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    I lavoratori e le lavoratrici di Amazon che hanno scioperato durante il Prime Day sono coraggiosi: hanno affrontato di petto l’uomo più ricco del mondo e una delle aziende più potenti del pianeta

    «Siamo esseri umani, non robot»

    Pubblicato da franco.cilenti

    Mohamed Hassan somiglia al tuo zio preferito durante un picnic di famiglia. Ha un pizzetto alla moda con qualche pelo bianco. Se ti dicesse di avere cinquant’anni, gli crederesti; se ti dicesse di averne ottanta, gli crederesti uguale. «Sono vecchio», è tutto quello che dice. Ha un sorriso facile e maniere affabili. Parla somalo ma, prima che il traduttore ci dica cosa ha detto, noi già intuiamo le sue battute.

    Cammina aiutandosi con un bastone, un po’ incurvato. Ci fa vedere i gomiti e i polsi: sono coperti di speroni ossei, e c’è qualcosa nel modo in cui muove il braccio sinistro che sembra innaturale, come se gli facesse male provare a stenderlo troppo in fretta. «Ho avuto un infortunio a una spalla. I muscoli mi fanno male. Quest’osso qui [indica il gomito] e quello sull’altro lato non sono uguali». Questo è quello che succede quando il tuo zio preferito solleva scatole da decine di chili tre volte al minuto, per undici ore al giorno, nel centro di distribuzione di Amazon a Shakopee, Minnesota.

    Lunedì 16 luglio, Hassan e alcuni dei suoi colleghi hanno interrotto il lavoro con uno sciopero di sei ore, provando a fare leva sui saldi dell’Amazon Prime Day. Altrove, negli Stati uniti, i critici di Amazon protestavano contro i legami tra l’azienda e il dipartimento d’immigrazione, mentre in Germania circa duecento lavoratori Amazon entravano in sciopero. Alcuni consumatori hanno dichiarato che si sarebbero astenuti dagli acquisti su Amazon e boicottato le aziende associate, rifiutandosi di forzare il picchetto digitale.

    A Shakopee, i lavoratori hanno scioperato per sfidare la persona più ricca del mondo e ricordargli che, come ha detto alla folla il lavoratore Amazon Sahro Sharif, «Siamo qui perché siamo lavoratori, non robot». Amazon ha ammesso che almeno il 15% dei lavoratori di Shakopee ha aderito allo sciopero, ma ha minimizzato la sua importanza, sottolineando che il centro ha circa 1500 dipendenti. «Il fatto è che Amazon garantisce un ambiente di lavoro sicuro e di qualità, nel quale i dipendenti sono il cuore e l’anima dell’esperienza del consumatore, e l’evento di oggi dimostra che i nostri dipendenti sono d’accordo – ha dichiarato in un comunicato – Invitiamo chiunque a farsi un giro da noi in qualunque momento».

    Il centro di distribuzione di Shakopee è solo una delle strutture che Amazon possiede in tutto il paese, circa 150, secondo una stima. I beni arrivano, vengono spacchettati e poi rimpacchettati in una struttura che è più lunga di due campi da calcio. Quando i consumatori fanno i loro ordini, i beni escono, e ai lavoratori si chiede di battere il pezzo, cioè di raggiungere cioè la loro quota oraria di scatoloni sollevati, di camice impacchettate, o di scatole sigillate. «Tre scatole al minuto. A volte quattro, a volte cinque», dice Hassan. Il conteggio non si ferma nemmeno per andare al bagno: «Ogni minuto va a tuo sfavore». Alcuni lavoratori hanno finito per tenere a portata di mano una bottiglia vuota.

    Lunedì 16 luglio, centinaia di sostenitori dei sindacati, dei gruppi locali, e dell’Awood Center (un gruppo di lavoratori dell’Africa orientale) sono arrivati in supporto di Hassan e degli altri scioperanti. I lavoratori hanno raccontato la loro storia, a turno. Sharif, che due anni fa si era trasferito in Minnesota dall’Ohio, ha iniziato annunciando: «Siamo qui per dire ad Amazon che deve fare di meglio. Siamo stanchi di farci male mentre lavoriamo per Amazon». Meg Bradley ha ricordato che cento anni prima anche suo nonno scioperò nella fabbrica dove lavorava. «Credo che mi stia guardando dall’alto e che sia piuttosto orgoglioso di quello che stiamo facendo», ha detto.

    È stata la terza protesta di questo tipo nella struttura di Shakopee, più lunga del flash mob di dicembre, che ha preso l’azienda di sorpresa ed è quasi sfociato nell’uso della forza da parte della polizia, e più lunga dello sciopero di tre ore di marzo. Guidata da lavoratori somali organizzati, la struttura è diventata uno dei magazzini Amazon più ribelli degli Stati uniti.

    L’azienda si è fatta sempre più furba. Questa volta, i lavoratori riferiscono che Amazon ha piazzato un direttore ad ogni uscita e ha messo in chiaro che chiunque avesse varcato le porte per unirsi allo sciopero di sei ore (tre ore per il turno di giorno, tre ore per il turno di notte) sarebbe stato segnato con nome e cognome. «Se vai, scriveremo il tuo nome», hanno detto ad Hassan.

    (Nel caso ve lo stiate chiedendo, sì, sorvegliare i lavoratori impegnati in attività protette e concertate, o punirli per essersi organizzati in difesa dei loro diritti è una violazione del National Labor Relations Act. È divertente pensare che Jeff Bezos, costantemente additato da Trump come nemico del popolo, non ha alcuna ragione di temere che il National Labor Relations Board di Trump possa ritenerlo responsabile di supposte violazioni dei diritti dei lavoratori. I vincoli della ricchezza dei pochi cavata dal lavoro dei tanti sono più forti dei battibecchi su Twitter.)

    Alla manifestazione notturna, alcune persone hanno percorso grandi distanze per venire a portare la loro solidarietà. Westin Fridely, un tecnico informatico di Seattle, ha letto un comunicato di solidarietà dei suoi compagni; ne ha riuniti un centinaio in meno di un giorno dopo aver lanciato l’appello via mail. Michael Russo, un pilota della Atlas Air, che trasporta i prodotti di Amazon in tutto il paese, era atterrato da Chicago, e con l’uniforme ancora indosso ha testimoniato la solidarietà del suo sindacato (Teamsters Local 1224) agli altri settori di produzione dell’azienda. “Siamo tutti un anello della catena di montaggio”, mi ha detto prima che iniziasse la manifestazione. «I camionisti, la logistica, i piloti di cargo, trasportiamo tutti la stessa roba, e ci siamo dentro tutti insieme». Anche Erin Murphy, sindacalista appassionato ed ex-candidato governatore del Minnesota, era lì. «Non è possibile per me restare a guardare e non mettere a disposizione la mia voce e il mio tempo in solidarietà con quello che stanno facendo», mi ha confidato.

    Mentre molti di noi ascoltavano gli interventi, un gruppo di circa cento persone teneva vivo il picchetto all’ingresso della struttura. Usando il potere della persuasione, con la polizia lì a fianco, pronta a rispondere a qualunque accenno di provocazione, il gruppo ha convinto oltre una dozzina di autisti spaventati a supportare il picchetto e a tornare a casa invece di entrare nell’edificio.

    Spinti ai limiti

    Le condizioni di lavoro all’interno dei centri di distribuzione di Amazon aggiungono letteralmente la beffa al danno. Secondo le testimonianze dei lavoratori, l’azienda utilizza la tecnica preferita della grande industria, l’incremento della velocità, per spremere sempre più i lavoratori – perché gli 11 miliardi di dollari di profitto dello scorso anno evidentemente non sono abbastanza. Meg Bradley, che ha parlato alla manifestazione, ha cominciato a lavorare a novembre 2017 con altre settanta persone. Ne sono rimaste cinque.

    Prevedibilmente, aumentare i ritmi di lavoro porta agli infortuni. Nervi accavallati. Tunnel carpali. Tendini stirati. Quel tipo di infortuni sul lavoro che capitano agli esseri umani quando vengono portati al limite da un’azienda la cui preoccupazione per il benessere dei propri lavoratori è seconda soltanto a… qualsiasi cosa aumenti il profitto. (Amazon ha negato di sovraccaricare i lavoratori, insistendo prima dello sciopero sul fatto che l’azienda supporta «le persone che non riescono a raggiungere i livelli richiesti affiancando loro dei coach per aiutarli a migliorare».)

    E poi c’è la beffa. Come molti dei lavoratori di questo centro di distribuzione, Hassan viene dall’Africa orientale ed è musulmano. Un portale – non una stanza, un portale – è lo spazio che gli è stato assegnato per pregare (e, ovviamente, devono battere il pezzo anche durante le ore di preghiera). Nabihah Maqbool, del gruppo no-profit di assistenza legale ai musulmani Muslim Advocates, mi ha detto di aver inoltrato una denuncia contro il centro di distribuzione di Shakopee all’Equal Employment Opportunity Commission, sostenendo che i lavoratori sono discriminati sulla base della loro «razza, religione, e origine nazionale».

    Lo sciopero del Prime Day è avvenuto il giorno dopo che il presidente Trump, in un tweet razzista persino per lui, aveva invitato la rappresentate del Minnesota nata in Somalia, Ilhan Omar, a «tornarsene indietro» da dove è venuta. Jaylani Hussein, direttore esecutivo del Council on American-Islamic Relations, mi ha detto che «l’avidità aziendale trae diretto beneficio da quelle aziende che non permettono di esercitare i diritti religiosi protetti dalla Costituzione… è molestia, è violazione dei diritti fondamentali di base, e… è la sopraffazione fisica vera e propria, su persone praticamente dissanguate». E tuttavia sono proprio questi lavoratori e queste lavoratrici, tra i più sfruttati e vessati del paese, che stanno prendendo l’iniziativa e realizzando il loro potere collettivo.

    «Parlare con una sola voce»

    La protesta del 16 luglio ha dimostrato che la solidarietà è potente. Amazon non avrebbe reagito così duramente – manager ad ogni uscita, che di fatto minacciavano liste di proscrizione – se non avesse compreso la minaccia. Anche se alla fine è stata più piccola di quello che gli organizzatori si aspettavano – inizialmente parlavano dello sciopero di un centinaio di lavoratori – qualsiasi azione come questa rappresenta una minaccia per gli ingranaggi ben oliati della macchina aziendale. Specialmente quando si guadagna il supporto di politici a livello nazionale come Bernie Sanders ed Elizabeth Warren.

    I lavoratori dei magazzini, i tecnici informatici, i piloti di linea: Amazon, come azienda, è infrastruttura. I suoi enormi profitti vengono dalla sua capacità di stillare ogni singola goccia di efficienza da ogni stadio del processo. In tutti questi punti è vulnerabile anche alla più piccola variazione.

    Un’ora a dicembre. Tre a marzo. Sei oggi. Amazon deve capire che quando i lavoratori sono capaci di passare da sei ore a sei giorni, il loro intero modello aziendale sarà a rischio. Non puoi delocalizzare un magazzino oltreoceano, o in uno stato repubblicano del sud. Amazon ha per le mani più di 30 miliardi di dollari. In questo caso, il potere dei lavoratori è davvero più grande dell’oro arraffato da Amazon.

    E Mohamed Hassan ha un messaggio per i suoi colleghi: «Parlate con una sola voce, lottate per i nostri diritti, unitevi alle nostre voci, venite fuori e dite la verità su quello che sta succedendo».

    Dave Kamper

    Sindacalista dell’area metropolitana di Minneapolis-Saint Paul.

    23/7/2019 https://jacobinitalia.it

    Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è di Gaia Benzi,

    Tags: Amazon amazon italia appalti e sicurezza lavoro autonomia regionale e sfruttamento commercio e sfruttaemento contratti e diritti Corte europea dei diritti umani Dave Kamper diritti costituzionali diritti del lavoro diritti migranti diritti sociali diritti sul lavoro giovani e precariato igiene e sicurezza sul lavoro infortuni in fabbrica infortuni sul lavoro jacobinitalia.it Jeff Bezos lavoratrici e appalti. appalti e sfruttamento logistica e sfruttamento Meg Bradley moda e sfruttamento Muslim Advocates Nabihah Maqbool operai e sfruttamento produttività e sfruttamento Rapporto sul precariato Riders Salute e Sicurezza Lavoro sfruttamento caporalato sfruttamento donne sfruttamento e morte migranti sfruttamento in fabbrica sfruttamento migranti Shakopee sindacati e sicurezza lavoro
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