Sindacati malati o assenteisti?

Gesù

Gli italiani si scoprono più malati e più poveri: oltre 5 milioni di loro rinunciano a curarsi a causa degli alti costi, delle lunghe lista di attesa e dalla distanza dai luoghi di cura causate dalle chiusure delle strutture ospedaliere e ambulatoriali nei vasti territori montani e nelle città.

Non vanno meglio le cose ai lavoratori della sanità: dopo tanti anni di riduzione degli organici il risultato è stata una graduale compressione dei loro diritti e della professionalità. Il lavoro degli operatori sanitari oggi è fagocitato da fattori esterni che demotivano e stressano con il pericolo di un crescente stato di depressione professionale propedeutico all’individualismo e al menefreghismo. In altre parole, il valore intrinseco delle professioni di cura, che sta in una relazione di qualità con il paziente -inteso come persona e non come cliente sta perdendo la sua potenza trainante.

Ma sulle ricadute della distruzione del diritto al lavoro, sembra prevalere, più della consapevolezza che i diritti si vanno riconquistati con la lotta organizzata, l’attesa – anche nei sindacati – che questo lungo periodo di guerra unilaterale dei poteri finisca e riprenda il normale corso della concertazione. Come se la salute dei lavoratori non fosse già uno dei capitoli del loro organigramma sindacale, gli stessi sindacati si preoccupano solamente dello “stato psicofisico” del lavoratore martoriato dalle violenze aziendali e aprono propri sportelli di “sostegno psicologico dei lavoratori”. Invece di riscoprire la loro ragione sociale di rappresentanti dei lavoratori e adoperarsi per migliorare le condizioni di lavoro a fianco dei lavoratori ci propongono la psichiatrizzazione del disagio lavorativo.

Questo ruolo “innovativo” del sindacato viene sperimentato a Modena nella sede Cgil. Sperando che non venga istituzionalizzato in tutte le sedi sindacali, credo che questa strana iniziativa rappresenti l’ammissione esplicita di non sapere (volere?) più fare il proprio dovere. Inoltre, rappresenta un errore dal punto di vista scientifico: il sindacato legge in chiave “psicologica” quei bisogni che sono invece sono materiali nella loro natura di competenze professionali, di diritto alla sicurezza sul lavoro, di facilitazione nella relazione con malati e familiari.

Invece di partecipare alla distruzione dei bisogni sociali, sarebbe dunque necessario, organizzare e rilanciare le lotte nei luoghi del servizio pubblico e non fingere un paternalistico “sostegno” ai lavoratori il cui bisogno è il rispetto della propria professionalità e dei propri diritti e non di penosi psicosportelli. Perchè di partecipazione alla produzione di malessere sociale si tratta. Quella tragedia mai memorizzata e solo oggetto di studi da presentare in qualche convegno. L’aumento dei carichi e del tempo di lavoro pro capite non è più sotto l’occhio vigile dei tre sindacati che detengono la delega della stragrande maggioranza dei lavoratori “sindacalizzati”.

Eppure il rapporto dell’Osha (2014) su stress e rischi psicosociali nei luoghi di lavoro parla anche ai sindacati quando dice che: “nel 1999-2007 quasi il 28 % degli intervistati, pari a circa 55,6 milioni di lavoratori europei, ha riferito che il proprio benessere psichico era stato compromesso dall’esposizione a rischi psicosociali. Il fattore di rischio principale e più frequentemente indicato è stato il poco tempo a disposizione e l’eccessivo carico di lavoro (23 %)”.

Per questo motivo non ci spieghiamo l’immobilismo sindacale di fronte alle manovre di guerra governativa al mondo del lavoro. Oggi, c’è bisogno di spiegare agli apatici sindacalisti che il vero obiettivo della riforma Madia, nella scia delle altre “riforme” dei precedenti governi, è il lavoro senza tutele e che la sbandierata “semplificazione e trasparenza” e la lotta al “fannullone” è la favoletta per i creduloni, mentre hanno imposto, complice il silenzio sindacale, di sostituire solo un dipendente su 4 che vanno in pensione.

Intanto i managers della sanità che hanno operato indefessamente alla distruzione della strutture pubbliche a solo vantaggio delle strutture private, nel contempo fregandosene della condizioni di lavoro e di salute degli operatori sono mai stati “licenziati” dalla mobilitazione dei sindacati? Mai! Ma possibile che non riusciate a capire che il decreto del governo, supportato dai cortigiani – giornalisti, – della comunicazione stampata e televisiva, è solo politica di tagli e privatizzazioni dei servizi, proroga all’infinito blocco della contrattazione e del turn- over?

E’ elementare capire che la progressiva spoliazione dei servizi dedicati al benessere dei cittadini (salute, assistenza, mobilità, rifiuti, ambiente), ed al loro conseguente trasferimento al “privato” (tramutandoli in merce), con appalti, consulenze, rappresenta solo una gigantesca sparizione di posti di lavoro, di competenze, di memoria storica, di conoscenza del territorio, con una precarizzazione degli attuali occupati.

Per rendere evidente la possibilità di avere servizi pubblici efficaci, coniugati a tutela dell’ambiente, buona occupazione e diritti, serve un nuovo rinascimento Solo rimettendo i piedi nei territori desertificati dai servizi pubblici locali, solo intervenendo nelle scelte delle amministrazioni, politiche e aziendali, possiamo invertire la rotta.

A fronte di quanto evidenziato ci chi chiediamo quale incidenza concreta nel futuro dei lavoratori stabili, come dei precari e dei disoccupati, possa avere il nuovo Statuto del Lavoro proposto dalla Cgil, ma anche quale possibilità di attuazione legislativa dato che è una proposta di legge in un Parlamento del tutto asservito al governo.

C i pare una proposta inutile per tentare di uscire dalla condizione di marginalità sociale. Anche noi ci chiediamo: – la proposta di una Carta dei diritti universali del Lavoro, avvalla il superamento dello Statuto dei Lavoratori (Legge300/70)? – la Carta viene considerata parte integrante di tutte le forme di sfruttamento e di precarietà introdotte dai vari governi? – con la Carta si formalizza il jobs act?

Cosi fosse sarebbe la pietra tombale sul futuro prossimo della vita lavorativa nostra e della prossima generazione. Una vita che avrebbe sulla testa non più il principio della civiltà del lavoro, ma un incipit che recita “ la tratta del lavoro” con un invito implicito “dovete morire il prima possibile”, ovviamente dopo essere distrutti nel fisico, nella salute e nella psiche. Questo disegno è già delineato dall’innalzamento dell’età pensionistica e lo rileva anche l’Istat quando afferma che diminuisce l’aspettativa di vita.

Ecco i dati Istat alla fine del 2015. Al 1° gennaio 2016 la popolazione in Italia è di 60 milioni656 mila residenti. Gli stranieri sono 5 milioni 54 mila e rappresentano l’8,3% della popolazione totale. La popolazione di cittadinanza italiana scende a 55,6 milioni, conseguendo una perdita di 179 mila residenti. Se ne deduce che “l’invasione” dei migranti non esiste e non riesce neanche a compensare la diminuzione netta di popolazione autoctona. Il secondo dato conferma una tendenza drammatica: “I morti sono stati 653 mila nel 2015. Il tasso di mortalità, pari al 10,7 per mille, è il più alto tra quelli misurati dal secondo dopoguerra in poi”.

Da cosa dipende? D’istinto si pensa ai tagli alla sanità pubblica, che h anno costretto molti anziani a curarsi di meno, saltare alcuni cicli di cure, evitare una serie di analisi di prevenzione e cura. Quanto fosse compromessa la salute della popolazione ce ne eravamo accorti da tanto tempo e un servizio sanitario pubblico diventato problematico nella sua capacità di ricezione è solo il terminale di problematiche più articolate, che vanno dall’inquinamento imposto per legge – vedi inceneritori, case automobilistiche, alimentazione insalubre da multinazionali etc – per non anticipare quali picchi di morti si raggiungeranno quando sarà attivo l’accordo USA-Europa (TTIP) che darà nelle mani delle multinazionali tutte le nostre condizioni di vita, dall’agricoltura alla sanità. Forse la stessa OMS che ci consiglia di combiare stili di vita, a iniziare dall’alimentazione, non è al corrente, come la maggioranza delle popolazioni europee tenute all’oscuro, di questo accordo mortale.

Anche su questa prospettiva, che noi comunisti abbiamo chiamata liberista (libertà di vita e di morte) c’è il silenzio e l’immobilismo pre coma dei sindacati, nonostante gli inviti espliciti del governo e del suo sistema d’informazione, a “morire al più presto possibile”. La domanda è ineludibile, a quando una rifondazione del sindacato?

La risposta è dovuta, obbligata dal rapporto stabilito con la nostra delega mensile a rappresentarci. E’ in gioco la nostra condizione di vita, e non solo quella lavorativa.

Franco Cilenti

www.lavoroesalute.org Editoriale del numero di Marzo

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