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    Blog, Cronache Politiche — Dicembre 16, 2014 5:32 pm

    Altra politica economica e altra civiltà del lavoro. Rovesciando la “visione” dominante all’interno dei circoli governativi (europei e italiani), proponiamo di definire una politica per il lavoro strutturata lungo tre linee tra loro strettamente collegate: l’attuazione di piani di lavoro per la produzione di valori sociali; la redistribuzione del lavoro anche attraverso una riduzione sussidiata degli orari; la standardizzazione dei rapporti di lavoro non-standard per l’eliminazione del lavoro precario e l’universalizzazione della protezione sociale che contrasti le attuali ineguaglianze (di genere, generazionali, territoriali). Con l’obiettivo, tra l’altro, di rafforzare la contrattazione di difesa salariale.

    Sì al Workers Act, no al Jobs Act.

    Pubblicato da franco.cilenti

    Il Jobs Act non avrà presumibilmente effetti sull’occupazione, ma sarà certamente pregiudizievole per le condizioni dei lavoratori. È la logica che lo ispira – una logica ampiamente supportata dal pensiero unico neoliberista – a far prevedere questo esito. Non è un mistero che, per la nostra classe governativa, l’impresa sia il soggetto progressivo e che subordinare il lavoro agli interessi della produzione sia lo strumento per sostenere la crescita economica anche quando ciò comporti costi sociali insopportabili come l’aumento della precarietà, della disoccupazione, della povertà e delle disuguaglianze

    Il che si riflette pienamente nei più contestati contenuti del Jobs Act: nel contratto a tutele crescenti e relativa revisione della tutela contro il licenziamento illegittimo; nella legittimazione del demansionamento; nel controllo a distanza; nella “voucherizzazione” del mercato del lavoro.

    Il contratto a tutele crescenti sarà formalmente a tempo indeterminato ma, sostanzialmente, sarà precario a tempo indeterminato, in quanto, in deroga all’attuale art. 18 dello Statuto dei lavoratori, il licenziamento sarà “facile” in quanto, anche nel caso fosse ingiustificato, il diritto alla reintegrazione sarà riservato a ipotesi residuali e l’indennità risarcitoria sarà per anni così bassa da avere una scarsa efficacia deterrente (si parla di una mensilità e mezza per ogni anno si anzianità!). Aumenta quindi la flessibilità in uscita senza alcuna possibilità di tutela reale (così i giuslavoristi definiscono il diritto alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro) sia nel caso di licenziamento economico illegittimo sia in certe ipotesi di licenziamento disciplinare illegittimo. Nel frattempo anche la flessibilità in entrata è aumentata con il primo atto del Jobs Act (già in vigore): grazie al DL 34/2014 il contratto a termine può ora essere stipulato senza causale (cioè senza dover giustificare l’assunzione a termine, invece che a tempo indeterminato) e può essere prorogato ben cinque volte (prima solo una) in modo da permettere alle imprese di ampliare l’utilizzo precario del lavoro.

    L’ideologia della flessibilità

    L’atteggiamento ideologico con cui è affrontato, ormai da lungo tempo, il problema del lavoro impedisce al legislatore di prendere atto che il problema della scarsa crescita, e connessa crescente disoccupazione, non è attualmente un problema di flessibilità (in entrata e in uscita) e quindi una questione dell’offerta – come del resto dimostra l’esperienza della flexicuritydanese nel confronto con quella svedese – ma è una questione da affrontare principalmente dal lato della domanda.

    Ancor più evidente è la visione a favore della discrezionalità imprenditoriale nella gestione del rapporto di lavoro nella revisione della disciplina delle mansioni e del controllo a distanza dei lavoratori. Il divieto di demansionamento del lavoratore già conosce deroghe legittimate dal legislatore in presenza di licenziamenti collettivi o, secondo gli orientamenti giurisprudenziali più recenti, nelle ipotesi di riorganizzazione aziendale in cui la modifica delle mansioni (anche in pejus ) si presenta come unica alternativa al licenziamento. Con il Jobs Act invece la finalità del demansionamento non è più la tutela del posto del lavoro che ora dovrà essere contemperato con il generico e scivoloso “interesse dell’impresa all’utile impiego del personale”.

    Altrettanto preoccupante è la norma con la quale si estendono le prestazioni di lavoro accessorio per le attività lavorative discontinue e occasionali attraverso il ricorso ai “buoni lavoro” che, nella forma di una completa mercificazione del lavoro, dovrebbe rispondere all’aspirazione di Renzi di imitare il modello tedesco senza avvedersi che la scelta riguarda una delle manifestazioni peggiori della Riforma Hartz, quella che ha favorito la crescita imponente dei working poors, dei lavoratori sotto la soglia di povertà.

    Attenti ai decreti delegati

    Considerata la genericità dei criteri direttivi formulati dal Jobs Act, diviene imperativo dedicare tutta l’attenzione critica a come verranno formulati i decreti delegati (che, ricordiamo, riguardano temi essenziali quali gli ammortizzatori sociali; i servizi per il lavoro e delle politiche attive; la semplificazione delle procedure di costituzione e gestione del rapporto di lavoro; il riordino dei rapporti di lavoro; il sostegno alla maternità e alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro). Pur non disconoscendo l’esistenza di potenzialità positive su taluni aspetti, si ribadisce che è l’impianto complessivo del provvedimento ad essere inaccettabile in quanto, subordinando le condizioni del lavoro alla presunta efficienza produttiva dell’impresa, non ne favorisce la competitività in quanto consolida l’attuale “via bassa” alla competitività che, sfruttando la svalutazione del lavoro “usa e getta”, pone in second’ordine l’investimento nella formazione dei lavoratori e nell’innovazione della produzione.

    Per questa ragione, come Sbilanciamoci!, stiamo predisponendo un Workers Act , un quadro di politica economica dalla parte dei “lavoratori” come alternativa alle linee di intervento governative. Riteniamo infatti che un’uscita progressiva da questa crisi non possa realizzarsi se non mettendo al centro le persone e calibrando gli strumenti di intervento – in netta contrapposizione con le riforme strutturali europee di impronta conservatrice – per espandere il loro benessere. Il “lavoro” al quale facciamo riferimento è quello definito della nostra Costituzione per quanto riguarda i diritti e la dignità dal “lavoratore”, figura che per noi si estende ben oltre gli occupati dipendenti per ricomprendere anche coloro che appartengono al cosiddetto Quinto Stato, i lavoratori formalmente autonomi ma economicamente dipendenti.

    Rovesciare la visione

    Rovesciando la “visione” dominante all’interno dei circoli governativi (europei e italiani), proponiamo di definire una politica per il lavoro strutturata lungo tre linee tra loro strettamente collegate: l’attuazione di piani di lavoro per la produzione di valori sociali; la redistribuzione del lavoro anche attraverso una riduzione sussidiata degli orari; la standardizzazione dei rapporti di lavoro non-standard per l’eliminazione del lavoro precario e l’universalizzazione della protezione sociale che contrasti le attuali ineguaglianze (di genere, generazionali, territoriali). Con l’obiettivo, tra l’altro, di rafforzare la contrattazione di difesa salariale.

    Non sono temi nuovi; anzi, esistono già proposte concrete e ampi dibattiti sulle possibili soluzioni da avviare sin d’ora. L’intenzione è di raccoglierle e di riflettere su come esse possono ricondursi a una visione unitaria in grado di orientare un intervento ampio, concreto e immediato per contrastare l’attuale deriva sociale. È certamente un programma ambizioso per tutti coloro che non accettino il “senso comune” plasmato dalle classi dirigenti e vogliano convincere che una maggiore democrazia e uguaglianza è possibile e necessaria. Si deve peraltro essere ben consci che una “politica per il lavoro” ha caratteri così peculiari da incidere inevitabilmente sulle altre dimensioni della politica economica, in particolare su tre: le forme di redistribuzione del reddito; l’orientamento delle politiche industriali con le quali l’intervento pubblico diretto fornisce i beni che il mercato non può o non vuole produrre; lo standard di efficienza e di competenza dell’amministrazione pubblica. Non va inoltre trascurato che porre al centro della politica economica nazionale una politica del lavoro significa richiedere con forza all’Europa il superamento dell’attuale politica di austerità per sostenere le politiche per l’occupazione interne, poiché solo se ciascun paese è in grado di garantire un equilibrio compatibile con il patto sociale con i suoi cittadini si possono evitare conflitti devastanti non solo al suo interno, ma anche tra i paesi dell’Unione.

    Una politica per il lavoro è, a nostro avviso, l’indirizzo primario, per quanto difficile nella formulazione e complessa nell’attuazione, per affrontare la lunga deflazione sociale con la quale le politiche europee mirano a riplasmare le nostre società. Per questo, come Sbilanciamoci!, proponiamo, con un e.book di prossimo uscita, un terreno di confronto, anche con le parti sociali finora ingiustamente escluse, per approfondire la questione e ci auguriamo che i molti soggetti sociali – movimenti, sindacati, partiti – sensibili a una visione alternativa della politica economica vorranno contribuire per individuare le linee e le iniziative concrete che permettano il rilancio dello sviluppo sociale e del progresso civile.

    Claudio Gnesutta e Natalia Paci

    13/12/2014 www.sbilanciamoci.info

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    Autore: franco.cilenti
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