Smartworking e nuovi spazi di lavoro: come cambiano i beni collettivi locali

Il lavoro in remoto in questi mesi ha consentito di mantenere in attività una quota significativa di aziende e di preservare il posto di lavoro di milioni di lavoratori. Al tempo stesso, ha portato a sperimentare forme alternative di organizzazione del lavoro.

Il Rapporto Istat 2020 ci mostra che prima della pandemia (nel 2019) solo lo 0,8 per cento degli occupati italiani ha usato la propria abitazione come luogo principale di lavoro, il 2,7 per cento come luogo secondario, mentre il 2,2 per cento ha lavorato da casa in modo occasionale. Complessivamente, meno del 6 per cento aveva sperimentato il lavoro da remoto al momento del lockdown. Si tratta prevalentemente di indipendenti e lavoratori autonomi senza dipendenti, che svolgono una professione qualificata di tipo intellettuale e vivono nel Nord Italia.

Secondo il rapporto Istat “Situazione e prospettive delle imprese nell’emergenza sanitaria COVID-19”, durante il lockdown il lavoro da casa ha coinvolto quasi un quarto delle imprese italiane, con evidenti differenze in base alle dimensioni: 18,3 per cento delle microimprese, 37,2 per cento delle piccole, 73,1 per cento delle unità di dimensione media e 90 per cento delle grandi. Su questa base dati, nei mesi precedenti la crisi (gennaio e febbraio 2020) ed escludendo le imprese prive di lavori che possano essere svolti fuori dai locali aziendali, solo l’1,2 per cento del personale era impiegato in lavoro a distanza. Tra marzo e aprile questa quota è salita all’8,8 per cento, raggiungendo il 21,6 per cento nelle imprese di medie dimensioni e il 31,4 per cento nelle grandi.

Anche dopo la fine del lockdown (maggio e giugno 2020) il 5,3 per cento dei lavoratori è rimasto a distanza, con percentuali che stanno salendo nuovamente in queste settimane.

Questi dati sono interessanti non solo per riflettere su quanto sta accadendo nell’attuale situazione emergenziale ma soprattutto in prospettiva. Nel suo rapporto annuale, Istat ha condotto un esercizio per stimare il grado di “fattibilità da remoto” del lavoro in Italia (quelli che, con una brutta espressione, sono stati definiti i lavori “smartabili”). Si tratterebbe di circa 8,2 milioni di occupati, pari al 35,7 per cento degli occupati. Escludendo le professioni per cui il lavoro da remoto è possibile ma si ritiene comunque preferibile l’esercizio dell’attività in presenza (come l’insegnamento) si prevede comunque una quota di 7 milioni di occupati che potrebbero lavorare a distanza. Si tratta prevalentemente di professioni attualmente svolte in misura maggiore da donne, ultra cinquantenni, del Centro Nord, laureati.

In una ricerca promossa da Aidp (Associazione italiana dei direttori del personale), il 68 per cento dei soci intervistati ha dichiarato che intende mantenere lo smartworking anche in futuro. A partire da Twitter – con effetto cascata soprattutto nelle aziende high-tech – sono numerose le aziende che hanno dichiarato che i lavoratori potranno scegliere sempre il proprio luogo di lavoro.

È sicuramente presto per fare previsioni e per capire come questi annunci verranno tradotti in prassi organizzative. La direzione però sembra tracciata ed è utile iniziare a riflettere sulle implicazioni.

In questa sede mi limiterò a una questione, finora marginale nel dibattito: l’impatto sulle economie locali.

Il lavoro agile – nella definizione adottata dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali – è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro.

La prospettiva di una diffusione del lavoro agile sposta a livello del singolo lavoratore strategie che finora hanno interessato le imprese; qui ci soffermiamo sulla delocalizzazione, ma una riflessione analoga potrebbe essere sviluppata anche per la diversificazione.

Se finora la delocalizzazione ha riguardato imprese che trasferiscono la produzione dal proprio territorio nazionale ad altri paesi dove il costo del lavoro è più basso, ora si tratta di mantenere invariata la sede ma con la possibilità di dislocare i lavoratori (almeno in parte) in nuovi spazi di lavoro. E ciò accade in una fase in cui, tra l’altro, sono in corso strategie di re-shoring.

Nel lavoro agile in senso stretto, il luogo di lavoro non è predefinito: può essere l’abitazione del lavoratore o un “luogo terzo” (per esempio, uno spazio di coworking oppure un bar o ristorante con postazioni dedicate). In generale, anche quando non lavora da casa, il lavoratore agile resta in prossimità del proprio domicilio e a questo sono associati vantaggi individuali e collettivi.

Questo riavvicinamento degli spazi di lavoro al luogo di residenza può avere un impatto rispetto alla distribuzione territoriale dei lavoratori tra Nord e Sud (con riferimento a quello che è stato definito ‘southworking’) e tra città e aree interne. Inoltre, nei contesti urbani, rende di grande attualità e interesse le progettualità legate all’idea di “città in 15 minuti”, che propone quartieri in cui tutti i servizi essenziali siano disponibili a 15 minuti a piedi o bicicletta dai residenti. È evidente che riportare i luoghi di lavoro nei contesti di vita porta a compimento il potenziale di questa visione.

L’impatto di queste progettualità di ‘città della prossimità’ può essere prefigurato a due livelli: quello della trasformazione delle aree produttive, con una riduzione della presenza dei lavoratori e il rischio di nuove aree dismesse, con conseguenti necessità di rigenerazione urbana; quello dell’offerta di nuovi servizi a livello di prossimità in aree che in passato svolgevano esclusivamente una funzione residenziale.

Per riflettere su queste trasformazioni è utile riprendere un concetto sviluppato dalla letteratura sullo sviluppo locale: quello di beni collettivi locali per la competitività, definiti come beni e servizi resi disponibili nell’ambito di un contesto territoriale specifico. Sono fattori invisibili collegati alla prossimità geografica a cui è associato il successo di piccole e medie imprese che non avrebbero le risorse per internalizzare quei beni/servizi o per acquisirli sul mercato. L’offerta di tali beni viene assicurata mediante forme di governance locale.

Nelle economie locali più competitive (nelle diverse definizioni di distretti industriali, learning regions, regioni intelligenti, milieux innovateurs) alcuni tra i più importanti beni collettivi locali per la competitività sono legati alle risorse umane, tra cui formazione professionale e ricerca e sviluppo. Se i lavoratori non risiedono necessariamente dallo stesso territorio in cui ha sede l’azienda, come cambiano le dinamiche di localizzazione dei luoghi deputati alla formazione e alla ricerca (in particolare, centri di formazione professionale e università)? Come ricreare quel circolo virtuoso tra centri di elaborazione e diffusione della conoscenza e aziende che caratterizza in particolare le economie locali più innovative (si pensi, per guardare fuori dall’Italia, alla Silicon Valley).

È poi importante chiedersi di quali beni collettivi locali abbiano bisogno le nuove economie urbane. Se la parola chiave per analizzare lo sviluppo locale nel secolo scorso era competitività ora sembrano invece emergere con più forza modelli di tipo collaborativo. Non si tratta solo di costruire reti tra imprese (collaborazione locale per fronteggiare la competizione globale) ma di costruire modelli economici in cui lo scambio di risorse possa seguire logiche ibride tra mercato e reciprocità. Questo è supportato da nuovi beni collettivi locali di tipo intangibile, come le comunità professionali (orizzontali, di prossimità e verticali, legate a appartenenze organizzative o professionali), che a loro volta necessitano di beni tangibili come le infrastrutture, anche sociali (servizi sociali e culturali). Tra le infrastrutture possiamo far rientrare sicuramente quelle per la digitalizzazione (come la banda larga) ma giocano un ruolo essenziale gli spazi e, in particolare, gli spazi collaborativi. Spazi che possono essere sia fisici (come i nuovi community hub) sia digitali, come le piattaforme di scambio di beni e servizi. Tra queste, si segnala la diffusione di piattaforme locali, che hanno come elemento qualificante il fatto di unire le reti lunghe del digitale con le reti corte della prossimità.

Ed è questa la vera sfida proposta dalla visione della città della prossimità: non un ritorno alla chiusura locale che a volte si legge in scenari nostalgici di recupero dei borghi, ma la capacità di sfruttare le connessioni della città pur mantenendo un radicamento sia economico che relazionale.

Tra le tante questioni aperte, questo scenario pone anche la questione della governance delle nuove economie urbane. Negli ultimi mesi abbiamo assistito all’emergere di prototipi interessanti – come il crowdfunding civico del Comune di Milano o la piattaforma Consegne Etiche del Comune di Bologna – che hanno in comune l’attenzione a ibridare le consolidate logiche redistributive con meccanismi di reciprocità basati su nuove comunità economiche. Il Comune non eroga servizi ma costruisce piattaforme che abilitano gli attori collettivi del territorio (dai gruppi informali, alle associazioni o le cooperative fino alle imprese private) e le loro connessioni esterne. L’amministrazione si fa carico di stabilire le regole di funzionamento necessarie per assicurare il rispetto della dignità del lavoro e favorire forme di partecipazione sociale e vigila sul rispetto di queste norme. In questo modo svolge una funzione di segnalazione nei confronti dei cittadini, promuovendo l’adozione di pratiche di produzione, distribuzione e consumo di tipo innovativo.

Se fino a pochi mesi fa le questioni principali che si ponevano rispetto a queste esperienze riguardavano la sostenibilità economica e la possibilità di replicare (se non scalare) queste esperienze, ora cambia il livello territoriale di intervento e di conseguenza gli attori coinvolti e le forme di coordinamento.

Ivana Pais

30/10/2020 https://www.eticaeconomia.it

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