Sicurezza – il populismo penale e l’individuo penale

L’idea di sicurezza collegata al diritto penale è il ponte che mette d’accordo da alcuni decenni tutte le forze politiche. Che sia l’amministrazione di un Comune o quella di una Regione, come quella dello Stato, l’impianto di governamentalità è il medesimo. Leggi speciali, Regolamenti di polizia urbana, Decreti Sicurezza (rivisitati o meno) viaggiano di pari passo con uno sviluppo delle città incentrato sul controllo coattivo ed escludente della povertà, del non gradito dai piani di estrazione del valore del capitale. La scorsa volta scrivevamo: ‹‹Nonostante le statistiche sulla criminalità descrivano una società più sicura e una diminuzione costante del livello di criminalità nell’ultimo decennio, la percezione di insicurezza e paura – alimentate da politica e media – genera consenso verso chi si propone come giustiziere. Ma non è la morte della politica, come qualcuno sostiene, bensì la proliferazione della politica panpenalista: è una giustizia emotiva amministrata per soddisfare gli umori del popolo. Il populismo penale ha la sua forza principale, oltre che nella paura, nella carica emotiva che può vantare verso l’opinione pubblica attraverso la strumentalizzazione delle vittime››.

Questi strumenti, uniti a un processo di continuo impoverimento del pensiero critico in ambito scolastico-accademico e sociale, hanno contribuito alla creazione del soggetto “individuo”. Acritico, sganciato dal corpo sociale, dal territorio (sempre più non luogo), consumatore, esso è il depositario/protagonista del populismo penale. La campagna mediatica e culturale del legalitarismo e della delega continua, la spettacolarizzazione del reale e le riforme distruttrici dei saperi hanno, in larga parte, contribuito alla creazione di questo soggetto sociale. Esso ingloba e interiorizza la non appartenenza, o l’appartenenza adattiva standardizzata, la paura, la rabbia piena di livore e svuotata del conflitto, l’assenza di riconoscimento e condivisione.

Che si tratti di distruzione del welfare, di assenza di sanità pubblica e di servizi, licenziamenti, inquinamento ambientale o infortuni sul lavoro, l’individuo colonizzato, vive e affronta i fenomeni e le problematiche con le modalità tipiche del consumatore. Il cambiamento non è politico, ma antropologico, potrebbe dire Tronti nell’argomentare la crisi del modello homo democraticus e il passaggio nel modello depoliticizzato homo oeconomicus.

L’impoverimento del pensiero critico, sostituito da opinioni, il non riconoscersi nel pari condizione, impedisce l’identificazione del nemico, la comunanza di interessi con il proprio gruppo sociale, garantendo così l’attivazione di processi psicologici e sociali appartenenti alla sfera del marketing. Fidelizzazione, delega e alienazione dall’esistente sono i principali sottoprocessi che investono questo soggetto sociale contemporaneo. Nel frattempo esso è vittima e carnefice di se stesso e dei propri simili, incapace di leggere la realtà e sostituire di volta in volta i filtri di lettura. Ignora i processi che lo riguardano e lo circondano, spesso è complice dei dispositivi utili ai processi di trasformazione degli spazi di vita collettivi, delle città, del vivere quotidiano. L’utilizzo del codice penale e di dispositivi giuridico-amministrativi per reprimere il dissenso, stanno contribuendo alla creazione di una percezione del reale consolidata, identificabile con lo stesso processo che impoverisce e depriva. Sotto altri aspetti, tali dispositivi, creano i presupposti per sigillare i processi di trasformazione del territorio e della vita sociale dentro la cassaforte degli interessi del capitale.

L’individuo diventa una riproduzione in piccola scala del modello di sviluppo contemporaneo. All’interno di uno squilibrio disfunzionale tra territori economicamente differenti esso diventa “l’abitante modello” a seconda della tipologia di territorio in cui si trova a vivere, incagliato all’interno di processi economici, urbanistici esso è invitato alla “resilienza” (parola da distruggere e rinviare al campo di pertinenza, quello dei materiali!). Illudendosi e vivendo con una logica inconscia di autosufficienza e separato dal suo corpo sociale di appartenenza, o se ci piace di più, dalla sua classe sociale, sviluppa una percezione incapace di mettere in discussione fenomeni, problematiche sia complessi che più prossimali, e intanto resta spettatore distante da ciò che lo circonda e si nutre dello spettacolo della colpa e della pena.

Aumento dei prezzi, caro affitti, mancanza di servizi e infrastrutture, tasse inique, perdita del potere d’acquisto salariale, vengono affrontati al massimo con una reazione istintiva o con un lamento rabbioso momentaneo, per poi tornare a guardare con gli occhi del capitale lo stato di cose presente, fino a sospettare o isolare quelle poche soggettività che osano opporsi, o quei gruppi poco graditi alla produttività diffusa.

Sono innumerevoli i casi di repressione di Rappresentanti dei lavoratori per la Sicurezza lasciat* sol* all’interno di procedimenti disciplinari, processi penali e civili. O comunque, anche nei casi di attivazione di azioni di solidarietà, il rapporto di forza pende a vantaggio di aziende e padroni dentro le maglie del processo giudiziario. Pochi e sparsi i momenti di conflitto anche dopo gravi incidenti sul lavoro, dove viene normalizzato l’accadimento e molte aziende si trasformano in territori a sé, dove è sospesa qualsiasi forma di stato di diritto e niente e nessuno interrompe i processi di lavoro. Oppure di fronte al caro affitti, all’espulsione di student* e precar* dai centri cittadini, come potrebbe essere il caso del processo di gentrificazione in corso in città come Bologna, dove nel leggere svariati commenti agli annunci di stanze e case in affitto sulle innumerevoli pagine a tema nate sui social, si nota come, a parte rare reazioni, predomini la visione dei palazzinari.

Così, resta difficile immaginare nell’immediato all’organizzazione di una campagna massiccia sulla questione. Spesso accade che tali commenti giustificano il prezzo chiesto per locali talvolta privi dei più basilari requisiti di abitabilità. Questo è un elemento che evidenzia il cambio di percezione che, affiancato dai dati sulle iscrizioni nelle università degli ultimi anni, dall’aumento del pendolarismo e dalla diminuzione della presenza dei fuorisede nelle città, ci dice come l’individuo viva qualsiasi fenomeno collettivo in solitaria, sia per quanto riguarda le conseguenze sia per la ricerca delle soluzioni.

L’uso delle istituzioni penitenziarie e del controllo sociale coattivo, come l’uso dei dispositivi amministrativi, compensano la fragilità dello Stato sociale e contribuiscono allo sviluppo dei processi di gentrificazione, di espulsione dai centri storici e cittadini di tutta quella schiera di non graditi per gli standard economico sociali della pianificazione liberista. Nelle periferie metropolitane e rurali, l’assenza o forse l’incapacità temporale di organizzazione rispetto ai mutamenti di forze politiche antagoniste aumentano il vuoto per chi affonda nella solitudine della povertà e dell’abbandono. Esistono esempi di pratiche che provano a ricucire il tessuto sociale strappato, ma al tempo stesso il rischio è il mutamento di percezione anche tra attivit* e militant* rispetto a come stravolgere l’esistente. Fa specie una foto di qualche settimana fa a Milano, dove, accanto all’infinita fila di fronte alla mensa Caritas, spuntava un cartello stradale pubblicitario che indica un grande magazzino di una nota catena di supermercati. La domanda è: qualcun* ha pensato che forse quella fila non dovrebbe esistere e che la soluzione immediata sarebbe stata a qualche centinaio di metri da lì? Non si paga, non si paga….Oppure stiamo accettando anche noi il processo dell’individuo penale, caritatevole e punitivo al tempo stesso?

I quartieri mutano e vengono risucchiati in nuove trasformazioni urbane, la distanza casa lavoro (per chi ce l’ha) aumenta, i territori delle province vivono un abbandono in aumento in termini economici e di servizi, ma qualcosa forse in silenzio si muove. Nonostante il senso di abbandono materiale, le trasformazioni che ci investono, la nascita di nuove e future azioni spontanee di riappropriazione oggi imprevedibili, nasceranno. Saremo in grado di spingerle con la complicità necessaria del conflitto?

Osservatorio Repressione

L’Osservatorio Repressione è una associazione di promozione sociale nata nel 2007. Si prefigge di promuovere e coordinare studi, ricerche, dibattiti e seminari, sui temi della repressione, della legislazione speciale, della situazione carceraria, la raccolta, la conservazione di materiali e di documenti inerenti la propria attività, cura la pubblicazione di materiali ed esiti delle proprie ricerche, promuove progetti indipendenti o coordinati con altre associazioni e movimenti che operano nello stesso ambito.

17/5/2021 https://www.intersezionale.com

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