Si scrive autonomia, si legge secessione delle regioni ricche

La volontà di stravolgere definitivamente l’assetto costituzionale è stata dichiarata ad alta voce.
Lo abbiamo letto nei programmi dei partiti e lo sentiamo ripetere nelle dichiarazioni esplicite dei leader: presidenzialismo e autonomia differenziata delle Regioni sono i due principali obiettivi politici che si vogliono raggiungere. Come che la si pensi, l’introduzione della forma di governo presidenziale e il passaggio alle Regioni di vaste competenze in tema di diritti fondamentali ci consegnerebbe ad una nuova Repubblica, abbandonando l’orizzonte dei governi parlamentari e dello Stato delle autonomie improntato a un principio solidaristico, così come disegnato dai padri costituenti. Il progetto non può che suscitare timori.

IN PRIMO LUOGO, perché il presidenzialismo in Italia avrebbe per conseguenza il venir meno dell’unico organo di garanzia politica, ovvero l’attuale presidente della Repubblica “custode della Costituzione”. Se poi si somma l’esplicita e oramai cronicizzata debolezza del Parlamento è la complessiva forma di governo (l’equilibro necessario tra i poteri) che verrebbe ad essere sbilanciata a favore del nuovo presidente, eletto direttamente dal popolo e non più nelle condizioni di farsi garante dell ’unità costituzionale. Il rischio di una torsione autocratica, già latente nel sistema, dovrebbe dissuadere chiunque dal provare a giocare con il fuoco. Non siamo né gli Usa né la Francia, dove forme di governo presidenziali o semi presidenziali sono riequilibrate da solidi contrappesi che noi non abbiamo. Pensiamo di raggiungere New York o Parigi, ma ci potremmo ritrovare a Budapest, ad Ankara o a Mosca. E questa non è solo una metafora.
Per quanto riguarda l’autonomia differenziata, si scrive che in fondo non si tratterebbe altro che di dare attuazione alla Costituzione (all’articolo 116 comma 3).
Dunque, i timori di “stravolgimento” sarebbero infondati. In questo caso non si considera la realtà dei fatti e le intenzioni espresse (anzi gli atti già compiuti). Le richieste delle Regioni operano entro una logica di mera appropriazione delle funzioni da parte dei territori economicamente più forti. Una sostanziale “secessione dei ricchi”. Ne è riprova la richiesta di Veneto e Lombardia di ottenere tutte le possibili materie di devoluzione, nessuna esclusa. Un tentativo di mera appropriazione delle risorse e volontà di gestione diretta dei servizi pubblici essenziali. È in questo contesto che si rende palese il rischio di un’attuazione dell’autonomia differenziata che operi in violazione dei principi supremi della Carta.
Basta qui ricordare l’articolo 5 (esplicitamente un “principio fondamentale” non derogabile), che riconosce e promuove le autonomie locali, ma a condizione che si preservi l’unità e indivisibilità della Repubblica.

La domanda che dovremmo seriamente porci allora è la seguente: siamo sicuri che attribuire in via esclusiva ad alcune Regioni, fatti salvi i livelli essenziali, materie come sanità, scuola, lavoro ci faccia rimanere ancora una nazione, “una e indivisibile”?

La nostra Costituzione, inoltre, garantisce a tutti i diritti inviolabili su tutto il territorio nazionale. Non è solo il più volte richiamato articolo 117 che prevede che sia lo Stato a determinare i livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali, ma è anche l’articolo 2 (altro “principio fondamentale” non derogabile) che impone di riconoscere e garantire i diritti inviolabili e richiede a tal fine l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
In questo caso ci si deve seriamente domandare se si possa attribuire in via esclusiva alle Regioni – bene che vada, fatti salvi appunto i Lep, i livelli essenziali nelle prestazioni –i nostri diritti fondamentali, senza per questo incrinarne la tutela e l’effettività.

AL FONDO è il disegno complessivo definito in Costituzione che viene stravolto. Si vuole passare da un regionalismo solidale a uno competitivo che l’Italia, con i suoi squilibri economici e territoriali, non potrebbe reggere. La corsa ossessiva all’appropriazione delle funzioni (tutte quelle collegate alle materie indicate nell’articolo 116, III comma) finisce per offuscare il vero principio che dovrebbe costituire la bussola per legittimare la più ampia autonomia: quello della “differenziazione”che dovrebbe collegare il decentramento ai diversi bisogni delle Regioni.

Il rischio è quello di spaccare l’Italia, con l’accentuazione di nuove e gravi sperequazioni tra territori. Tra Nord e Sud, ma anche tra Regioni a statuto speciale, Regioni a statuto ordinario e regioni con condizioni particolari di autonomia. Una “Babele” che questa ipotesi di autonomia differenziata porta con sé. Non mi pare la soluzione migliore, meglio fermarsi e tornare a riflettere sullo stato delle autonomie e le ragioni della differenziazione.

Ancora un suggerimento. Se volessimo finalmente dare attuazione al regionalismo in Italia, per come è previsto in Costituzione, dovremmo iniziare a costruire dalle fondamenta e non dal tetto. E queste sono iscritte non nell’articolo 116, III comma, ma nel successivo articolo 119, che prevede di istituire un fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante, nonché risorse aggiuntive per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale.

Una volta ristabilita l’eguaglianza sostanziale e avvicinate le condizioni di fatto tra i cittadini (come pretende il “principio fondamentale” e non derogabile di cui all’articolo 3), si potrà allora pensare a come devolvere funzioni al fine di assicurare il rispetto dei principi di decentramento amministrativo e le esigenze dell’autonomia in armonia con i principi fondamentali degli articoli 2, 3 e 5.

Gaetano Azzariti

28/12/2022 https://www.ilfattoquotidiano.it

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