasharing economy poggia sulla natura non lucrativa delle attività coinvolte, la loro professionalizzazione implica un cambio di statuto che non può non abbattersi su quel vantaggio. Se e quando i tassisti saranno messi in minoranza dai volenterosipart-timer di Uber, per quale fantasiosa ragione l’erario non dovrebbe recuperare il mancato gettito aggredendo i ricavi dei secondi? E per quale misteriosa mutazione un regolatore feroce e opprimente con gli uni diventerebbe mite ed etereo con gli altri? Ai ragliatori della deregolamentazione dispiacerebbe sapere che tra le grandi città che hanno pesantemente normato e limitato l’home sharing si annoverano già noti ricettacoli di marxisti come San Francisco, New York, Londra e Amsterdam. E che in Inghilterra le toghe rosse (red gowns) hanno recentemente obbligato Uber adapplicare i minimi salariali riconoscendone l’implicito ruolo di datore di lavoro. E che il servizio è addirittura interdetto in una lunga serie di oasi comuniste e tecnologicamente arretrate come Texas, Alaska, Nevada, Paesi Bassi, Finlandia, Sud Corea, Vancouver (Canada), Queensland (Australia), Barcellona, Francoforte e altri.

Ma se anche riuscissero a ragliare così forte da indurre le amministrazioni ad allentare la morsa regolatoria che protegge cittadini e lavoratori (ipotesi perfettamente in linea con lo Zeitgeist), nulla potrebbero contro il backlash regolatorio auspicato proprio dai nuovi entrati. Perché questo sfugge sempre ai detti ragliatori: che la regolazione è un profondo fossato che circonda e protegge i mercati. E che la sospensione delle regole coincide con un furtivo abbassamento del ponte levatoio sì da consentire l’ingresso degli assedianti, dopodiché saranno questi ultimi, impadronitisi della fortezza, a sbarrare in tutta fretta gli accessi per escludere la concorrenza. In questa strategia di attacco la sharing economy vuole essere il cavallo di Troia, il dono di un (finto) risparmio da pochi euro per spalancare mercati da miliardi. Poi le nuove regole, cioè i nuovi fossati, saranno naturalmente informate alla tutela dei vincitori, secondo un pattern già illustrato su questo blog a proposito di tutt’altro servizio, la distribuzione del gas naturale. Lì la liberalizzazione serviva a scalzare il monopolio pubblico per aprire la strada al monopolio privato, mentre la concomitante regolazione provvedeva a blindare il vantaggio finanziario dei nuovi monopolizzanti.

Per finire vogliamo spendere una parola sul concetto di sharing, di condivisione che presta il nome a questa rivoluzione nominale. Sul piano giuridico ed economico la qualifica è irrilevante. Chi presta un bene dietro compenso lo affitta, chi lo utilizza per vendere un servizio lo sfrutta. In entrambi i casi non condivide un bel niente. La scelta del lessico intende piuttosto capitalizzare una prossimità semantica con le costellazioni valoriali in cui gravitano socialità, generosità e apertura all’altro, ma anche ottimizzazione delle risorse e rinuncia ai lussi individuali per il bene di tutti. Quella delcum-dividere è un’azione collettiva, un antidoto all’egoismo e all’ingordigia dei singoli che strizza l’occhio alla sinistra ecologica e comunitaria, ai decrescisti, ai democratici dal basso. Purtroppo nei fatti sembra però accadere il contrario, che quella piramide si manifesti piuttosto come una confluenza dalla base al vertice, dall’imprenditorialità diffusa dei tassisti, delle compagnie di trasporto e degli albergatori indipendenti o infranchising a un operatore unico che detiene le chiavi telematiche per accedere al mercato, detta unilateralmente le condizioni retributive (tutt’altro che generose, stando alla sentenza dei giudici inglesi), delega ai lavoratori la responsabilità dei mezzi di produzione e, una volta abbarbicatosi al vertice, fissa i prezzi senza l’assillo dei competitori. Ecco la liberalizzazione, ecco la non concorrenza che i tassisti temono e che, forse, dovremmo temere anche noi.

 

Da http://ilpedante.org

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